Diario del pellegrinaggio in Terra Santa 2019

Emozioni
24 settembre 2019

Sono le due di martedì 24 settembre. Uno spicchio di luna fa capolino tra le nubi. Un torpedone nella notte attraversa borghi addormentati; poi l’autostrada verso Milano, destinazione Malpensa. Ci vogliono più ore a raggiungere la capitale della moda che la Terra Santa…
La meta è tanto attesa e desiderata dai cinquanta pellegrini sammarinesi e feretrani che non badano ai disagi di un viaggio estenuante. Del resto, la storia non ci racconta di ben altre avventure affrontate per raggiungere la terra di Gesù? Memorie di antichi pellegrini, di cristiani penitenti, di cavalieri in cerca di avventure, di asceti fervorosi e di crociati alla conquista del Santo Sepolcro… Tra questi pellegrini dovremo familiarizzare con la nobile Egeria (IV secolo), che ha raggiunto la Palestina partendo dalla Galizia (Spagna). Egeria ci ha lasciato il suo diario, importante per la storia, prezioso per le testimonianze e per le informazioni sugli usi e le liturgie di quell’epoca. Ma il pensiero dei “nostri” è decisamente di incamminarsi sui passi di Gesù. Nonostante qualche incontro preparatorio, il gruppo non è ancora “fatto”, ma c’è la volontà di far presto a creare legami. C’è chi offre un dolcetto, c’è chi racconta l’emozione del suo primo volo in aereo e c’è un gruppetto di amici che propone una gara: chi riesce a ricordare i nomi di tutti i partecipanti.
Si sussurra di andare a camminare sui passi di Gesù, ma si intuisce che non si tratta di calcare le sue orme su una terra, per quanto santa, ma di riscoprirlo e di ridiventare discepoli. I passi da fare sono quelli del cuore.
Affrontiamo i controlli con allegria, altrettanto le domande degli agenti della sicurezza e il labirinto che ci porta all’imbarco. Mentre il Segretario agli Esteri sammarinese è all’ONU a sorbirsi le rampogne della piccola Greta Thumberg, il carrello dell’aereo che ci porta in Israele rulla sulla pista di Tel Aviv. Applausi.
Dall’albergo di Nazaret mandiamo agli amici questo messaggio:
«Cinquanta pellegrini di San Marino e del Montefeltro sono arrivati a Nazaret, oggi 24 settembre, dopo un viaggio impegnativo. Forte l’emozione di essere nella terra di Gesù. Accanto a questa emozione spirituale i segni evidenti di una sofferenza che lacera queste terre: i lunghi e meticolosi controlli ai check in, i chilometri di muraglia che separano i territori palestinesi da quelli israeliani come lama che squarcia… Ma anche segni di speranza. Uno per tutti: le tre lingue che coesistono in un unico cartello stradale. Culture e alfabeti diversi alla ricerca di unità: arabo, israeliano, latino. Intanto si pensa e si prega per tutti quelli di casa».

Nazaret, Cana Tabor: il triangolo del “sì”
25 settembre 2019

Su Nazaret – araba in gran parte – scende il canto-preghiera dai minareti dialoganti tra loro.  Misterioso e suggestivo. Il sole ci accompagnerà con la sua luce accecante per tutta la giornata. Siamo in Oriente, la terra delle grandi religioni. Per noi tutta la giornata è illuminata da un’altra luce: quella di Dio che, “stanco” dei tanti tentativi dell’uomo di raggiungerlo, scende, si fa vicino, si fa bambino nel grembo di una fanciulla di questa cittadina, allora un villaggio di 150 persone, sì e no. Qui si impara immediatamente che la mistica autentica non è fuga dalla realtà. Ce lo ricordano il gallo dei vicini che ci sveglia alle prime luci del giorno, i ragazzi che affrontano allegramente la scuola, correndo e giocando per le stradine, il mercato pieno di odori, di colori, di sapori e di ceste che tracimano di frutti e verdure. Ma soprattutto ci richiama alla concretezza la memoria della vita che qui Maria, Giuseppe e Gesù (bambino, adolescente, giovane) hanno trascorso giorno dopo giorno, come tutta la gente del villaggio. I trenta anni di vita nazaretana del Messia ci raccomandano la preziosità del quotidiano: relazioni, famiglia, lavoro… Sulla casa di Nazaret non c’è svolazzo di angeli, ci fu appena nell’annunciazione e nei sogni di Giuseppe. La Santa Famiglia ha i piedi ben piantati per terra.
Poco distante da Nazaret sorge il villaggio di Cana. Tutti sanno del miracolo che vi accadde e della gioia degli sposini salvati in extremis dall’intervento di Gesù per intercessione di Maria. Qui i nostri pellegrini rinnovano con evidente commozione le promesse del loro matrimonio: rinnovata presa di coscienza del reciproco appartenersi e della missione coniugale. C’è un dipinto alle pareti della cappella; mette in evidenza le sei giare vuote. Sì, perché l’amore è a rischio, ma la Madonna, che vede la situazione, non ci sta che dal “più” si scenda al “meno”: calo di interesse, stanchezze, delusioni, ecc.
Si torna da Cana certi che le giare sono di nuovo strapiene e… di buon vino!
Si sale al Tabor, la montagna identificata come il luogo della trasfigurazione. Dopo la visita e le spiegazioni c’è il tempo per piantare le “tre tende”. Effettivamente, come Pietro, anche noi non riusciamo a trattenere la meraviglia: «È bello per noi stare qui», ma la voce perentoriamente invita a scendere a valle, nella concretezza, dove la vita ci dà appuntamento. Torniamo a Nazaret, alla casa della Vergine e alla casa di Giuseppe: rinnoviamo il nostro “sì”.

Vorremmo sapere tutto di Gesù
26 settembre 2019

Tutta la giornata attorno ad un lago (i Vangeli talvolta lo chiamano mare)… Qui Gesù di Nazaret ha trascorso gran parte della vita pubblica. Lo inseguiamo: dal monte delle Beatitudini a Tabgha, luogo della moltiplicazione dei pani e del primato di Pietro; da Cafarnao, base missionaria di Gesù, a Magdala, la città della discepola, la Maddalena.
Per molti di noi è la prima volta e ci diventa più facile collocare gli episodi evangelici nel tempo e nello spazio; appaiono più comprensibili anche le parabole sullo sfondo della collina, della strada o del campo. Apprezziamo il contributo dell’archeologia che ha portato alla luce case, sinagoghe, macine da mulino, pavimenti: strati di altrettanti vissuti. Desta devozione immaginare dove, “probabilmente”, Gesù ha compiuto quel miracolo, ha pronunciato quel discorso, ha incontrato questo o quel personaggio. Fanno da sfondo alla vicenda di Gesù quell’orizzonte con i contorni delle case, le onde del lago, le colline, le sorgenti che dai tempi di Gesù non smettono di zampillare.
Daniela evoca un tema importante: quello del Gesù storico. Più nessuno, oggi, sostiene posizioni ottocentesche sull’argomento. Sono tante e tali le testimonianze che l’interrogativo sull’esistenza storica di Gesù è decisamente superato. La questione, semmai, è ad altre profondità: comprendere lo spessore dell’incarnazione. Davanti a questo mistero si ammutolisce. C’è chi ha pensato potesse bastare il messaggio di Gesù, l’ideale, e fare a meno della sua persona. Il Gesù della fede è dentro la storia: per questo oggi ci è venuto da accarezzare una pietra, di bere ad una sorgente, di toglierci le scarpe e bagnare i piedi nel lago… Vorremmo sapere tutto di Gesù; ogni dettaglio è uno squarcio sul mistero della sua persona. È vivo! Ci viene ricordato – è una frase che ci sta diventando cara – che «tutto ciò che fu visibile del nostro Redentore è passato nei segni sacramentali» (Leone Magno). È un passaggio non subito compreso, ma si fa strada nella celebrazione eucaristica: oggi nella chiesa moderna, eretta accanto agli scavi dell’antica Magdala. L’altare è a forma di barca. Dietro l’altare un’ampia piscina riproduce il lago e la trasparenza della vetrata permette di vedere le alture del Golan, terra contesa. Una grande scritta campeggia sull’altare: «Duc in altum». Sono le parole di Gesù a Pietro: «Prendi il largo». Poco varrebbe lo scenario, poco varrebbe rileggere quella pagina di Vangelo, se Gesù non venisse, fatto pane, sulla barca della nostra vita. Meno male che c’è l’Eucaristia!

“Ti condurrò nel deserto e parlerò al tuo cuore”
27 settembre 2019

Camminiamo sui passi di Gesù dalla Galilea alla Giudea. Attraversiamo la Samaria. Facciamo memoria della donna samaritana che al pozzo di Giacobbe ha la fortuna di incontrare Gesù. Fa parte di coloro «che non adorano a Gerusalemme», ma verso i quali Gesù ha una particolare considerazione. Lungo il viaggio – si attraversano luoghi deserti – c’è il tempo per un excursus sulla storia di Israele. La chiamiamo ormai “storia della salvezza”, perché in essa Dio, non solo scrive dritto su righe storte, ma fa convergere tutto al Messia Salvatore. Arriviamo al luogo dove Giovanni battezzava. Sappiamo che tante esperienze religiose vedono nell’acqua un simbolo di vita e di purificazione. Il Battista ne ha fatto il segno della preparazione necessaria alla venuta del Messia, ma ha annunciato un battesimo di fuoco nello Spirito. Sarà il battesimo di Gesù. Ed è quello che vogliamo rinnovare, memori del giorno in cui, ancora bambini, abbiamo goduto di questo dono. Il luogo in cui ci fermiamo è in prossimità di Gerico, località caldissima. Ci sono mosche che, nonostante il vento che soffia rovente, ci girano sulla faccia, si fermano sul naso e… guai ai calvi! Gli uomini, infatti, si son tolti il cappellino-distintivo perché è iniziato il rito. Con solennità rinnoviamo le promesse battesimali. Non ci viene taciuta la «porta stretta» per cui occorre passare per essere discepoli. È giunto il momento tanto atteso. Lasciamo l’ombra sotto il gazebo e ci incamminiamo giù verso la riva del Giordano. Sorpresa: lo spazio è occupato da un gruppo di entusiasti sudafricani. Uno dopo l’altro scendono nell’acqua fangosa del Giordano per immergersi. Qualcuno vi rimane a lungo in preghiera estatica. Noi ci accontentiamo di attingere un catino e, con una conchiglia, ci lasciamo bagnare il capo. Nel rito ci sentiamo rituffati in Dio Padre, Figlio, Spirito Santo. Ricordiamo le parole che – secondo i Vangeli – sono risuonate qui, fra queste dune, su questo corso d’acqua: «Tu sei figlio mio, l’amato, sorgente della mia gioia». Parole dedicate al Figlio Gesù e a ciascuno di noi, figlio nel Figlio.
Ripartiamo. Destinazione Qumran. Chi legge questa cronaca probabilmente ha sentito parlare di questo sito, dove viveva la comunità degli Esseni, personaggi del III secolo a. C. in fervorosa attesa della battaglia finale fra i figli della luce e i figli delle tenebre. Naturalmente pensavano di essere loro i figli della luce. Conducevano una vita austera, casta, ritirata dal mondo verso il quale nutrivano un certo risentimento. Custodivano e trascrivevano i Sacri Testi. Dopo la loro fine se ne perderà la memoria e il deserto farà il resto. Solo nel 1947 la scoperta: le grotte in cui gli Esseni si rifugiavano custodiscono preziosi e antichissimi rotoli del Sacro Libro. Forse è la più importante scoperta dell’archeologia contemporanea. Si tratta di pergamene risalenti al II-III secolo a. C. La Bibbia, come oggi la leggiamo, è identica a quella ritrovata a Qumran! Guardiamo l’imboccatura di quelle grotte come alle porte dei nostri tabernacoli: lì dentro è stata custodita per oltre duemila anni la Parola che si è fatta inchiostro e scrittura, prima di farsi carne. Dio è giunto a noi anche così!
La località di Qumran è ad appena qualche chilometro dal mar Morto. Acque salatissime, ma benefiche. Molti dei nostri pellegrini si sono attrezzati: dallo zaino estraggono costume, ciabatte e asciugamano e si tuffano. Per le caratteristiche dell’acqua, anche Raffaele, che non sa nuotare, può distendersi beato e galleggiare.
Solo un accenno: a Gerico rileggiamo il racconto evangelico di Zaccheo che sale sul sicomoro per vedere Gesù, essendo piccolo di statura. I macianesi pensano immediatamente a don Lazzaro, il loro amato parroco emerito. Ancora a Gerico l’altro racconto: la guarigione del cieco che, gettato il mantello, si mette a seguire Gesù. È l’ultimo episodio prima della Passione. Il cammino si fa più serrato.
Ci prepariamo ad uno dei momenti più emozionanti. L’autista riesce a penetrare nel deserto di Giuda. Non c’è sabbia, ma dune di arido terriccio e sassi. Ad un certo punto si procede a piedi per un sentiero stretto ed esposto che s’arrampica tra le dune. In un piccolo spazio prospiciente una valle profonda celebriamo la Messa. È un momento altissimo. Riascoltiamo le parole del profeta: «Ti condurrò nel deserto, parlerò al tuo cuore… Ti fidanzerò nell’amore e nella fedeltà… ». Le parole invitano Israele a ripensare il tempo della prova e del fiducioso abbandono: spiritualità dell’esodo, paradigma per la nostra vita di fede.
Comprendiamo il contesto e il significato delle tentazioni subite da Gesù (abbiamo non lontano il monte delle tentazioni). Anche a noi, nella traversata del deserto della vita, come ad Israele siamo in balia della fame e della sete, con i nostri sogni di gloria e le nostre disillusioni: «Se non mi arrangio io, chi altri pensa a me?». Gesù ha superato la tentazione: si è fidato del Padre.
Scendiamo al pullman e non possiamo evitare i beduini che ci assalgono con le loro mercanzie. E via verso Bethleem.

