Omelia nella S.Messa crismale

Cattedrale di Pennabilli, 29 marzo 2018

Is 61,1-3.6.8-9
Sal 88
Ap 1,5-8
Lc 4,16-21

Che gioia, cari fratelli, ritrovarci tutti insieme in questo giorno. Sono lieto di dare a ciascuno il mio saluto più cordiale nel giorno che ricorda il “Natale” del nostro sacerdozio; lieto di celebrare con voi la Messa crismale che, attorno agli oli santi dei sacramenti del nostro ministero, richiama ognuno a rinnovare, singolarmente e insieme, gli impegni dell’ordinazione. Sono lieto, in modo speciale, di vederci uniti a formare un solo corpo, un solo presbiterio, e che si attui la preghiera di Gesù: «Perfetti nell’unità perché il mondo sappia, Padre, che tu mi hai mandato» (cfr. Gv 17,21.23).
Rivolgo un saluto carissimo ai fedeli che sono presenti, alle suore, alle monache che sono unite a noi spiritualmente, come gli eremiti della nostra Diocesi. Rivolgo un saluto particolare alle sorelle dell’Istituto “Figlie di Nazareth” che, da una settimana appena, vivono a Sant’Agata Feltria e hanno riportato in questi luoghi, in spirito, padre Agostino da Montefeltro. Saluto in modo speciale i ragazzi che sono qui a rappresentare le centinaia di amici che nel corso dell’anno, dopo la Santa Pasqua, riceveranno il sacramento della Cresima.
In questo clima di gioia e di unità è il caso di anticipare, soprattutto per noi sacerdoti, l’inno che si canterà alla Messa in Coena Domini: «Congregavit nos in unum Christi amor». È Cristo Gesù che ci ha unito con la grazia dell’Ordine Sacro. È Cristo che ci invita ad amarci e a saldare così la nostra fraternità: «Ubi caritas et amor, ubi caritas est vera, Deus ibi est!». Antifona che fa eco alla parola del Signore: «Dove due o tre sono uniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 18,20) e che conferma l’affermazione conciliare: «Nella persona dei vescovi, ai quali assistono i sacerdoti, è presente in mezzo ai credenti il Signore Gesù Cristo, Pontefice Sommo» (LG 21).
Gesù, il cui calice noi benediciamo, non è forse colui che opera la comunione con il suo sangue? Gesù, il cui pane noi spezziamo, non è forse colui che opera la nostra comunione con il suo corpo? «Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti, infatti, partecipiamo dell’unico pane» (1Cor 10,17).
È con questi presupposti che la Chiesa di San Marino-Montefeltro può crescere «ben ordinata per essere tempio santo nel Signore; in lui anche voi venite edificati insieme per diventare abitazione di Dio per mezzo dello Spirito» (Ef 2,21-22). E in questo momento vogliamo che il nostro augurio e la nostra unità sia significata al nostro papa Francesco, al papa emerito Benedetto XVI verso il quale, noi in particolare, dobbiamo tanta gratitudine.
Non rimane che «accoglierci gli uni gli altri, ospitarci nel cuore gli uni degli altri, come Cristo ha accolto noi» (cfr. Rom 15,7). Non rimane che esortarci alla collaborazione, con un senso di generosità, di prontezza, come quando, nella pesca miracolosa secondo il racconto di Luca, per la quantità del pesce preso i discepoli «fecero cenno ai compagni dell’altra barca che venissero ad aiutarli ed essi vennero… » (Lc 5,6-7). Cerchiamo non i nostri interessi, ma quelli di Gesù (cfr. Fil 2,21), che non ha voluto piacere a se stesso (cfr. Rom 15,3), ma «ha amato la sua Chiesa e ha dato se stessa per lei» (Ef 5,25).
Dunque, unità: fa parte del progetto di Dio, non stiamo parlando di qualcosa di moralistico. È la missione di Gesù: «Riunire i dispersi figli di Dio» (Gv 11,52), è dono della Pentecoste, è frutto dell’Eucaristia, è per noi forma della partecipazione all’unico sacerdozio. Dunque, unità come dono!
Ma l’unità è anche un impegno concreto.
Nella prospettiva secondo Matteo l’impresa dell’evangelizzazione è indicata come una itineranza: «Euntes docete…» («Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato…» Mt 28,19-20); nella prospettiva giovannea la missione viene indicata come unità: «Uniti perché il mondo creda» (Gv 17,21).
Ce lo siamo ripetuti tante volte: perfino il nostro incontrarci con fedeltà per lo studio, per la preghiera, per la riflessione pastorale non è rubato all’apostolato, alla parrocchia. Quando manchiamo a questi appuntamenti senza un serio motivo, non infliggiamo una ferita soltanto al nostro presbiterio, ma togliamo forza allo slancio missionario. C’è una gerarchia nei nostri doveri sacerdotali. Ebbene, quello di trovarci in comunione, in comunità, è tra i primi (prima della benedizione delle case!). Che bello, anche per i fedeli, saperci, il venerdì, riuniti in preghiera, concordi nello studio, solleciti nella programmazione e… a pranzo insieme. Di questo tipo di “assenza” i fedeli non ci rimprovereranno e, se lo facessero, potremo replicare che la nostra unità è per loro. È per la causa del Vangelo che facciamo “Cenacolo”! Del resto, è proprio il Cenacolo la nostra casa-madre: dal Cenacolo si parte e si torna. Come il movimento del cuore.
