Omelia in occasione della Giornata della pace
1 gennaio 2018, San Marino (Basilica del Santo)
Nm 6, 22-27
Sal 66
Gal 4,4-7
Lc 2,16-21
(da registrazione)
Eccellenze Capitani Reggenti, Signori Segretari di Stato,
Signori Capitani di Castello, Ambasciatrice
fratelli e sorelle,
grazie di aver accettato l’invito a trascorrere queste prime ore del nuovo anno nel raccoglimento, nella comune riflessione e nella preghiera. Auguri!
Ci fa da preziosissimo stimolo il messaggio di Papa Francesco in occasione della 51ª Giornata mondiale della pace, una giornata che si celebra ininterrottamente dal 1967, istituita dal beato Paolo VI.
Il messaggio è indirizzato a tutti gli uomini di buona volontà, perché ognuno è chiamato ad essere artefice di pace. Nello scorso anno, tra l’altro, ci eravamo soffermati su questo trinomio (tre sfumature): essere nella pace, fare la pace, essere pace. La pace comincia da noi, da me per primo. Grande pace sperimento, ad esempio, nel sacramento della Riconciliazione, perché mi sento abbracciato da Dio, fatto nuovo come un bambino. Avverto pace quando fluisce nell’anima un sentimento di benevolenza davanti al limite delle persone che mi passano accanto. È bellezza e gioia provare stima per un altro e pensarlo più buono e più sapiente di me.
La nostra Chiesa particolare di San Marino-Montefeltro si fa a sua volta messaggera e consegna le parole di papa Francesco a coloro che hanno responsabilità di governo – qui in San Marino e in Italia – e responsabilità civili, amministrative, educative, con un gesto solenne e significativo, adesso nella basilica del Santo Marino e, questa sera, nel santuario della Beata Vergine delle Grazie a Pennabilli. Il contesto è quello gioioso, pieno di speranza e di auguri del Capodanno. Per chi è credente è quello solenne che celebra Maria come Madre di Dio, madre di quel bambino che contempliamo nel presepio che è Dio, Verbo fatto uomo.
Papa Francesco nel suo messaggio esprime preoccupazione per le tensioni che lacerano l’umanità e prega per quanti soffrono a motivo delle guerre. Stupisce come nel suo messaggio, appena alla quinta riga, entri subito “in medias res” mettendoci di fronte a cifre inquietanti: 250 milioni di migranti, dei quali 22 milioni e mezzo sono rifugiati. La cittadina di Goma, nel Nord Kivu (cittadina con meno di 300 mila abitanti) – mi è stato detto in questi giorni – ospita 1 milione di profughi. In Italia quest’anno sono arrivati 114 mila stranieri e 2850 sono morti in mare. Questi milioni di migranti e di rifugiati, come affermò Benedetto XVI, «sono uomini e donne, bambini, giovani e anziani che cercano un luogo dove vivere in pace. Per trovarlo, molti di loro sono disposti a rischiare la vita in un viaggio che, in gran parte dei casi, è lungo e pericoloso, a subire fatiche e sofferenze, ad affrontare reticolati e muri innalzati per tenerli lontani dalla meta» (Angelus, 15 gennaio 2012).
Ecco il titolo del messaggio di quest’anno: “Migranti e rifugiati: uomini e donne in cerca di pace”.
Una caratteristica del messaggio, che appare evidente, è che si tratta di un testo controcorrente e parecchio coraggioso, perché dettato in un periodo carico di pregiudizi – lo dico senza animosità – e di volgarità, in un contesto ossessionato da identità chiuse che alimentano paure. È un messaggio decisamente alternativo – non piacerà a tutti – alternativo alle logiche del nemico, dello scarto, dell’indifferenza. Alternativo al sistema Caino, al sistema Erode, al sistema Pilato. Non voglio parlare in astratto, so che devo tanare il Caino che c’è in me, che mi fa dire «sono forse io il custode di mio fratello?» (Gn 4,9), scoprire l’Erode che c’è in me e l’ambiguità che gli fa dire: «Fatemi sapere dov’è il bambino, così andrò anch’io ad adorarlo» (cfr. Mt 2,8); mentre il retropensiero è di eliminarlo. Oppure il Pilato che c’è in me, l’indifferente, che «se ne lava le mani» (cfr. Mt 27,24).
Papa Francesco ci offre il progetto di una nuova cittadinanza. Nell’omelia della notte di Natale ha invitato ad avere una nuova immaginazione. Nel messaggio parla anche di sogno. Il suo è un invito a resistere e a respingere ogni forma di xenofobia e di razzismo, a ricostruire la grammatica della convivenza, ad attivare «la capacità di accogliere, proteggere, promuovere e integrare».
Il necessario realismo della politica non può diventare – cito – «una resa al cinismo e alla globalizzazione dell’indifferenza».
Come suo stile, Papa Francesco ama ricorrere alle immagini; gli servono per rendere performativo il suo pensiero, cioè per coinvolgere il lettore e per facilitare la memorizzazione di quello che dice. Ne evidenzio tre: lo sguardo, le mani, il cantiere.
Lo sguardo. Si tratta di uno sguardo contemplativo, che vede oltre, che vede in profondità, che non si ferma al “fotogramma”, usando un’immagine filmica. Ci sono delle meditazioni che ci innalzano, ci fanno vedere il mondo dall’alto, nel suo insieme, nella sua vocazione totale. È uno sguardo lungimirante, sapiente, fiducioso nella possibilità di «trasformare difficoltà avvertite come minaccia in opportunità per costruire un futuro di pace». Uno sguardo capace «di riconoscere i germi di pace che stanno spuntando».
Le mani. Sono le mani delle persone che arrivano e di quelle che accolgono, mani che si incrociano, magari timidamente. L’idea è che nessuno giunge a mani vuote e che ogni essere umano ha mani che portano, che ricevono, che scambiano doni.
«Che sarà mai di questo bambino?» (Lc 1,66), fu detto il giorno in cui nacque Giovanni Battista; interrogativo chi si pone per ogni bambino che nasce. Perché non si fa questa domanda per ogni bambino che arriva tra noi? E se ci fosse qualche Mozart, se ci fosse Galileo Galilei, oppure un Einstein? Certamente c’è Gesù Cristo.
Il cantiere. Non un cantiere qualsiasi, ma per costruire città dove si vincono la paura e la divisione, dove si lavora per realizzare la promessa della pace.
L’impegno a favore dei migranti – un’azione non qualunquista, ma prudente, concordata, elaborata con strategie di rispetto per tutti – non è altro che applicazione di principi che costituiscono un patrimonio comune dell’umanità, principi codificati nella dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, principi radicati nella nativa costituzione relazionale dell’essere umano (siamo fatti per l’incontro con l’altro, per lasciarci sorprendere dal dono di cui è portatore) e, per chi è credente, nella convinzione indistruttibile che ogni uomo è mio fratello perché figlio dell’unico Padre.
Per questi motivi, sul tema dei migranti, come su ambiente, armamenti e guerre, papa Francesco chiama i credenti e tutti gli uomini di buona volontà a «rendere il nostro mondo più umano», contrastando decisioni escludenti, portatrici solo di dolore, «per uomini e donne in cerca di pace».