Canti natalizi con 34 gradi…
28 settembre 2019

Betlemme. Intoniamo canti natalizi… con 34 gradi e col sole a picco. C’è da fare una lunga coda per scendere alla grotta della Natività: un serpentone multicolore, plurilingue, multireligioso. Nel luogo dell’umiltà incarnata c’è chi fa il furbo: scavalca, urta, sgomita. Nonostante i buoni propositi ci si inquieta. Effettivamente l’arroganza suscita indignazione. Cerchiamo di mantenere la calma. C’è chi sa vedere il positivo: «Guarda quanti sono attirati da Gesù». In verità, tra i pellegrini si sono infiltrati turisti, cristiani per caso e scatenati fotografi. Abbiamo l’auricolare, strumento indispensabile per questi giorni e soprattutto qui per ascoltare le spiegazioni di Alessandra, la nostra guida. Passa più di un’ora quando finalmente si comincia a fare qualche passo. Tentiamo di mantenere il raccoglimento e di fare argine alla superficialità che ci sembra di cogliere attorno. Sussurriamo il Rosario meditando i misteri gaudiosi. Ci riconciliamo con la folla. Ci sembra una metafora della Chiesa di oggi. Ormai siamo a pochi passi dalla grotta. Scendiamo la scaletta. Sotto un altare una grande stella d’argento a quattordici punte incorona il luogo della nascita di Gesù, secondo l’antica tradizione. Stare in fila tanto tempo ci ha aiutato a focalizzare bene quanto ognuno ha da dire e da chiedere al Signore. Il tempo è pochissimo: una genuflessione, un bacio o una carezza sulla stella. Strano: gli uomini della sicurezza ci consentono di fare un altro canto natalizio.
Ripensando al nostro atteggiamento prima e durante la sosta a questo luogo, ci sembra d’aver creato “una bolla di preghiera” contagiosa per chi ci sta attorno. Non usciamo dalla porticina come avevamo fatto all’ingresso. Quella porticina viene chiamata “dell’umiltà”: per oltrepassarla ci si deve piegare e alleggerire dal proprio orgoglio. Solo così si arriva al Signore. Passiamo alla Grotta del Latte, un luogo mariano. A dispetto della confusione di prima, troviamo un’oasi di assoluto silenzio. C’è una comunità di monache che ci offre ospitalità eucaristica: un’ampia cappella con l’Eucaristia esposta per l’adorazione. Molti di noi prolungano il silenzio adorante e su cartoncini scrivono richieste di preghiera da affidare a quelle sante donne. Al campo di pastori, più sotto, si narra un simpatico racconto. I pastori vanno dal Bambino Gesù con i loro doni. Solo uno non ce la fa ad arrivare: è anziano e un po’ sbadato. Giuseppe, avvertito da un angelo, prepara la cavalcatura per la fuga. Maria ha in braccio il bambino. A questo punto – son tutti pronti per partire – il bambino strilla. Che cos’ha? Neppure le carezze della più dolce delle mamme riescono a placarlo. Non si può partire. Il bambino piange. Arriva il ritardatario, l’ultimo dei pastori sotto il carico del suo dono, ma soprattutto dei suoi anni. A quel punto il bambino non piange più. È arrivato l’ultimo. Non c’è più motivo di indugiare.
La giornata si conclude ad Ain Karen, il villaggio dove Maria incontra Elisabetta e dove nascerà Giovanni Battista. Preghiamo il Benedictus e il Magnificat. Il luogo è verdissimo e pieno di fiori. Tutto ci parla di affettuose cronache familiari che assurgono, però, a tappe importanti della storia della salvezza. Si respira la spiritualità degli anawìm, i piccoli che tutto si aspettano, fiduciosi, da Dio. È quell’Israele pronto ormai ad accogliere il Messia: Zaccaria, Elisabetta, Simeone, Anna, Giuseppe e Maria di Nazaret.
Fa un certo effetto e rende pensosi la fine tragica del Precursore.
Rientriamo a Betlemme, ancora una volta dobbiamo varcare il grande muro, passare il check point, aspettare in silenzio i controlli dei militari armati di mitra. Preghiamo ancora una volta per la pace.

Il dolore di un popolo
29 settembre 2019

La spianata delle moschee, il muro del pianto: due mondi che si intersecano nello stesso spazio. Un tempo qui sorgeva l’area sacra degli ebrei. Ora è rimasto solo il muro occidentale. Agli arabi le moschee, agli ebrei il “muro del pianto”. Avvertiamo la tensione, la si respira nell’aria nel susseguirsi dei check point, nei crocicchi di soldati e soldatesse israeliani e di agenti della sicurezza araba. Quello che potrebbe essere un modello di convivenza, in realtà è un campo di battaglia. Facciamo fatica a capire.
Ammiriamo lo splendore delle grandi moschee (di al-Aqsa e di Omar) e l’ampio spazio un tempo sito di una delle meraviglie del mondo antico: il tempio di Salomone. Chissà come l’Altissimo vede le relazioni tra gli uomini… Non possiamo entrare nelle moschee, siamo europei e cristiani. Riusciamo ad arrivare al muro del pianto. Qualcuno di noi ignora il modo di pregare degli ebrei ortodossi. Fatica a trattenere lo stupore. Ne parliamo. Questo un nostro pensiero: saper accogliere le differenze, impossibile eliminarle. La qualità della nostra vita si gioca tutta sulle relazioni: buone relazioni, vita bella; cattive relazioni, vita triste. Ma possiamo fare un passo: guardare le differenze come un valore da accogliere, che ci educa e ci costringe all’apertura. Il resto di questa lunga mattinata lo trascorriamo al Museo Yad Vashem. Sostiamo orgogliosi davanti alla targa che ricorda un sammarinese che ha meritato di essere onorato come un “giusto”: Ezio Giorgetti. A lui è dedicato un albero nel parco della memoria. Entriamo nel Museo. Nella grande sala centrale, quasi un tempio, un soffitto di pietra sovrasta pesante sui visitatori: una pietra tombale. Una lampada arde tra le scritte sul pavimento di marmo nero che ricordano i campi di concentramento nazisti. Entriamo poi in un tunnel che ci porta in un ampio spazio completamente buio, dove brillano migliaia di stelline. Ognuna rappresenta un bambino vittima nei lager. La voce fuori campo ripete i loro nomi, uno dopo l’altro: un’angosciante litania. Quando torniamo alla luce più di uno si sta asciugando le lacrime. Entriamo nel padiglione che raccoglie la documentazione dell’olocausto. Siamo come ingoiati in un dolore immenso. Al rientro rileggiamo una lettera inviata dal Vescovo agli studenti del nostro Liceo in visita ad Auschwitz, nel 2016. Ecco qualche riga: «Nella sinistra oscurità di Auschwitz verranno a mancarvi perfino le parole, resterà solo uno sbigottito silenzio. In questo atteggiamento di silenzio inginocchiatevi profondamente nel vostro intimo davanti alla schiera di coloro che qui hanno sofferto e sono stati messi a morte. Il vostro è un viaggio della memoria, ma il passato non è mai solo passato: ci riguarda e indica le vie da non prendere e quelle da prendere. Ascoltate le parole che sgorgano dal cuore e trasformatele, se volete, in un grido interiore verso Dio: “Perché, Signore, hai taciuto? Perché hai potuto tollerare tutto questo?”. È preghiera che io chiamo “preghiera del Perché?”, la stessa che ha fatto vibrare le labbra del Cristo Crocifisso: “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?”. È il grido di tutti coloro che nel corso della storia – ieri, oggi e, non vorrei dirlo, domani – soffrono per amore della verità, della libertà e del bene, e di coloro che soffrono anche senza un motivo se non per l’irrazionalità e la prepotenza di uomini malvagi e di poteri iniqui. In questo viaggio proponetevi: di condurre la ragione a riconoscere il male e a rifiutarlo; di suscitare in voi il coraggio del bene, della resistenza contro il male; di fare vostri quei sentimenti che Sofocle mette sulle labbra di Antigone di fronte all’orrore che la circonda: “Sono qui non per odiare insieme, ma per insieme amare” (cfr. Sofocle, Antigone, v.497-525)».
Nel pomeriggio visitiamo il Cenacolo. Per noi è un cuore pulsante: qui Gesù lava i piedi agli apostoli, dà il comandamento nuovo, istituisce Eucaristia e sacerdozio, promette lo Spirito e prega per l’unità. Nel Cenacolo accadono le apparizioni del Risorto (quella senza Tommaso e quella con Tommaso) e la Pentecoste, inizio della Chiesa. Qui è necessaria una sosta. Entriamo nel giardino accanto. I francescani ci consentono di riposare. Decidiamo di “staccare la spina”, di riflettere sulle emozioni del mattino e di interiorizzare i palpiti del Cenacolo. C’è la possibilità della Confessione: sono con noi don Alessandro e don Flaviano. Il Cenacolo è di proprietà araba, ma è uno spazio spirituale ed un’atmosfera educativa per tutti.