Ci sono, dunque, momenti in cui l’unità è visibile, momenti come questo, sublime e commovente. Lo sono i momenti a cui accennavo (con severità), ma ci sono anche quelli meno visibili, altrettanto importanti: pregare gli uni per gli altri (tutti preghiamo il breviario, all’incirca alla stessa ora… è come un ricamo sulla Diocesi, come i cori stereofonici di Bach che salgono dalla Val Marecchia, dalla Val Foglia e Val Conca, da San Marino), farci spazio nel cuore per un’autentica simpatia (ricordate il grido di Paolo: «Fatemi posto nel vostro cuore» 2Cor 7,2). Non tutti abbiamo avuto la stessa formazione e gli stessi maestri, non tutti abbiamo le stesse sensibilità… Che testimonianza sarebbe far brillare l’unità in tutti i suoi multiformi colori, giacché l’unità non è uniformità. «Guarda come si amano!», sarebbe il sussurro della Diocesi.
Ci sono poi tanti altri aspetti dell’unità a cui, per ragioni di tempo, accenno appena. Farci visita (quando siamo malati, ma anche in altre circostanze), interessarci delle necessità senza essere invadenti, renderci disponibili nella collaborazione. E poi c’è la correzione fraterna, così difficile da praticare – quanta prudenza esige – perché presuppone un “di più” di amore, la volontà di un bene maggiore per la persona, anzitutto, ma anche per le altre persone, che potrebbero risultare scandalizzate. Comporta anche un “mettersi nei panni del fratello”. La correzione fraterna rifugge dalla condanna, è medicina, è aiuto, ha orrore delle indiscrezioni, non lascia tracce (neppure sui cellulari!).
Ecco come sant’Agostino parla dell’amicizia nelle Confessioni: «E poi c’erano altre cose che avvincevano il mio animo: le conversazioni e le risate insieme, lo scambio di affettuose gentilezze, la lettura in comune di libri piacevoli, fare insieme cose ora insignificanti ora importanti, contrasti passeggeri, senza rancore, come succede ad ogni uomo anche con se stesso, e con quei contrasti peraltro così rari, rendere più gustosa l’abituale concordanza di vedute; insegnarci cose nuove a vicenda, sentire acutamente la nostalgia per gli assenti e accoglierli con gioia al loro ritorno: questi e altri simili segni, sgorganti da cuori che amano e si sentono riamati, ed espressi col contegno, con le parole, con lo sguardo e con mille graditissimi gesti, fondono insieme come fiamma gli animi e di molti ne fanno uno solo».
Per parte mia non devo che ringraziarvi per la vostra benevolenza; a volte ha la forma della pazienza (più che giustificata!), altre volte la forma dell’incoraggiamento (davvero desiderata), altre volte della simpatia. Vorrei dirvi anch’io il mio affetto. Una dichiarazione che un po’ mi imbarazza per il timore sia indiscreta e per il rischio, poi, di essere smentita dalle mie tante mancanze, sviste, superficialità.
Unità tra di voi, unità col vescovo, unità anche con i nostri fedeli, i laici. Già nella prima parte della Visita Pastorale ho toccato con mano – insieme, ahimè, al ridimensionamento della partecipazione alla vita di Chiesa – la ricchezza di laici che vivono un’intensa vita spirituale, di preghiera, di amore al Signore e alla Madre di Dio. Diversi di loro non temono di esprimere la loro fede in situazioni e ambienti difficili (qualche volta ostili): scuola, fabbriche, farmacie e ospedali… Alcuni hanno trovato la via della “rivincita”, cioè «mettere amore dove non c’è amore» (come dice san Giovanni della Croce). E ci sono i laici più vicini, i nostri collaboratori: alcuni sono davvero preparati culturalmente (talvolta più di noi), professionalmente, ma soprattutto in umanità (la vita di famiglia è una grande scuola di umanità). Allora non possiamo trattarli da semplici esecutori (pretendere l’unità in questo senso), sottoposti al nostro arbitrio, ai nostri puntigli, alle intemperanze del nostro cattivo carattere. Come prepariamo, ad esempio, gli incontri del Consiglio Pastorale Parrocchiale e del Consiglio degli Affari Economici?
La parrocchia alla quale siamo stati mandati (io dico la Diocesi per quanto mi riguarda) non ci appartiene, non è il nostro “reame”. C’è l’eredità di chi ci ha preceduto, il rispetto per la sua tradizione, l’equilibrio fra le diverse anime, il comune riferimento all’intero presbiterio, senza punte di singolarità, al vescovo, al magistero del Santo Padre e della Chiesa. Siamo come un’arpa: ricordate l’immagine di sant’Ignazio di Antiochia a proposito dell’unità. San Paolo direbbe: «Non fatela da padroni» (cfr. 2Cor 1,24).
La pratica dell’unità, se per un verso è un dono che appartiene alla mistica, per un altro verso richiede ascetica. C’è un lavoro su noi stessi, una costante vigilanza e – con l’aiuto di Dio – un superamento dell’individualismo. C’è una radicalità, non solo nella povertà, nella castità, nell’obbedienza, ma anche nell’unità: consiste nel morire a noi stessi. Ma non vorrei che l’espressione ci traesse in inganno. In rilievo non è il morire, ma l’amore; in rilievo non è lo scendere, come seme, nell’oscurità della terra, ma il portare frutto, la germinazione. Se l’unità è una realtà così grande, se è stata ottenuta a caro prezzo da Gesù, buttiamoci generosamente in questa impresa. «Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,32). L’Innalzato innalza ciascuno di noi con lui. Ciascuno di noi è innalzato con l’Innalzato. Ognuno dica nella fede, con generosità e con gioia: «Sulla croce c’è un posto vuoto: è il mio. Davanti Gesù, dietro, accanto a lui, il mio posto!». Ci accompagni, ci sia vicina, ci unisca, lei, Maria, la madre dell’unità: la Regina del Cenacolo. Così sia.