Omelia nelle Esequie di don Mario Campana
Torricella, 24 novembre 2017
Sap 3, 1-9
Sal 31
Lc 23, 44-46.50.52-53; 24 1-6
«Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio» (Sap 3,1).
Cari fratelli e sorelle,
è questa la ragione della nostra speranza: «Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio». Ed è ciò che ci conforta quando siamo di fronte al mistero della morte. Un mistero sempre; sia che la morte rapisca come un ladro in gioventù, sia che tagli l’esile filo di una esistenza lunga. Le anime sono nelle mani di Dio. Questa parola è anche il motivo della nostra preghiera di suffragio; chi di noi è così puro da presentarsi davanti a Dio, davanti all’Altissimo, senza l’invocazione della sua misericordia?
Ci avete mai pensato? Non è da poco sentire nel cuore questa certezza: siamo nelle mani di Dio. A volte lo si dice con rassegnazione, come a dire «non c’è più niente da fare», ma quelle parole vanno prese nel loro vero significato. Sono parole di Vangelo: noi siamo nelle mani di Dio. E le mani di Dio formano una sorta di nido. Lì è stato collocato don Mario, soprattutto nel tempo della malattia e, al riparo di quelle mani, don Mario ha coltivato l’unione con Dio. Non amo fare panegirici. L’ho conosciuto negli ultimi anni. Uomo di preghiera e, a quanto mi risulta, maestro di preghiera. Ha insegnato ad amare la Parola di Dio. È vero: più disponibile a dare fiducia alla preghiera che alla medicina e, per usare un eufemismo, “più formica che cicala”. Nelle visite alla Casa di Cura “Toniolo”, dove fu ricoverato all’inizio dell’anno e dov’è rimasto fino a Pasqua, l’ho sempre sorpreso – nelle mie visite settimanali – con il Rosario in mano e “il segno giusto” nel libro del Breviario. Se era di mattina lo trovavo già spostato verso il Vespro, se era tardo pomeriggio era già nel giorno successivo. Per noi sacerdoti “il segno nel Breviario” è un buon “termometro”. Vuol dire che don Mario era fedelissimo alla preghiera. Quanti racconti mi ha fatto, non so fino a che punto realistici, cose rocambolesche, soprattutto quando era sui monti; ma lo penso nelle mani di Dio soprattutto in questo momento. Invito me e ciascuno di voi a concentrarci su queste mani, le mani del Signore. Vedo tre caratteristiche: sono mani creatrici, mani salvatrici, mani amorose.
Mani creatrici: da quelle mani siamo stati plasmati (cfr. Gb 10,8), come l’artista fa col suo capolavoro di creta. «Siamo opera delle sue mani». Nelle sue mani sono gli abissi della terra (cfr. Sal 94,4), i cieli con l’arcobaleno che lui vi ha teso (cfr. Sir 43,12). Ogni volta che il Signore apre le sue mani fioriscono la vita e i viventi si saziano di beni (cfr. Sal 104,28). Tutte le opere delle sue mani sono verità e giustizia (Sal 110,7) e l’opera delle sue mani è proclamata dal firmamento (Sal 18,2). Mani creatrici: se considerassimo questo avremo molta più stima degli esseri umani, anche di noi stessi. A volte si cerca l’autostima nel successo, nella carriera… Mentre siamo «opera delle sue mani» (Is 64,7). Basterebbe questo per ridiventare anche di buon umore.
Mani salvatrici: chi ha familiarità con la Bibbia conosce, come il ritornello, «le sue mani forti, il suo braccio disteso», che ha salvato e liberato il popolo, mani distese sul mare che diventa terra ferma. Mani che guidano il popolo, che prendono per mano, che strappano dagli inferi, che, se feriscono, risanano. A volte pesano sulla spalla o sul capo del profeta. I miei confratelli presbiteri sanno bene quanto è pesante, talvolta, quella mano del Signore, ma nello stesso tempo la sua è anche una mano che solleva, che incoraggia. Nessuno viene strappato da quella mano (cfr. Gv 10,29).
Mani amorose: la Scrittura dice che noi siamo come una perla nel palmo della mano del Signore, la più preziosa delle perle, una corona. Anzi, il nostro nome è scritto sulla mano del Signore (cfr. Is 49,16). Caro don Mario, tu sei scritto su quella mano. Dio non permetterà che qualcuno ti cancelli.
Le mani del Signore sono mani amorose che coprono e fanno ombra. Mani che toccano le labbra del profeta. Isaia non poté dire altro che «Signore, come posso parlare di te, le mie labbra sono impure» (cfr. Is 6,5). E il Signore gli toccò le labbra. Anche Gesù consegnerà la sua anima nelle mani del Padre. Le mani del Signore – sentite questa sottolineatura delicatissima e commovente – portano la sua creatura fino alla sua guancia.
Che dire poi di Gesù! Lui è la mano del Padre tesa per noi, una mano misericordiosa rivolta ai peccatori, che risolleva i malati e quanti, come Pietro, stanno per sprofondare. Mano rivolta a raccogliere chi è sceso nello Sheol. Gesù: mano di Dio!
Voglio dire una parola anche sulle mani di Gesù. Mani che hanno risanato, incoraggiato, accarezzato, asciugato lacrime; mani inchiodate per tre ore sulla croce ma sempre spalancate, destinate a rimanere spalancate per sempre.
Che cosa ha fatto Gesù sulla croce? Siamo stati avvertiti dalla Parola di Dio letta dal diacono di non fermarci alle tre del pomeriggio del Venerdì Santo, perché dopo avviene la risurrezione: stiamo parlando di un vivente!
Ma che cos’ha fatto Gesù per tre ore sulla croce? Non ha fatto della strada, non ha percorso le contrade della Galilea, non ha potuto lavorare.
Per prima cosa ha continuato a soffrire. «Ho sete» (Gv 19,28). Gesù domanda una goccia d’acqua. Per la febbre, per il tetano, per lo spasimo di un supplizio atroce. Ma non solo. Ha sperimentato l’abisso della notte oscura: «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34).
Poi continua a pregare. Tutta la sua passione l’ha vissuta rivolto verso il Padre. Per tutto il tempo. Ma ci sono momenti in cui questo essere rivolto al Padre si esprime con parole: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46). Da notare che Gesù con quelle parole cita il Salmo 31, ma si prende la libertà di aggiungervi una parola, una parola di indirizzo: «Padre». «Padre, nelle tue mani consegno il mio Spirito». E poi, ultima preghiera al Padre: «Tutto è compiuto».
Inoltre Gesù continua ad amare. «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34). E, rivolto al ladrone crocifisso con lui, dice: «Oggi sarai con me nel paradiso» (Lc 23,43). Quanto amore, quanta carità, quanta tenerezza. Ai piedi della croce, un luogo tremendo, dove gli istinti peggiori dei carnefici si scatenano, Gesù crea un “campo magnetico” di amore, di affetti. E gli escono queste parole rivolte alla madre: «Donna, ecco il tuo figlio» (Gv 19,26). E rivolto all’amico del cuore: «Figlio, ecco tua madre!» (Gv 19,27).