Commozione, lacrime e molta preghiera
30 settembre 2019

La giornata si apre nella chiesa che custodisce la memoria della tomba della Madonna. Precisiamo, qui non c’è il suo corpo: è stata assunta in Cielo. Facciamo in tempo ad assistere all’ultima parte del rito greco-ortodosso. Siamo scesi per una lunga gradinata, fin quasi all’iconostasi, al di là della quale il sacerdote celebra l’Eucaristia. Ci commuove il gesto di una giovane donna che si avvicina per porgere un frammento del pane benedetto che al termine della Messa viene condiviso tra i presenti. La chiesa è fitta di lampadari appesi alla volta. Nuvole di incenso aleggiano sulla navata. Mettiamo anche noi le candeline votive sul candelabro. Ogni fiamma è una preghiera…
Il resto della mattinata è un susseguirsi incalzante di visite a luoghi santi e cari ai cristiani di tutte le confessioni. Siamo gomito a gomito con pellegrini statunitensi, coreani, tedeschi, con fratelli ortodossi di varie appartenenze e protestanti piuttosto compassati. Per chi legge probabilmente è solo un elenco, per noi è una sequenza di forti emozioni: grotta del Getsemani, orto degli ulivi, terrazza del Dominus Flevit. Quando scendiamo alla chiesa dell’Agonia i pellegrini diventano un fiume straripante. Eppure, è possibile avanzare ascoltando la lettura dei fatti evangelici legati ai luoghi: gli auricolari fanno un ottimo servizio! Siamo trasportati dentro a quegli avvenimenti. Nella Messa ci viene ricordato come Gesù, nella Passione, continua a soffrire, a pregare, ad amare. Si imprimono nella memoria le sette parole di Gesù in croce: «Ho sete», «Tutto è compiuto», «Padre, perdonali», «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito», «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?», «Donna ecco tuo figlio, figlio ecco tua madre».
Nel pomeriggio l’attesissima Via Crucis: da vari giorni sono state distribuite le stazioni. A quindici amici viene chiesto di preparare le meditazioni. Non saranno testi convenzionali, ognuno cercherà di condividere un dolore vissuto e scavalcato alla luce della speranza che viene dalla fede. C’è commozione. Qualche lacrima. Molta preghiera. Eppure, la processione si distende (siamo in cinquanta!) tra le stradine della Gerusalemme vecchia, luogo del mercato: mille bancarelle, negozietti uno addossato all’altro, tanta gente che sale e scende, ragazzini che svicolano tra i pellegrini. Nessuno si meraviglia quando cantiamo. Non disturbiamo il brulichio del bazar, ne facciamo parte: il brulichio attorno non disturba la nostra preghiera. Arriviamo al Santo Sepolcro. La scritta è in greco, ma per chi lo sa leggere è chiara: «Non è qui. È risorto dai morti». Sembra ricacciare tutti ad una più vera ricerca di Gesù: «Cercatelo dove è vivo. Cercatelo altrove!». Anche qui una coda interminabile. Ma siamo preparati. I piedi ci dolgono e ogni passo in avanti ci pare una conquista. La grande basilica costantiniana – lo sappiamo bene – è proprietà musulmana, ma lo spazio sacro è rigorosamente spartito, secondo le regole dello “status quo”, da cinque confessioni cristiane. È paradossale quanto siamo vicini e quanto è difficile l’ecumenismo. Finalmente, a gruppi di cinque o sei, entriamo nel Santo Sepolcro. Non è consentito fermarsi; si resta un attimo, si accarezza la pietra su cui il corpo di Gesù ha sostato per un giorno, prima della risurrezione: questa è la testimonianza dei primi discepoli ed il fondamento della fede cristiana. Visitiamo altri angoli ed altre cappelle interne alla basilica. Ci fermiamo a quella che, secondo la tradizione, racchiude la cima del Calvario. Sotto un altare c’è il buco dove fu piantata la croce. Possiamo allungare la mano dentro a quei trenta centimetri di vuoto, ma in realtà sono una voragine di dolore e di amore. «Avendo amato i suoi, li amò sino in fondo»: fino al dono totale di sé, dal primo all’ultimo, fino al fondo del loro mistero, fino alla profondità del suo amore, “buco nero” che annulla tutto il negativo…
La giornata è stata decisamente piena. A casa, come ogni sera, condivisione: perché nulla vada perduto.

Lo sguardo di Gesù su ciascuno
1 ottobre 2019

Ultimo giorno. A molti succede di svegliarsi prima del tempo. È ancora buio. Il gallo canta. Dai minareti si leva la melodia della preghiera del Muezzin. Alcuni di noi sono in terrazza a contemplare l’alba su Betlemme. Radiosa. Le valige sono la prima preoccupazione: come trovarvi un posticino per i piccoli doni da portare a casa? L’ordine è di essere ancor più puntuali del solito. In autobus fa la sua comparsa la nuova parola di vita. Ogni giorno, immancabilmente, accompagna il gruppo sui passi di Gesù: dalla ricerca delle tracce storiche al fare proprio il suo programma. Questa mattina la parola ci consegna il testamento di Gesù: «Vi do un comandamento nuovo…».
Lasciamo Betlemme con un po’ di nostalgia. Destinazione Gerusalemme, precisamente San Pietro in Gallicantu e attigua “scaletta” dove Gesù, la sera del Giovedì Santo – secondo la tradizione – è passato due volte: una da libero, l’altra da prigioniero.
La chiesa di San Pietro in Gallicantu include importanti scavi archeologici. Si presume fosse qui la residenza di Caifa con annessa la cisterna dove temporaneamente è stato rinchiuso Gesù nella concitata notte del processo. Nel cortile della casa di Caifa il “principe degli apostoli” per tre volte rinnega Gesù, messo in buca dalle insinuazioni di una servetta e di qualche passante. L’episodio è raccontato da tutti i Vangeli, senza risparmiargli la figuraccia. Meditiamo sul testo di Luca. Ci riferisce lo sguardo che Gesù, incatenato, rivolge all’apostolo. Ognuno di noi sente rivolto a sé quello sguardo. Prolunghiamo la sosta. Inevitabile il confronto con l’apostolo Giuda, il traditore. A differenza di Pietro, Giuda, preso dal rimorso, si fa orgogliosamente giustizia da sé. Il suo pentimento è sterile, mentre quello di Pietro è fecondo, perchè lo trascina fuori da sé e lo pone davanti alla misericordia di Gesù. Pietro piange. Di dolore? Di commozione? In ogni caso per amore.
La scaletta è di epoca romana. Gesù ha calcato i piedi su quelle pietre, ma ci interessa rileggere la sua preghiera per l’unità riferita al capitolo 17 di Giovanni: «Padre, che tutti siano una cosa sola come io e te…». È il sogno di Gesù, è il segno distintivo dei discepoli: «Perché il mondo creda».
C’è un terreno attorno alla scaletta. È stato acquistato dal Movimento dei Focolari per custodirla e per creare attorno uno spazio a servizio della pace e dell’unità. Da una parte quel fazzoletto di terra confina con le proprietà di un ebreo ultraortodosso, dall’altra con abitazioni palestinesi. Nella parte alta è in prossimità del Sion ebraico, in discesa si affaccia sulla valle del Cedron. «Detto questo, Gesù uscì con i suoi discepoli e andò di là del torrente Cedron, dove c’era un giardino nel quale entrò con i suoi discepoli». Preghiamo per l’unità. Ci incuriosisce il carisma del Movimento dei Focolari.
Tempo libero. Destinazioni a scelta. Nessuno resta in pullman. C’è chi torna alla Gerusalemme vecchia per una veloce attraversata del mercato ed un ultimo saluto al Santo Sepolcro (da fuori, perché impossibile entrare, tanta è la calca). C’è chi preferisce una puntata agli scavi che hanno dato alla luce quel che resta della piscina di Siloe. Qui Gesù ha sanato il paralitico che da trentotto anni aspettava l’aiuto di qualcuno per essere tuffato in quelle acque salutifere (probabilmente l’acqua vi scorreva con un flusso intermittente; la gente attribuiva il “moto dell’acqua” ad un intervento angelico). «Vuoi guarire?», chiese Gesù. La risposta del paralitico: «Come posso se nessuno mi aiuta ad immergermi nell’acqua?». Qualcuno ha letto in questo episodio la propria esperienza e il proprio bisogno di essere soccorso. Per verità l’aiuto è venuto.
Lì accanto, la tradizione indica il luogo dove sorgeva la casa di Gioacchino e Anna, i genitori della Madonna. Entriamo nella chiesa eretta in epoca crociata, l’unica rimasta intatta. Inconfondibile lo stile, austero ed elegante. È celebre per la sua acustica. Ha provato a cantarvi anche Andrea Bocelli… Non rinunciamo anche noi ad eseguire un canto a due voci. Prima ha cantato un coro di coreani; tra loro un tenore con una voce con notevolissima estensione. Qui non si canta per esibirsi, ma per dare lode a Dio e fare omaggio alla Madonna. Finisce così il nostro cammino in Gerusalemme.
Sulla via del ritorno facciamo tappa ad Emmaus Nicopolis (diversi i siti che rivendicano di conservare la memoria della cittadina “distante 11 chilometri da Gerusalemme”), dove due discepoli vengono raggiunti da Gesù mentre sono in uscita dalla città santa.
La raccomandazione che ci facciamo è di terminare il pellegrinaggio “in salita”. Quello che ci aspetta è tutt’altro che un’appendice del viaggio. Proviamo insieme e da soli a rispondere alla domanda: che cosa è cambiato in noi dopo questi giorni di cammino in terra di Gesù? C’è il tempo per uno scambio e una comunione d’anima.
È l’ascolto della parola che fa riconoscere la presenza di Gesù Risorto. Così è stato per i due viandanti di Emmaus: il loro cuore ardeva nell’ascolto delle sue parole e i loro occhi si sono aperti mentre spezzava il pane. È stato così per i pescatori sul lago. È stato così per Maria di Magdala: aveva scambiato Gesù per il custode del giardino. Quando Gesù la chiama per nome, lo riconosce.
Lasciamo Emmaus Nicopolis con questa risoluzione: ascoltare e vivere la parola, partecipare alla “frazione del pane”, per fare ogni volta la scoperta che Gesù è vivo ed è vicino.

I passi da fare: quelli del cuore
2 ottobre 2019

Aeroporto “Ben Gurion” di Tel Aviv: persone di provincia in un aeroporto così grande e moderno non possono che sentirsi in soggezione! Tra gli aeroporti del mondo è sicuramente il più presidiato per motivi di sicurezza. Mentre ci avviamo finalmente al nostro gate, non riusciamo a nascondere un velo di nostalgia. Troppo forte l’esperienza degli otto giorni in Terra Santa.
Eravamo partiti con un’idea: calcare i passi di Gesù, percorrere le strade del suo tempo, accarezzare le pietre del suo passaggio, colmare occhi e cuore degli orizzonti e dei paesaggi che anche Gesù ha guardato.
Torniamo con un’altra convinzione: il cammino sui passi di Gesù è esperienza che riguarda il cuore. Un grande merito di questo progresso dell’anima va ad Alessandra, la guida che ci ha accompagnato con professionalità, competenza e grande umanità. Non è stata il solito “cicerone”, ma un’amica per tutti, a volte maestra, a volte interprete, altre volte catechista.
Il boeing della “El Al” si alza in volo e, benché sia ormai tramontato il sole, vediamo chiaramente dall’oblò il ricamo della costa sul Mediterraneo. Abbiamo tutto il tempo – il volo durerà quasi quattro ore – per riflettere sull’esperienza vissuta e… per dormire, chi riesce. Si affollano ricordi. Ritornano immagini. Banalità: come i pasti al self service (immancabili riso, salse, verdure pasticciate, ma anche qualche tentativo di spaghetti o altra pasta all’italiana), come l’inseguimento di venditori nelle piazze e nelle viuzze, insistenti e petulanti e, alla fine, pure simpatici, come la preoccupazione di portare a casa un ricordo e un pensiero per tutti, magari anche solo un rametto d’ulivo o una carruba trovata per terra ricordando la parabola del figliuol prodigo… Non solo particolari esilaranti: rimane la volontà di tenersi in contatto e di rafforzare l’amicizia tra i partecipanti; rimangono le tante riflessioni ascoltate e, soprattutto, quei “sì” pronunciati a Cana di Galilea e sulle rive del fiume Giordano.
In tutti si è rafforzato l’impegno di pregare ogni giorno per la pace. Si è fatta più forte la convinzione che il Risorto va trovato nelle nostre comunità, dove due o più sono riuniti nel suo nome, va abbracciato in chi soffre, provando a condividere almeno un poco di quella sofferenza.
Nazaret, Betlemme, Gerusalemme… la nostra casa, il nostro borgo, la nostra città.

Diario del Pellegrinaggio a Fatima 2017

Primo reportage da Fatima
6 settembre 2017

L’aereo è già sulla pista, pronto ad imbarcare i cinquanta pellegrini che, in rappresentanza dell’intera diocesi di San Marino-Montefeltro, decolleranno per il Portogallo. Destinazione Fatima. Poche ore di volo, ma tante di attesa (problema la sicurezza in questi giorni di “guerra a pezzi”). Le valigie sono ormai al sicuro nella stiva del Boeing della Ryanair… E nei cuori tante attese e grappoli di preghiere da adagiare ai piedi della Vergine. Col taccuino e la penna mi aggiro a caccia di pensieri ed emozioni. Curioso tra i pellegrini. Raccolgo impressioni, chiedo i “perché” di questo viaggio. Dopotutto la meta turisticamente non è tra le più gettonate, senza nulla togliere al fascino di Lisbona immortalato in celebri pellicole, o al grande orizzonte lusitano sull’oceano Atlantico da dove Cristoforo Colombo è salpato alla scoperta del nuovo mondo (un vero spettacolo dall’oblò dell’aereo). La Cova di Iria non riserva nulla di spettacolare: terra povera e sassosa, terra collinare e di pascoli. Qui, il 13 maggio di cent’anni fa, tre pastorelli, Lucia, Francesco e Giacinta, mentre pregano il Rosario, d’improvviso scorgono su un arbusto una signora vestita di bianco. È l’inizio delle apparizioni della Madonna: per sei mesi consecutivi la Vergine si presenterà ai pastorelli e parlerà a Lucia chiedendo preghiere, penitenze e conversione per la pace nel mondo. Il momento era drammatico: nel 1917 la prima guerra mondiale era in corso e in Russia si è compiuta la “rivoluzione d’ottobre”. A Fatima risuona ancora oggi l’invito a contrastare la logica della violenza con la fede. Un’esortazione quanto mai attuale data la caotica situazione che il mondo sta vivendo. Per questa ragione, sei mesi fa, papa Francesco, seguendo le orme dei predecessori è andato a Fatima come pellegrino di pace e di speranza e per proclamare la santità di Giacinta e Francesco, morti poco dopo le apparizioni. Per Lucia, che si è spenta nel 2005 nel monastero in cui aveva deciso di entrare come religiosa, ci vorrà ancora un po’ di tempo.
«Sono qui per vedere se Fatima mi suscita qualcosa dentro»: così mi confida una giovane signora poco disposta ad indulgere ad emozioni artificiose. Si direbbe che è alla ricerca di qualcosa di autentico che possa arricchire il suo cammino di fede. Una coppia di sposi vive il pellegrinaggio come una sorta di ritiro: «Ci hanno parlato del clima spirituale che avvolge Fatima e dintorni. Spettacolare la grande basilica, ma con la possibilità di godere spazi di raccoglimento e di preghiera. Abbiamo bisogno di questi tre giorni speciali e forti». «Effettivamente il programma per i nostri pellegrini – interviene Chiara Ferranti, guida del viaggio – offre momenti intensi di preghiera, ma anche di conoscenza dell’ambiente». «Sono qui per coronare il cammino di questo anno centenario – conclude un sacerdote – ho da adempiere una promessa». Per molti pellegrini è la prima volta. Qualcuno è già stato e tiene banco azzardando confronti tra Fatima e Lourdes. Ci sono dei momenti nei quali può succedere di sentire con l’anima una particolare presenza di Maria. In tutti prevale l’attesa, il desiderio di un incontro, la voglia di scoprire un rapporto più profondo con la Madre del Signore Gesù. E poi – come in ogni pellegrinaggio – la scoperta di nuove relazioni: davvero una bella compagnia.
A Fatima si pregherà per la pace, per le famiglie e soprattutto per la Diocesi che nel mese di settembre si appresta a vivere momenti importanti: l’inizio solenne della Visita Pastorale del Vescovo, il Mandato agli operatori pastorali e l’apertura dell’anno pastorale. Il 13 maggio scorso – sarà bene ricordarlo – diocesi, parrocchie e famiglie sono state consacrate al Cuore Immacolato, una consacrazione che ha comportato l’assunzione di precisi impegni: la difesa della vita dal suo inizio al suo naturale termine, la costruzione dell’unità in parrocchia e l’ascolto e l’educazione dei giovani.

A Fatima è pieno giorno!
7 settembre 2017

Ressa di pellegrini. Spostamenti frequenti. C’è chi resta indietro, c’è chi è in testa. Punto di riferimento per il nostro gruppo è “il muro di Berlino”: si tratta di un segmento di cemento che proviene dalla città tedesca, donato da San Giovanni Paolo II all’indomani dell’abbattimento del muro che tagliò in due Berlino. Ogni volta che entriamo nello spazio sacro del santuario sta davanti a noi come una lacrima pietrificata: simbolo di divisione, di sofferenza, di morte e di morti.
Ricordo bene quando il muro fu eretto (all’epoca ero un ragazzino che cominciava a capire): ci appariva come una lama che squarciava in due l’Europa. Qui si prega per la pace. Fatima è così: spiritualità profonda e radicamento nella storia, profezia e realismo. Il messaggio è chiaro: la pace dipende da te. Anche se sei un “piccolo”, i destini del mondo passano, in qualche modo, dalle tue mani e dal tuo cuore disposto alla conversione.
L’invocazione alla Vergine ti esce semplice e convincente: le parli delle persone che si sono raccomandate al tuo ricordo e poi delle infinite altre che, proprio in questi giorni, sono sotto la minaccia della guerra.
Poi si sta alla scuola di Maria per imparare a dire “sì”.
Il nostro gruppo – i cinquanta pellegrini di San Marino e del Montefeltro – si unisce agli altri pellegrini della Romagna.
A sorpresa mi viene chiesto di presiedere la processione eucaristica notturna.
Salgo i gradini dell’altare candido. Alle spalle la piccola statua della Madonna, un tentativo ambizioso di raffigurare la Signora che i tre pastorelli hanno visto; davanti ho la folla dei pellegrini che al canto dell’Ave alzano i flambeaux: un mare di luci. Poi ci inginocchiamo tutti davanti all’Ostia.
«È tanta la fame dell’umanità – diceva profeticamente il mahatma Gandhi – che se un Dio scendesse dal cielo prenderebbe la forma del pane». Davanti al “Dio di pane” siamo tuffati da capo a piedi nella profezia del mondo unito: formiamo un corpo solo. Ci sono rappresentate almeno dieci nazionalità diverse e la Repubblica di San Marino è tra queste (salutata cordialmente dallo speaker). Il vescovo di Rimini nella sua omelia riferisce un detto rabbinico. È il maestro che chiede ai discepoli il momento esatto nel quale la notte cede al giorno. C’è chi risponde «quando si distingue un pero da un melo». Qualche altro «quando si distingue una volpe da una lepre». Insoddisfatto il maestro replica: «È giorno quando vedi in chi ti passa accanto un fratello».
Per noi, cercatori di gloria – conclude mons. Lambiasi – ecco il capovolgimento divino: è Dio che scende e che si fa piccolo. Un cazzotto alla nostra idea sbagliata di Dio.
Qui a Fatima è pieno giorno!

Quando si fa strada insieme
8 settembre 2017

Suor Lucia, una delle veggenti di Fatima, non è assolutamente contenta della scultura in cedro del Brasile che Josè Ferreira Thedim ha realizzato sotto sua dettatura. È una statuetta di appena un metro e qualche centimetro, che dal 1920 è stata collocata nel luogo stesso delle apparizioni. A darle valore è certamente il richiamo simbolico, ma sul posto ci si rende conto, come quell’immagine sia – per così dire – rivestita dei milioni di sguardi fissi su di lei. Anche tra i nostri pellegrini c’è chi l’ha guardata con le lacrime agli occhi e chi ha prolungato il suo sguardo quasi in contemplazione. È questione di fede: non ho visto effetti speciali. È tutto molto semplice. Anche il territorio attorno a Fatima appare come Nazaret, luogo dell’incarnazione. Protagonisti tre fanciulli, ignari di quello che sarebbe accaduto. La Via crucis che abbiamo percorso si snoda fra i campi. Un po’ d’ombra te la offrono gli ulivi che qua e là son cresciuti sul margine della strada.
Qualcuno insinua che a Fatima si concentri un cattolicesimo tradizionale, luogo di devozione popolare soltanto. Sì, c’è un popolo intero: famiglie, gruppi di ragazzini, preti rigorosamente in tonaca nera nonostante il caldo, preti più sbarazzini, persone che esibiscono senza complessi il loro entusiasmo, altre più compassate. Ci sono anche i turisti e i curiosi. È uno spaccato del popolo di Dio in questi giorni difficili.
La liturgia è semplice ma molto curata, rigorosamente conciliare. Le preghiere, ripetute in molte lingue nazionali, non ti danno la sensazione di una Babele, semmai di una Pentecoste. Il repertorio dei canti si aggiorna, ma di frequente rispuntano le intramontabili diciotto note dell’Ave Maria di Fatima che poi continuano a risuonarti e ad accompagnarti dentro. Ho imparato – non me n’ero accorto – che molti del nostro gruppo, la mattina presto vanno alla cappella delle apparizioni per un saluto più intimo alla Madonna di Fatima (prima ancora della colazione che viene servita puntualmente alle 6.30). Domando che cosa dicono, che cosa chiedono alla Madonna. Raccolgo qualche confidenza e qualche confessione. Un’amica mi riferisce d’aver sentito in tutta la sua verità la frase di Gesù a Santa Caterina da Siena: «Mi sei piaciuta soprattutto quando eri senza parole, in silenzio davanti a me».
Le tre giornate di Fatima stanno per concludersi. Oggi, sulla via del ritorno, incrociamo una lunga carovana di pullman che salgono a Fatima. Impariamo che sono oltre 550 (nell’anno del centenario si calcola l’arrivo di 8 milioni di persone).
In compagnia di una guida italo-portoghese abbiamo la possibilità di capire qualcosa della storia e della civiltà lusitana (del Portogallo) e del cammino contorto che l’ha resa una potenza tra le più importanti dell’Europa, aperta a quella che viene chiamata la stagione delle scoperte (attenzione, ripete la guida, è riduttivo parlare di scoperta dell’America). Abbiamo tempo per visitare due straordinari edifici religiosi, due chiese esempio del gotico cistercense: si slanciano per oltre cento metri con fasci di colonne che ne aumentano il misticismo. Misticismo, austerità, bellezza: uno shock per tutti!
Poi chiudiamo con una visita veloce alle città regali Coimbra e Oporto. Intanto la compagnia è sempre più coesa. Succede sempre quando si fa strada insieme. Ma qui c’è di più. Lo si è sperimentato nei momenti di comunione d’anima. Ti accorgi allora di come si vive della fede degli altri e si mette a disposizione la propria.
L’ultimo atto in terra lusitana è la Messa. C’è il Vangelo che riporta la promessa di Gesù: «Dove due o più sono uniti nel mio nome io sono in mezzo a loro». Noi ne abbiamo fatto esperienza.

Fatima, il giorno dopo
9 settembre 2017

Siamo già sul volo di ritorno. Dall’oblò dell’aereo guardiamo le luci del tramonto che contrastano violentemente con l’oscurità del suolo. Nel crepuscolo si distingue chiaramente il ricamo della costa sull’Atlantico. Il Portogallo è “paese di scoperte”: sogni, avventure e interessi hanno mobilitato navigatori, affaristi, missionari e… briganti; tutti disposti ad affrontare l’oceano. Noi lasciamo questa terra che porta ancora evidenti le ferite degli ultimi incendi, con in cuore la nostalgia di Fatima: i luoghi semplici, il sussurro internazionale delle preghiere, i sorrisi accoglienti lungo le vie, la figura dei tre pastorelli curiosi nelle loro pose nelle foto d’epoca… C’è diventata cara anche la parlata portoghese col suono nasale di molte finali indicato col segno fonetico della “tilde” e la doppia “esse” con la “c con cediglia”. Obrigado: cortesia e ringraziamento, è la parola che sentiamo più di frequente. Nei menù l’immancabile bacalhao, servibile in centinaia di ricette…
Dopo questa pausa di intensa spiritualità, ricomincia la vita di ogni giorno. Arriviamo a Pennabilli che sono ormai le cinque del 10 settembre. «Mi porto a casa – mi confida una giovane signora – l’importanza delle piccole cose. Abitare la semplicità, il resto lo fa il Signore». «Non cerco il sensazionale. Anzi, mi indispone», replica un pellegrino. «Mi porto a casa l’idea che viviamo gli uni della fede degli altri. La Madonna ci vuole famiglia».
A Fatima siamo venuti a nome di tutta la nostra Chiesa di San Marino-Montefeltro portando la preghiera di famiglie, di gruppi e di amici. Sono stati, appunto, giorni di spiritualità, ma fortemente segnati dalla cronaca, dal viaggio di papa Francesco in Colombia, dalle contraddizioni di questo tempo e dalle minacce di guerra e terrorismo. Anche chi è in viaggio con me ha sentito l’invito della Madonna ad intensificare la preghiera per il dono della pace. È prossimo il mese di ottobre, mese del Rosario. Propongo all’intera Diocesi, alle parrocchie, a ciascuna famiglia di rilanciare questa preghiera semplice ed alla portata di tutti. Il Rosario per la pace… Ma è evidente che la preghiera anzitutto ti cambia la vita: essere pace, portare la pace, fare la pace.
L’ottima organizzazione dell’agenzia che ha organizzato il pellegrinaggio ha segnato sul programma gli ampi spazi liberi chiamandoli “tempo per le devozioni”, ma siamo tornati con la persuasione che a Fatima c’è molto di più: c’è la proposta di un nuovo stile di vita. Arrischio: chiamiamola conversione.

+ Andrea Turazzi

Diario GMG Cracovia 2016

20 luglio 2016, Kamienica (Polonia)

Sono le ore zero ed un minuto del 20 luglio. Settantacinque giovani partono da San Marino per raggiungere la Polonia (la città di Tarnow prima, Cracovia poi).
«Chiara e dolce è la notte e senza vento…». In cielo splende la luna piena.
Per me – l’unico anziano della compagnia – non è stato facile partire: troppe radici, troppi legami, troppe cose da portare appresso. Imparo da questi giovani in maglietta e zaino in spalla.
Ovviamente leggo la circostanza in chiave simbolica.
Penso alla vita come viaggio e il tempo come strada da percorrere: distacchi inevitabili, equipaggiamento sportivo, ma anche amici per il cammino.
Il pullman è già in movimento. Ci attendono diciotto ore di viaggio (sono davvero tante!). Parlo coi ragazzi: sono ben motivati. Sanno la differenza tra essere vagabondi ed essere pellegrini: i vagabondi non sanno dove vanno, per lo più vanno a zonzo; i pellegrini hanno una meta ben precisa e, in vista della meta, sanno benedire ogni circostanza…
I disagi ci sono. Ci attende l’incontro con gente per lo più sconosciuta, con usi, cibi e abitudini diverse.
Comincia a fare giorno e siamo già fuori dall’Italia. Il pullman si rianima: un canto, una preghiera e molte risate.
Si attraversa l’Europa. In questi giorni l’abbiamo vista nuovamente insanguinata. Ci sorprendiamo pensosi. Tuttavia abbiamo la gioia di attraversare liberamente diverse frontiere, cosa non del tutto scontata. Fino a quando?
Come la nostra, altre “carovane di giovani” stanno salendo verso la Polonia. È questione di qualche ora e ci saranno già i primi contatti. La Giornata Mondiale della Gioventù è anzitutto incontro.
«Scie di profumo» che rimandano al Signore Gesù Risorto che è già presente fra tutti: profumo destinato a farsi sentire nel mondo intero.
I due milioni di ragazzi attesi per il momento clou (domenica 31 luglio) faranno da cassa di risonanza alle parole di papa Francesco che intende parlare all’umanità…
Riprendo a scrivere. Abbiamo appena varcato la frontiera: siamo in Polonia!
Chiedo ai ragazzi – come in un brain storming – che cosa viene loro in mente quando si parla di Polonia. C’è chi pensa a San Giovanni Paolo II, c’è chi ricorda Auschwitz, c’è chi cita un grande maestro del cinema, Kieslowsky. A qualcuno viene in mente il grande Chopin e i suoi “notturni”…
C’è anche chi prova a pronunciare qualche parola che ha appena letta sui cartelli pubblicitari. Il polacco è proprio impronunciabile! È un popolo, quello polacco, tutto da scoprire. C’è chi non ha avuto tempo di documentarsi prima di partire… lo fa adesso, mentre si percorre una superstrada che attraversa una campagna che, in questa stagione, appare piuttosto brulla. In lontananza grigi edifici in cemento, ma anche tanti villaggi con le case dai tetti spioventi. Stiamo arrivando! Ma è ormai buio.

21 luglio 2016, Kamienica

I miei giovani amici sanno ben poco di Chopin, il grande compositore polacco, e tanto meno dei suoi struggenti “Notturni”: la nostra prima notte polacca, dopo 20 ore di viaggio, è stata di sonno profondo! A piccoli gruppi siamo ospiti presso famiglie in alcuni villaggi della diocesi di Tarnow. Solo la mattina ci siamo resi conto della vallata nella quale abbiamo iniziato a vivere la “settimana dei gemellaggi”. È una valle ampia e boscosissima, assomiglia alla Val di Non. Qui ­­- ci raccontano – Karol Wojtila veniva spesso a camminare. Non vediamo l’ora di raccontarci l’accoglienza ricevuta la sera dell’arrivo, quando, accompagnati dalle famiglie ospitanti, abbiamo raggiunto la chiesa parrocchiale. Commentiamo il nostro sbarco avvenuto con almeno 4 ore di ritardo per il blocco dei computer nelle stazioni dell’autostrada. I giovani del posto ci aspettavano con striscioni e bandiere. Ci sono venuti incontro i parroci e le suore mentre la gente batteva le mani. Siamo entrati in chiesa; abbiamo deposto nella corsia centrale i nostri zaini gonfi non solo delle nostre cose, ma delle attese che ci hanno messo in marcia. Le chitarre e il suono delizioso di un violino hanno intonato il canto ufficiale di questa GMG. La chiesa era piena di fiori; mi ero avvicinato e potevo constatare che non erano di plastica. Quello che ci ha colpito da subito è stato il modo di stare in chiesa di questa gente: in ginocchio, a mani giunte. E poi gli scambi dei saluti. Non una formalità. Tutto in 10 minuti (erano ormai le 23.00). Chissà come dovevano apparire le nostre facce. Abbiamo apprezzato molto la delicatezza con cui siamo stati accolti. Poi, ognuno nella famiglia in cui è ospite si è trovato davanti una cena strepitosa: anche se l’ora era tarda si voleva far onore alla mamma polacca. Altrettanto per la colazione del mattino.
Giovedì 21 luglio. Si parte per una gita in montagna, ma è una scusa per fare strada nella conoscenza reciproca, nell’accoglienza e nella condivisione.
A metà giornata, quando tutto è stato preparato sul monte per assaporare pane e salsicce ai ferri, ci sembra di aver fatto già un significativo progresso nella familiarità con i suoni della lingua polacca. Impossibile scambiarci concetti. Per ora pratichiamo il più rudimentale dei metodi di comunicazione: la gestualità. Parlano i sorrisi, gli sguardi, le strette di mano, la fatica condivisa, il salire e poi lo scendere madidi di sudore e le note delle nostre canzoni. Qualcuno degli ospiti – da notare fino a che punto può arrivare l’ospitalità! – ha dedicato tempo e fatica a studiare la lingua di Dante per poterci rivolgere qualche parola in italiano. Ci accorgiamo ancor più della squisita ospitalità sulla via del ritorno: in una radura tutto è pronto per la Messa e poi per la degustazione delle specialità locali. Convivialità e piccole cose: ci sono gesti semplici che diventano gesti forti. Intanto siamo raggiunti dalla gente dei villaggi attorno, sindaco in testa.
Non conosciamo nulla della società polacca (tra l’altro, ci dicono, in profonda trasformazione), ma la presenza sorprendente di così tanti bambini ci induce a pensare che qui la famiglia è in discreta salute. Torniamo alle nostre case: ci capiamo con il linguaggio del cuore: “Cor ad cor loquitur”!

22 luglio 2016, Kamienica

Molti di noi, finalmente, cominciano a ricredersi: non è vero che il popolo polacco sia triste e melanconico. Che cosa lo fa credere? Forse le vicende della sua storia travagliata, il sangue dei suoi numerosi martiri, la passione subita nel suo tormentato Novecento, i suoi canti popolari in tonalità minore? Se foste stati con noi oggi, avreste visto una Polonia piena di colori, di danze, di vita serena nel villaggio, di ragazzi che cantano al ritmo delle chitarre e dei violini. Abbiamo trascorso la mattinata nelle sede della “casa della cultura” una sorta di Pro Loco a Kamienica (la cittadina che ci ospita). Il benvenuto è rigorosamente in musica… italiana: un segno di cortesia. Poi, con la dimostrazione delle danze tradizionali, inizia una vera e propria lezione di ballo. Alla fine anche il Vescovo – questa volta in abito filettato – è amabilmente costretto a qualche passo di danza (ahimè, un’ora dopo una telecamera indiscreta manda l’immagine ai social).
Al piano superiore della “casa della cultura” è stato allestito un museo dove sono custoditi gli attrezzi degli antichi mestieri, gli utensili della vita di casa di cent’anni fa, alcune sculture naif e una originale raccolta di cravatte donate da personaggi importanti della valle. Ci colpiscono la fierezza umile di questa gente e l’intreccio fra cultura popolare e fede cattolica. La parola “intreccio” non esprime completamente il concetto, ci vorrebbe una parola che esprimesse ad un tempo fusione e distinzione. Un esempio? Il più semplice e comune: la segnaletica stradale che indica l’inizio del centro abitato costituita da una silhouette che, insieme alle sagome delle case e dei municipi, porta il tracciato di una chiesa con il suo campanile. Qui, nei nostri villaggi, il cento per cento dei giovani – ci assicura il parroco – frequenta la Messa della Domenica. Nelle grandi città le cose stanno cambiando…
Ancora una considerazione su queste nostre “giornate polacche” e sulla vita di famiglia nelle case in cui siamo ospiti. Tutti sono coinvolti: i bambini con la loro curiosità, le mamme che premurosamente ci aspettano la sera, i giovani che fanno da interpreti fra noi e gli adulti, i nonni che mostrano con fierezza una foto con Giovanni Paolo II o un ricordo personale gelosamente custodito nel cuore.
La terza giornata ci ha visto riuniti tutti – noi 75 – con i giovani del decanato. Siamo saliti verso il santuario della “Matki Bozej Bolesnej” per celebrare una sorta di “Via Matris” sostando in successivi sette capitelli che custodiscono la rappresentazione di ciascuno dei sette dolori della Vergine. Il nostro pensiero va alle mamme che piangono i loro figli: abbiamo appena saputo della strage di cristiani avvenuta ieri in Kenia nel campus universitario di Garissa.
La celebrazione eucaristica ricorda Santa Maria Maddalena. Alla lettura del Vangelo siamo tutti incantati e commossi considerando il cammino e la prossimità di questa discepola di Gesù: la donna silenziosa seduta ai piedi del Maestro e oggi in lacrime presso la tomba vuota. Nella sua desolazione cerca e fa domande. E poi l’incontro. Il dialogo è breve, poche battute: “Maria!”, dice colui che è ancora sconosciuto. “Maestro mio!”, risponde lei. È il Signore. Lei lo vorrebbe trattenere stretto a sè. Lui la manda in missione ormai avvolta dalla luce pasquale per portare l’annuncio: “Lui è vivo!”. Tutto è iniziato con un nome pronunciato con amore da Gesù Risorto. Nel silenzio profondo che i giovani sanno fare fino a farti trasalire, ognuno sente nel cuore il suo nome pronunciato con amore. Si rientra a casa: sì, perché l’ospitalità ti fa sentire in famiglia.

23 luglio 2016, Kamienica

Il cerchio s’allarga. Un’abile regia ha previsto, dopo gli incontri di ieri tra i giovani del vicariato e i loro ospiti, il raduno con tutta la gioventù della diocesi di Tarnów. Siamo più di quindicimila! Ci dobbiamo abituare ai grandi numeri (domenica 31 luglio qualcuno dice che saremo in due milioni insieme a papa Francesco). La mattina l’avevamo dedicata a conoscere la storia della Polonia: un tema che dovremmo riprendere nei nostri diari polacchi. Ora torniamo alla cronaca del raduno diocesano. È strano: si è in tanti e in movimento, eppure ti viene di andare in profondità nei rapporti, a partire da chi ti capita vicino. Ho parlato a lungo con Enrico, con Francesca, con Alessia… È l’aspetto più sorprendente della GMG: l’onda s’allarga sempre più, ma se “vivi” la proposta come si deve, si moltiplicano pian piano i rapporti, la preghiera si fa più personale e i momenti di silenzio diventano altissimi (quando a far silenzio sono quindicimila persone, la cosa si fa sublime!). Il luogo del raduno è il centro diocesano della Pastorale Giovanile. Le strutture sono essenziali, ben curate, con un enorme scoperto al centro del quale è stato conservato l’altare sul quale San Giovanni Paolo II celebrò la Messa nel 1999. Per raggiungere il centro pastorale lasciamo il pullman e saliamo a piedi sotto il sole del primo pomeriggio (ci dicono che abbiamo portato il sole dall’Italia: prima del nostro arrivo era piovuto per una settimana intera).
Man mano che avanziamo il corteo s’ingrossa come un fiume alimentato da cento ruscelli. Il vescovo di Tarnów (diocesi di un milione di abitanti), Andrzej Jeż, ci accoglie sorridente e con un fare solenne. Nell’omelia dice che ognuno di noi deve sentirsi a casa sua. La riflessione è tutta dedicata al Battesimo e alla spiegazione dei suoi simboli. Dall’altare, innalzato su un grande palco, scende una cascata di acqua: «Quella del fonte battesimale – precisa il vescovo Andrzej – dovrebbe essere sempre così, acqua zampillante e fresca, per ricordarci la vita nuova di cui il Padre ci fa dono». Poi commenta il simbolismo della luce «che deve risplendere nel volto del battezzato: è la luce di Cristo». Conclude: «Vi vedo come una grande ostia che Gesù consacra per la vita del mondo». Infine, ricorda la strage di oggi a Monaco di Baviera. Ancora sangue.
Dopo la Messa prende il via la festa: musiche, “serpentoni”, selfie a non finire e free hugs… Sventolano tante bandiere (già si respira l’internazionalità della GMG); anche quella di San Marino fa la sua figura. Raccolgo al volo qualche impressione dai miei giovani amici mentre danzano, col rischio di essere importuno. «Nella quotidianità – mi dice Elena – ci capita di perdere di vista l’essenziale. Qui impariamo ad uscire da noi stessi per incontrare l’altro, senza paura. E questo vale». Lucia mette in evidenza la “potenza” di questo evento: «È il grande dono che ci ha lasciato Giovanni Paolo II. Ci ha detto che siamo “motore del mondo”». Vorrei proseguire, ma la festa incombe, mi accontento di raccogliere al volo un aggettivo o una parola soltanto. Eccone alcuni: gioia, fratellanza, stupore, pienezza, entusiasmo, attesa, sfida… Lascio al lettore l’esplorazione profonda di ognuna di queste parole.
Ormai il sole è tramontato. L’orizzonte si tinge di un rosso splendido. Dal palco la regia invita a sintonizzarci con la preghiera che ogni sera, alle ore 21, si eleva a Czestochowa. Sorprende la facilità con cui i ragazzi entrano nella proposta. Cala un profondo silenzio. Parte il canto ufficiale di questa GMG; col ritornello – un motivo semplice, orecchiabile e coinvolgente – mille luci s’accendono: sono le candeline distribuite al momento della rinnovazione delle promesse battesimali. Mille piccole luci ci avvolgono di un chiarore diffuso che attenua l’oscurità della notte ormai incombente.

24 luglio 2016, Kamienica

Una tranquilla domenica di paese. Qui la gente va alla Messa col vestito più bello, con il canto partecipato da tutti, con uno stuolo di bambini composti (speciali i chierichetti, sono una ventina). Soprattutto si nota una profonda devozione. Il parroco emerito, anziano, mi chiama nel suo miniappartamento, poco prima della Messa. Comunichiamo in lingua latina; ma lui è molto più bravo di me. Mi dice di un suo problema… Cosa vorrà confidarmi? Si è scritto il problema in un bel latino: non gli piace che i preti polacchi si sian messi a salutare la gente all’inizio della Messa con il “buongiorno”. «Sicut Franciscus», sussurro maliziosamente. «Nella nostra tradizione polacca – replica don Casimiro – il saluto del sacerdote è sempre stato “laudetur Jesus Christus”». «Sicut dicebat Johannes Paulus», soggiungo. L’anziano sacerdote, tuttavia, è aperto alla novità, è consapevole delle diversità delle culture nella comunione dell’unica Chiesa. Mi mostra con orgoglio il suo personal computer col quale scrive e cataloga le sue “conciones” (prediche). Mi offre un whisky. Sono le 8.30 del mattino. Faccio uno sforzo incredibile a berne un sorso. Questo simpatico incontro mi richiama alla tradizione polacca. E penso alla storia di questa nazione così particolare. Ieri abbiamo fatto visita al “Museo della guerra” che documenta l’eroismo dei patrioti polacchi, talvolta compatti nell’esercito regolare, altre volte all’estero al fianco degli alleati. Ovviamente la storia polacca non è solo una storia di guerre e combattimenti, ma non c’è dubbio che questi hanno avuto un peso determinante. Il Battesimo del principe Mieszko I nel 966 diede origine alla cultura e alla identità della Polonia. Nacque così l’idea polacca della libertà, intesa come sovranità statale e l’idea dei diritti dell’individuo, tra cui quello di opporsi ad un potere ritenuto ingiusto. Un momento importante della sua storia fu l’unione con la Lituania. La Polonia si chiamò allora la “Repubblica delle due nazioni”. Agli inizi del XV sec. la nazione con i suoi feudi conta oltre un milione di chilometri quadrati. È anche il momento del massimo splendore sociale, culturale, scientifico (tra tutti brilla Nicolò Copernico). Prima in Europa, la Polonia ha una forma di monarchia democratica: il re viene eletto dalla nobiltà polacca che raggiunge in alcuni momenti il 20% della popolazione. La storia recente è nota. Nei secoli XIX e XX la Polonia ha combattuto una eroica battaglia per la libertà e la dignità dell’essere umano. È la terra su cui si è compiuto, per mano dei nazisti tedeschi, il più grande crimine della storia dell’umanità: la Shoah. È la terra su cui ha dominato il comunismo sovietico, ma anche la terra che, grazie alla Provvidenza di Dio, è uscita vittoriosa dall’oppressione.
Nella mattinata, al termine della Messa, una piacevole sorpresa. In una chiesa gremita avanza una processione di persone in abiti folcloristici. Entra a passi di marcia, a suon di strumenti tradizionali. In testa il sindaco. Viene al microfono per salutare i nostri ragazzi e conferire al Vescovo la cittadinanza onoraria. Consegnata la targa, gli fa togliere la mitra (il copricapo liturgico del vescovo) e gli impone un curioso copricapo di panno nero a larghe tese. Nel pomeriggio sfida calcistica: Polonia batte Italia 6-2. Ma molto sportivamente i polacchi vogliono dare la coppa all’Italia. Questa la motivazione: per il miglior gioco! Ovvio il tifo scatenato delle ragazze, dell’una e dell’altra parte. Ad ognuno poi un premio nella piazza centrale del paese.
Don Martin, il viceparroco addetto alla Pastorale Giovanile, mi accompagna a Tarnów per visitare la Cattedrale e il “Grande Seminario”. Oltre duecento i seminaristi maggiori. Due luoghi del Seminario mi colpiscono in modo particolare: il “roveto ardente” scolpito sul fondo della cappella con il tabernacolo tra le fiamme stilizzate che salgono fino al soffitto. Il secondo è la grande “sala missionaria” dove vengono raccolte le testimonianze e i “pezzi” inviati al Seminario dai preti polacchi che si sono messi a disposizione per l’evangelizzazione in terre lontane (qui i preti sono in esubero). L’uno e l’altro luogo – cappella e sala missionaria – sono in stretta connessione: è chiara qual è l’anima del vero apostolato. Al ritorno si fa una breve sosta al Santuario della Beata Carolina, una martire polacca uccisa da un soldato russo, mentre fugge per non cedere alle sue pretese. Chiedo alla Beata Carolina la purezza di cuore per i nostri ragazzi e per me.

25 luglio 2016, Czestochowa

Abbracci e lacrime. Sono trascorsi appena 4 giorni di ospitalità nelle famiglie polacche e il coinvolgimento affettivo è stato altissimo. Si conclude l’esperienza dell’incontro nostro con la diocesi di Tarnów. Ma non per sempre. Per gli adolescenti è un momento struggente: essere stati insieme intensamente e sapere – nonostante le promesse – che forse non ci si vedrà più. I primi chilometri sul pullman si percorrono in silenzio e pensosamente. Siamo diretti a Czestochowa, il Santuario mariano nazionale. Ci fu un momento nella storia della Polonia che attorno al Santuario si concentrarono tutte le speranze della nazione. Oggi è uno dei luoghi religiosi di forte spiritualità più importanti. Ogni anno salgono a Czestochowa quattro/cinque milioni di pellegrini. Ma il Santuario è anche un simbolo identitario della Polonia. Attraversiamo una pianura con coltivazioni a perdita d’occhio. Ad ogni uscita laterale dell’autostrada, ci sono pattuglie di Polizia. Ci sentiamo protetti. Il viaggio prosegue tranquillo. Prevediamo almeno quattro ore di viaggio. Elisa manda in video un documentario su Giovanni Paolo II. Mi rendo conto che per i ragazzi è un’importante figura ma ormai lontana. Mentre alcuni spezzoni di quel documentario riportano noi adulti ad emozioni vissute, per i ragazzi si tratta di pagine di storia. Non ci sarebbe molto da raccontare su una giornata per lo più trascorsa in pullman… invece preziosissimi i rapporti, le parole che ci si scambiano. Finalmente appare la guglia altissima del Santuario di Czestochowa sulla collina di Jasna Góra. Parcheggiamo, insieme a centinaia di altri pullman, in un grande parco verde. Scendono giovani da diverse regioni d’Italia, ma anche molti spagnoli in maglietta rossa, i brasiliani, i coreani, etc. Ci siamo dati appuntamento con i gruppi delle diocesi della Romagna, ma veniamo travolti da un’infinità di pellegrini e bandiere. Ci prepariamo per la Messa. Presiede il Cardinal Bassetti. Il Vangelo è quello delle nozze di Cana. Ci chiediamo: che ci fa Gesù ad una festa di nozze? Tutto il mondo lo attende e Gesù si attarda in una festa di famiglia. Le nozze di Cana dicono che l’amore umano è luogo di miracoli. Il Cardinale conclude l’omelia invitando i giovani a non perdere la speranza: «Se vi lasciate rubare la speranza, perdete tutto. È vero: il vino può venire a mancare, ma voi fate tutto quello che il Signore vi dirà». C’è il tempo per visitare il Santuario, pregare il Rosario a gruppetti, curiosare tra gli stand… Sono le prime avvisaglie della Pentecoste che ci attende. C’è un po’ di ansia per l’incontro che ci attende con nuove famiglie. Il pullman lascia l’autostrada e segue il tracciato di tortuose strade secondarie. Comincia a fare buio. Dove siamo? Siamo nella provincia profonda di Cracovia.

26 luglio 2016, Cracovia

Blocco il corrispondente di “Avvenire”. È indignato con l’organizzazione dello sbarco dei “nostri” in zona Cracovia. Gli raccomando di essere prudente nella corrispondenza che sta preparandoper non spaventare le famiglie. Ma effettivamente la situazione ieri sera, sulle prime, era difficile (l’amico giornalista la definiva “un delirio”). I pullman della Romagna erano arrivati quasi contemporaneamente in un villaggio sperduto nella campagna dal nome per noi impronunciabile Szczepanów, quando ormai si era fatto buio. Che fare? Come raggiungere le famiglie dislocate in remote fattorie con zaini da 20 kg in spalla? Dopo un pomeriggio di viaggio la stanchezza aveva reso tutti più nervosi. La gente del posto probabilmente era preparata ad una “cerimonia di accoglienza solenne”, ma i nostri responsabili – piuttosto agitati – dovevano formare i gruppetti da indirizzare alle famiglie: due maschi di qua, tre femmine di là, qualche autista nelle canoniche, qualche altro negli alberghi in città. L’alba del nuovo giorno ha svegliato tutti più obiettivi e, tutto sommato, di buon umore. Io vengo portato con gli altri vescovi in un albergo del centro: mi sento come agli “arresti domiciliari”. Sono a disagio pensando alla fatica che dovranno fare i miei ragazzi a raggiungere lo stadio, mentre noi vescovi veniamo portati su un pullman scortati dalla Polizia per l’inizio ufficiale della GMG. L’albergo da cui partiamo è di fronte alla stazione centrale. Dalla finestra del quarto piano si domina la piazza. Già dalle prime ore del mattino è piena di ragazzi, con cappellini, magliette, bandiere di ogni nazione. Altrettanto nei viali e nelle strade attorno. Ci siamo. Parlo al telefono con i genitori di Agnese. Mi riferiscono la sua replica alla loro preoccupazione per quello che potrebbe succedere… «Se muoio – dice – sappiate che vi voglio tanto bene, ma muoio contenta per queste giornate». E che ne pensa la gente di Cracovia di questa invasione? Ne parlo con un taxista. Con me c’è don Cristoforo che fa da interprete. «Venticinquemila abitanti di Cracovia – esordisce il taxista – sono partiti per le vacanze per lasciare la città ai ragazzi. In questi giorni faccio fatica col mio lavoro, ma sono contento di queste presenze. I ragazzi portano gioia… e poi sono bravi». Nell’omelia alla Messa di apertura della GMG il Cardinale Dziwisz (fu per molti anni segretario di papa Woytjla) parla della GMG come di una “festa della fede”. E poi pronuncia le tre domande ai giovani: cosa siete venuti a fare a Cracovia? Che cosa avete in cuore di fare adesso? Che cosa farete quando tornerete a casa? Alla Messa siamo in cinquecentomila. Anch’io sto al gioco: sfido le nuvole che cominciano a fare acqua, prendo posto, batto le mani, canto e prego. Sento la mia preghiera come una barchetta di carta che adagio in questo oceano di voci e di preghiere. Penso ai miei preti: uno ad uno, alle persone che mi sono care, ai nostri operatori della pastorale, ai malati, ai miei familiari (so che c’è anche una mia nipote di Bologna: solo i nostri angeli custodi potrebbero ottenerci il miracolo di farci incontrare). Altrettanto penso ai nostri settantacinque sammarinesi-feretrani. Dove si sono cacciati? Mi alzo più volte durante la Messa per vedere se ci sono la bandiera italiana e quella di San Marino, bianco-azzurra. Vedrò i ragazzi solo domattina alla “Catechesi per gruppi”… almeno spero! Mentre chiudo questa pagina di diario è già mezzanotte, ma giù si sentono il vociare e i canti dei giovani ancora sulla piazza: non hanno ancora le batterie scariche!

27 luglio 2016, Cracovia

Siamo immersi in un’atmosfera particolare, ma non siamo fuori dal mondo. La notizia dell’uccisione del prete francese di Rouen ci turba. Nella Messa pomeridiana il Card. Bagnasco dirà: «La risposta migliore a questo crimine siete voi davanti all’Europa che in questi giorni vi guarda». Condivido. Ancora un po’ di cronaca: ritrovo il gruppo dei “miei settantacinque”. L’incontro è davvero fortunoso. Verso la mezzanotte di ieri sera mi telefona un amico, don Giordano, responsabile regionale della Pastorale Giovanile. Mi dice che ha la possibilità di ricongiungermi col gruppo. L’appuntamento è per le 7. Ritrovo così i nostri ragazzi. Per me una festa. Da solo non sarei mai riuscito a raggiungerli. Sono passate meno di ventiquattro ore e mi sembra un secolo… Noto che i miei giovani amici sono stanchissimi. Mi raccontano che il rientro dalla Messa di inizio GMG è stato rocambolesco. Qualcuno è andato a dormire intorno alle due di notte. Effettivamente uno dei problemi di questa edizione sono i trasferimenti. Cracovia non riesce ad offrire ospitalità per il mezzo milione di pellegrini già arrivati. Qualche gruppo è collocato perfino a centocinquanta chilometri di distanza. I nostri quaranta/cinquanta chilometri al confronto non sono male. Ma se il treno locale va in tilt anche i quaranta/cinquanta chilometri diventano un problema. E così è stato ieri notte.
Nonostante i volti piuttosto provati, le nostre ragazze le ho trovate bellissime così, al naturale. Ascoltiamo con attenzione la catechesi di Mons. Camisasca (vescovo di Reggio Emilia). Ci viene offerta una lettura sapienziale delle biografie di suor Faustina Kowalska e di Giovanni Paolo II. «Ecco quello che Gesù fa in chi si mette a seguirlo. Dalle nostre briciole sa ricavare grandi cose». C’era bisogno di questo momento per interiorizzare. Il Signore sa come essere attrattivo. Sento che non mi devo preoccupare di “sprecare parole”…
Riprende la marcia. Destinazione: il santuario dedicato a suor Faustina per l’indulgenza giubilare. Siamo fortunati: quasi subito ci imbattiamo in un punto ristoro con il provvidenziale “bagno chimico”.
I ragazzi fanno a gara ad aiutarsi, a condividere i coupons necessari per acquistare pasto e bevande. Una bella lezione per noi adulti. I ragazzi, nella necessità, sanno tirar fuori il meglio di sé: generosità, spirito di adattamento, educazione e rispetto. Sento che ricordano bene la Parola di vita dei primi giorni: «In ogni circostanza benedite il Signore» (Tb 4,19). Mentre ci avviciniamo al Santuario intono il Rosario. È contagioso, tutti partecipano. Passiamo per le strade del quartiere, sfioriamo tanti altri gruppi. È un bel momento. Una ragazza delle nostre mi chiede se «c’è un sistema per diventare santi» (sic!). Attorno ho un piccolo gruppo e parlo, camminando, del “sistema” per diventare santi. È quello delle “sei esse” insegnato da Santa Teresa di Lisieux: «Sarò santa se sono santa subito!». Che significa: stare nella volontà di Dio nel momento presente, prontamente e con gioia. La vita è come una pellicola: fotogrammi che scorrono veloci; ogni fotogramma è un “momento presente”.
All’uscita dal Santuario di suor Faustina, segue un tentativo fallito di passare nell’altro Santuario, quello di Giovanni Paolo II (c’è una coda di un paio di chilometri). Preghiamo facendo cerchio stando sul prato. Una quindicina di minuti, ma intensi e profondi. Il bello di queste giornate è che puoi metterti a pregare ovunque ti trovi. Andiamo a posizionarci per la Messa con tutti i pellegrini italiani. Centomila? Forse di più. Riperdo il gruppo (devo andare con i vescovi). Lo ritroverò solo domattina; così spero. Torno in albergo a scrivere queste note.

28 luglio 2016, Cracovia

Una giornata diversa: meno folla, più interiorità; meno canzoni e più pensieri. Celebriamo la Messa con i giovani della Romagna. Mi chiedono di presiedere. Lo faccio con gioia per i nostri ragazzi (e loro, forse, sono contenti di sentire il loro vescovo). Nell’omelia non faccio altro che commentare la bella metafora del profeta Geremia: «Argilla siamo nelle mani di un artista vasaio». La commento con le esperienze raccolte dalla vita di questi giorni (quanti vasi capolavoro vedo accanto a me!).
Dedichiamo il resto della giornata alla visita del campo di concentramento di Auschwitz e di Birkenau. Nella sinistra oscurità di Auschwitz ti vengono a mancare persino le parole. Resta soltanto uno sbigottito silenzio. Ho preparato i ragazzi con queste parole: «Inginocchiamoci profondamente nel nostro intimo davanti alla schiera di coloro che qui hanno sofferto e sono stati messi a morte. Il nostro è un pellegrinaggio della memoria, ma il passato non è mai solo passato: ci riguarda e indica le vie da non prendere e quelle da prendere…». Riprendo alcune parole pronunciate qui da papa Benedetto: «Ascoltiamo le parole che sgorgano dal cuore e trasformiamole in un grido interiore verso Dio: perché, Signore, hai potuto tollerare tutto questo? È preghiera che io chiamo “preghiera del perché”, la stessa che ha fatto vibrare le labbra del Cristo crocifisso: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”».
È il grido di tutti coloro che nel corso della storia, ieri, oggi e – non vorrei dirlo – domani soffrono per amore della verità, della libertà e del bene, e di coloro che soffrono anche senza un motivo se non per l’irrazionalità e la prepotenza di uomini malvagi e di poteri iniqui. In questo viaggio ci proponiamo: 1. Di condurre la ragione a riconoscere il male e a rifiutarlo. 2. Di suscitare in noi il coraggio del bene, della resistenza contro il male. 3. Di fare nostri quei sentimenti che Sofocle mette sulle labbra di Antigone di fronte all’orrore che la circonda: «Sono qui non per odiare insieme, ma per insieme amare».
Scattiamo foto alla celebre scritta che incornicia il portone di ingresso: «Arbeit macht frei». Ironia. Azzardo un accostamento: la grande filosofia tedesca e la deriva delle sue propaggini impazzite. Mi viene in mente Dante: «Lasciate ogni speranza voi ch’entrate». Camilla (è già stata qui con la scuola) ci fa da guida: commossa e commovente, discreta ed efficace. Parla sottovoce. Quasi sussurra. Michele legge in traduzione simultanea le numerose didascalie. L’esibizione di quel tragico concentramento non ha nulla di plateale: lascia al visitatore tutto il peso dell’immaginazione e il turbamento. I blocchi, i luoghi delle esecuzioni capitali, le “cliniche”, etc. Tutto è geometricamente perfetto, in ordine. Tra i blocchi n.12 e n.13 c’è la gigantografia di chi ha messo un lembo di cielo in quest’inferno, di chi ha dettato una lezione di umanità in questa notte della ragione: San Massimiliano Kolbe. Cerco di non far vedere la lacrima che mi scende sul viso.
Passiamo al campo di Birkenau. Muoviamo qualche passo sulle rotaie del treno che ha ingoiato un milione e mezzo di creature, persone come noi nelle fauci di un’orca assassina. Birkenau ha una struttura “architettonica” diversa: è un campo schiacciato su uno spazio immenso con file di baracche a perdita d’occhio. Qui si entrava per la soluzione definitiva: per lo più donne, bambini, anziani… Vediamo i ruderi delle camere a gas e dei crematori che invano gli ultimi generali hanno tentato di far sparire dalla storia. Camminiamo in silenzio. Le scarpe si sono inzaccherate di fango. Dico il Rosario insieme a Suor Anna e Suor Angela e a qualcun altro del gruppo, ma c’è un altro Rosario che si intreccia, quello dei “perché”, dei “come fu possibile”. Giulia mi chiede come si fa «in questa circostanza a benedire il Signore»… ma pensa lei alla risposta, l’ha già trovata: «Benedico il Signore per l’amore che ricevo, per la libertà di cui godo, per la vita che mi è data, per gli ideali che non muoiono». Chiara aggiunge: «È importante aver celebrato questa visita nelle giornate della GMG. Sento il grido che sale dalla terra e implora redenzione». Io penso a Gesù Redentore dell’umanità.
È sera tarda: mi tolgo le scarpe ancora infangate della terra di Birkenau: terra maledetta, terra benedetta.

29 luglio 2016, Cracovia

È uno dei primi assiomi imparato alle Medie: «Non si dà generazione spontanea». Eppure il pensiero viene guardando dalla finestra del quarto piano le file di ragazzi che “spuntano” a tutte le ore e attraversano la piazza nel cuore della notte, alle sette del mattino o in pieno giorno. Sfilano veloci, si intersecano, si salutano; ogni fila segue una sua orbita in un disordine ordinato. Una pagina di diario non può essere luogo per riflessioni di sociologia religiosa. Rimando al bell’articolo di Francesco Ognibene in terza pagina su Avvenire di ieri che ho avuto modo di leggere in attesa della Via Crucis (ogni mattino è disponibile il quotidiano Avvenire). Smentisce il pregiudizio secondo il quale i giovani delle GMG stanno felici in una bolla che li toglie dal mondo. La GMG comunque è un segno reale importante e mondiale. È dimostrato: il distacco giovanile dal credere si produce in tutte le forme delle fedi. Al Nord Europa il fenomeno è ancor più diffuso. In positivo c’è quel 10,5% di giovani credenti e attivi, un numero nient’affatto trascurabile e qualitativamente significativo. Tra i giovani vi è un grande rispetto per le scelte proprie e altrui. L’affermazione di un ateismo teorico, tutto sommato, è di pochi. Da noi – diocesi di San Marino-Montefeltro – è apprezzabile non solo il numero dei ragazzi credenti, ma anche il fatto che vi sia in moltissimi altri una memoria buona dell’educazione cattolica ricevuta. Son forti in me due evidenze. La prima, rilanciare una pastorale giovanile più missionaria (di questo parlo con don Mirco, delegato per la pastorale giovanile in diocesi). La seconda: qualificare culturalmente la proposta perché non scada in fideismo o in spiritualismo “fai da te” (evidenze documentate nelle ricerche sociologiche). Nella GMG ci sono le catechesi; sono un momento sicuramente apprezzato e partecipato, ma non si potrebbe accompagnare e arricchire la GMG con altri stimoli culturali? La GMG è una “festa della fede” (e questo deve restare), ma potrebbe diventare occasione di esplorazione dell’esperienza del credere e delle sue ragioni. Invece, il tono degli interventi spesso è di tipo omiletico…
Riprendo il diario (sarà meglio!). Oggi, dalle 9 fin verso mezzogiorno, insieme ad una ventina di sacerdoti mi sono messo a disposizione per il sacramento della Riconciliazione. Mi son perso la catechesi di Mons. Zuppi. Peccato. In compenso ho ascoltato le Confessioni di decine e decine di ragazzi. Ognuna è vissuta come una svolta, una pietra miliare del proprio cammino. «C’era una volta la Confessione», titola così un recente studio sulla pratica di questo sacramento. Eppure qui c’è intensità. Confermo quanto scritto nella mia lettera pasquale: ci si confessa meno, ma ci si confessa meglio. Rilancio la provocazione: «Sei venuto per confessarti o per convertirti?». Arriva il momento più atteso: l’arrivo del Papa per pregare insieme a noi la Via Crucis. Siamo oltre ottocentomila. Sono un privilegiato perché «mi tocca» stare nel primo settore. Ahimè, troppo lontano da quello ignoto dei miei ragazzi. Ma il cuore è con loro. Se avessi i numeri dei loro cellulari li bombarderei di inviti per vivere insieme e fortemente questo momento di comunione con tutti quelli che vivono la Passione del Signore. L’arrivo di Papa Francesco non ha nulla di spettacolare. Secondo il suo stile sobrio compare d’improvviso. Non é una star: tutti lo sentono uno di casa. La Via Crucis si snoda in modo spettacolare. Vi si intrecciano diverse espressioni d’arte: disegno, musica, danza, coreografia, etc. Mi dicono che le preghiere sono bellissime: non ne ho capita una, non sono riuscito a beccare il canale per le traduzioni, ma il cuore è totalmente sintonizzato. Quando prende la parola Papa Francesco mi scende qualche lacrima. Con la coda dell’occhio noto la commozione di tanti colleghi molti dei quali avvezzi a grandi eventi, a cattedre universitarie, a pontificali in celebri cattedrali. Non vedo l’ora di rileggere con calma il discorso di Francesco. È iniziato con la più spietata delle domande: «Perché il dolore? Dov’è Dio?». E prosegue con la risposta più disarmante: «Dio è in chi soffre, profondamente identificato con ciascuno». Di fronte a chi soffre in questo momento siamo invitati a tornare a casa sapendo d’essere la risposta concreta ai sofferenti di oggi. Gesù non è sceso dalla croce. Figuriamoci se l’avesse fatto! Che Salvatore sarebbe?
«Come volete tornare questa sera alle vostre case, ai vostri luoghi di alloggio, alle vostre tende per incontrarvi con voi stessi?» – chiede Papa Francesco ai giovani. Nel primo incontro li invitava a fare il loro dovere di giovani, cioè “fare chiasso”, anche tutta la notte. Questa volta invita i giovani a farsi pensosi e oranti… Sì, i giovani sono capaci anche di questo.

30 luglio 2016, Cracovia

Mattinata di pausa e di preghiera. Vado a “Casa Italia”, la base operativa dei pellegrini italiani: siamo più di centomila. Qui si organizzano incontri, si risolvono problemi, ci si imbatte in celebri firme della nostra stampa, si può prenotare un pasto, si tenta di rintracciare un documento smarrito… “Casa Italia” è anche il punto di raccordo dei servizi e del volontariato. Un autentico alveare: c’è gente che va e che viene, gruppi che si danno appuntamento prima di raggiungere i grandi eventi. Mi complimento per l’efficienza organizzativa e per lo spirito di amicizia che vi si respira. Viva l’Italia! Qui ci sono molti vescovi che, come me, hanno dovuto lasciare i loro ragazzi per motivi di organizzazione e “security” (diverse le nostre collocazioni durante gli eventi col Papa e le “gate”). Nella penombra della grande cappella si prega, si legge, qualcuno si assopisce. Rifletto sulla nostra presenza alla GMG (solo noi italiani siamo più di centocinquanta vescovi). È bello per noi essere qui ad attingere direttamente al carisma che i giovani portano: gioia, freschezza, novità e desiderio di autenticità. Bello e importante anche che i giovani vivano la prossimità con i loro vescovi non solo per sperimentarne la paternità, ma per godere e “riposare” nella certezza di essere del “gruppo di Gesù”. I vescovi, successori degli apostoli, sono l’anello che collega a Gesù, inequivocabilmente. Non solo storia, ma mistero… Mi viene in mente la lapide posta all’ingresso del Vescovado di Pennabilli: il vescovo Andrea è 66° nella cronotassi! In questi giorni succede spesso d’essere accolti dai ragazzi con segni di affetto non per la nostra modesta persona, ma per il riconoscimento (più o meno consapevole) del nostro ministero di comunione e di fedeltà al Vangelo di Gesù.
Dopo la preghiera, pranzo veloce e immediato imbarco per il Campus Misericordiae per la Veglia. Qualcuno protesta: sono appena le quindici e trenta e la veglia sarà alle diciannove… La distanza dal Campus è notevole, ma non giustifica una puntualità così teutonica. Ce ne accorgiamo all’arrivo. Veniamo sottoposti, uno ad uno, ad un meticoloso controllo. Qualche momento prima di me passa al metal detector il Cardinale Bagnasco. Sta a braccia allargate mentre il militare addetto al controllo l’invita a togliere la cintura da sotto la porpora. Il Cardinale sorride un po’ divertito: «Non porto cintura!» (il Cardinale in gioventù è stato assistente Scout).
Finalmente, sotto il sole di un caldo pomeriggio prendiamo posto. Siamo ad un passo dal monumentale palco che ospiterà il Papa, gli artisti che animeranno la veglia e, soprattutto, la piccola e fragile ostia bianca consacrata per essere adorata dal milione e mezzo di partecipanti. Una folla sterminata (me ne renderò veramente conto solo la sera guardando il Telegiornale). Il tempo dell’attesa è importante: si fraternizza coi colleghi, si prega, di tanto in tanto si va con i piedi sulla sedia come sentinelle per un patetico tentativo di vedere il proprio gruppo di ragazzi. Io cerco invano la zona C/3!
Ci viene chiesto un atto di umiltà. Dobbiamo cedere il posto: è riservato ai vip e ai politici (numerosissimi!). Ma non ho sentito una mormorazione. A proposito, queste due giornate “in isolamento”, se ci allontanano fisicamente dai giovani, ci costringono a fraternizzare con semplicità tra noi. Faccio amicizia con il nuovo arcivescovo di Bologna, con il Cardinale Bassetti (mi cede gli appunti della sua omelia), con mons. Simone Giusti (un tempo assistente nazionale dell’ACR).
Finalmente le parole del Papa, un discorso pieno di immagini. Cattura l’attenzione. Fa domande e aspetta le risposte. Sembra parli con te. Ad un certo punto ti chiede di costruire il ponte concreto con chi hai accanto: vicino a me ho un vescovo irlandese e uno del Senegal. Come ragazzini ci teniamo per mano. Non vedo l’ora di leggere i commenti sui giornali. Che diranno del silenzio assordante sul quale si potevano sentire i battiti del cuore davanti all’Eucaristia? Tornerò su questi temi al mio ritorno.

31 luglio 2016, Cracovia

Devo rientrare in diocesi con un giorno di anticipo. Domani è festa di San Leone, uno dei padri fondatori della nostra comunità (anticipare la partenza ti salva dallo “strazio” degli ultimi abbracci).
Scrivo questa ultima pagina di diario durante il volo verso Roma, ma ci vorranno tempi e calma per analizzare, come si deve, l’esperienza vissuta. Meglio se l’analisi la si farà insieme con i giovani partecipanti e, meglio ancora, se si saprà sdoganarla dalle emozioni soggettive perché passi un messaggio per tutti. La GMG deve essere un dono che i giovani fanno ad altri giovani…
Propongo una sorta di “ordine del giorno”, quasi una sequenza di titoli per il confronto.

  1. Anzitutto: è stato di notevole importanza l’incontro con il popolo polacco. Ricca di significati l’accoglienza riservataci, come la meditazione sulla sua storia, sui doni di cui è portatore all’Europa. Abbiamo capito, almeno un poco, gli elementi fondamentali della coesione e dell’identità del popolo polacco: il cattolicesimo e la lingua, le sofferenze e la mistica… Capiamo che Giovanni Paolo II non è un fungo spuntato d’improvviso, ma frutto di una tradizione.
  2. Azzeccata la scelta dell’ospitalità a dimensione famiglia, anche se pagata con ore di trasferimenti. C’è stata data la possibilità di una reale vicinanza e di una condivisione fraterna fatta non solo di parole (pochissime in verità per la difficoltà della lingua) ma di esperienze, di scambi, di promesse e… di cucina! La regia ha reso possibile tutto questo, compresa la partecipazione ad eventi di paese, persino a manifestazioni sportive, a percorsi sui monti, ai balli tradizionali, etc. In una parola, tutto quanto è la cultura di un popolo.
  3. Il Papa è stato formidabile. Nessuna spettacolarità, ma ha saputo dialogare con i giovani, con una semplicità disarmante, adoperando parole che sanno agganciare. Adopera metafore molto vicine a loro: non vuole che siano «giovani-divano, tutto comodità e videogiochi». Non li vuole «pensionati a 23 anni», ma «titolari in campo e mai riserve»: disposti a cambiare il mondo, convinti che si può.

Francesco, il Papa delle periferie e della misericordia, spinge i ragazzi al servizio del prossimo (quello alla veglia è stato un discorso fortemente vocazionale, pur non avendo parlato di preti e suore): «Nell’accoglienza dell’emarginato che è ferito nel corpo e nell’accoglienza del peccatore che è ferito nell’anima si gioca la nostra credibilità di cristiani. Non nelle idee, ma lì!». E poi provoca: «Volete essere addormentati e intontiti o lottare per il vostro futuro?».

  1. I giovani delle GMG sono normalissimi e abbastanza coraggiosi da viaggiare da un continente all’altro. Se in un momento di dialogo gli chiedi che cosa gli è piaciuto di più, ti rispondono che è stato il momento dell’adorazione o della messa. Sorprendono. Vivono con disinvoltura l’amicizia e l’unità pur con appartenenze, culture, lingue diverse (mi è stato detto che sono rappresentate questa volta 178 nazionalità). Vestono tutti allo stesso modo; identici i gusti musicali, ma c’è anche tanta diversità.
  2. Che cosa resterà di questa GMG? Che è possibile stare insieme pur diversi: un messaggio indispensabile per questi giorni. Si può andare davvero oltre le barriere. I sociologi chiamano il linguaggio delle GMG “linguaggio della modulazione”: importante è vibrare insieme. Così nei concerti rock, così ieri sera nel silenzio assordante dell’adorazione. È come canta un vecchio slogan: «Sì, ma insieme!». La GMG è anche il luogo di un rilancio della fede in Gesù Cristo: resteranno le parole delle catechesi, ma più ancora l’immagine di quel Gesù misericordioso che ha campeggiato sullo sfondo degli eventi unitari. Attraverso la GMG passa, dunque, un messaggio che capiscono tutti, per questo è una formula che non tramonta, fa risuonare contenuti che vibrano anche attraverso l’inno proprio di ogni edizione, gridato all’unisono da migliaia di voci (oggi saranno almeno due milioni). È il canto che dischiude l’audacia della misericordia evangelica mentre rinserra la nostalgia di questi giorni trascorsi nella casa più grande che è il mondo. Mentre inizia la grande Messa, sono già in aereo. Accanto a me siede una giovane statunitense. Butto l’occhio e mi ci vuole un po’ di tempo per capire che sta leggendo il Diario di S. Faustina Kowalska (non conosco l’inglese). Forse anche lei sta rientrando dalle “giornate di Cracovia”. Intanto ricevo un sms da una nostra capogruppo: «Carissimo Vescovo siamo partiti. Tutto procede bene. La ringraziamo per aver camminato con noi e continueremo a farlo insieme. D’ora in poi sarà molto più significativo rispondere al suo saluto: “Sia benedetto il nome del Signore”. “Ora e sempre”!». Sono commosso. Sono io che ringrazio.