Omelia della Domenica di Pasqua

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Cattedrale di San Leo, 16 aprile 2017

At 10,34a.37-43
Sal 118
Col 3,1-4
Gv 20,1-9

«Questo è il giorno che ha fatto il Signore: rallegriamoci ed esultiamo» (Sal 118,24).
Abbiamo cantato questa antifona, pieni di gioia, introdotti dal coro che ci aiuta nella preghiera, dando a questa celebrazione un tono particolare. Ma ogni domenica è Pasqua, ogni domenica ci invita allo stesso fervore, allo stesso entusiasmo, perché Cristo è risorto. È quello che stiamo cantando e celebrando fra le luci, i profumi e soprattutto con la nostra unità, con il cuore che, se anche conosce le sue difficoltà e le sue tensioni, è disponibile: «Signore, vieni!».
Due precisazioni prima di cominciare la meditazione.
1. La risurrezione non è un simbolo. Gesù è di tutti e per tutti, nel modo in cui ognuno riesce a relazionarsi con lui, però la risurrezione non è una “rappresentazione” per dire un concetto, per veicolare la possibilità di ripresa, di risalita. La risurrezione è un fatto, un avvenimento! Ieri, all’inaugurazione della funivia a San Marino, il Segretario di Stato alle Finanze ha usato la metafora della funivia «che fa la sua risalita» per dire il desiderio di ripresa nella Repubblica. Raffigurazione era la funivia, ma il concetto che il ministro voleva significare era la ripresa economica. Quando noi cristiani parliamo di risurrezione non intendiamo una metafora, ma una cosa reale, che è accaduta e accade.
2. Se la risurrezione riguardasse soltanto Gesù, ci verrebbe da dire, senza peccare di irriverenza: «E per noi che cosa cambia?». Invece non è così: la risurrezione è la potenza di Dio che penetra l’universo e lo trasforma. L’atto della creazione è eterno, è qualcosa di metastorico, più grande della storia, qualcosa che accade e che è continuamente in accadimento. Altrettanto è la risurrezione, la vita che Dio vuole. Nel cosmo è stata inaugurata la vita nuova che passa attraverso Gesù. Lui è il primo di una fila di redenti, capofila in un esodo immenso, come dice l’Apocalisse: «Dopo queste cose vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare… » (Ap 7,9). Dietro Gesù, in Gesù, con Gesù… ecco perché facciamo festa. La risurrezione è un fatto reale che, attraverso Gesù, vieni a rianimare ciascuno di noi. Ciascuno di noi va a casa dicendo: «Io sono un figlio della risurrezione» (cfr. Lc 20,36). La risurrezione, potenza di Dio, è un avvenimento che sta ribollendo – come il vino dentro al tino. Dovremmo ricordarlo sempre, anche nei momenti di paura, di sofferenza, di sconfitta, persino di peccato. Possiamo sempre dire che «è entrata in circolo la forza nuova della risurrezione».
Con queste due premesse ripercorriamo i primi nove versetti del Vangelo di Giovanni (cap. 20). Quel mattino del primo giorno dopo il sabato (quella che noi chiamiamo la domenica) è tutta una comunità, rappresentata da Maria di Magdala, Pietro e Giovanni, che è coinvolta nella ricerca di Gesù. Tutt’e tre, infatti, sono alla ricerca del Signore. Ma ognuno a suo modo; infatti ognuno ha una reazione diversa di fronte a ciò che accade.
Maria Maddalena sembra che, più che cercare il Signore, cerchi un sepolcro per piangere. Ha un bellissimo ricordo del Maestro, carico di affetto, ma non spera certo di incontrarlo vivo. Ha constato ella stessa che è morto. Quando si avvicina al sepolcro vede la pietra ribaltata, ma resta all’esterno, non indaga ulteriormente; agitata e sconsolata corre a dare agli altri l’annuncio che hanno trafugato il Signore. Maria Maddalena è il discepolo della fede superficiale, per il quale Gesù non è che un bel ricordo, ma che non crede di poterlo incontrare risorto e pertanto – diciamo così – ha un atteggiamento tipico di chi va al cimitero piuttosto che in chiesa. Tutti siamo un po’ come Maria di Magdala. L’evangelista annota: «era ancora buio fuori», ma il buio era soprattutto dentro di lei. Poi arriva Pietro, il secondo personaggio: lui entra nel sepolcro, decisionista com’è di carattere, vede che è vuoto, ispeziona accuratamente i teli funebri e capisce che il Signore non è stato trafugato, perché i lini sono piegati, il lenzuolo è ben sistemato in un angolo, il sudario in un altro, proprio come quando uno va via da casa e lascia tutto in ordine. Rimane perplesso; il suo esame è completo ma senza risultato. Pietro rappresenta il discepolo razionale, che ama approfondire personalmente la fede, ma non comprende che la risurrezione non è la conclusione di un’indagine scientifica e perciò rimane ad arrovellarsi nelle sue ipotesi. Al massimo approda a Gesù maestro di etica. In ognuno di noi c’è anche un po’ di Pietro, come c’è Maria di Magdala.
Giovanni è il discepolo che, pur senza rinnegare le esigenze della ragione, «vide», indaga come Pietro, tuttavia si lascia guidare dall’amore e, per questo, apre gli occhi sulla realtà misteriosa della risurrezione. Dice il Vangelo: «…vide e credette». Perché Giovanni è arrivato per primo? Qualcuno dice perché era giovane, quindi correva più forte. Non è per questo, sarebbe troppo banale. Giovanni è «il discepolo che Gesù amava» (anonimo perché ciascuno possa mettere il proprio nome).
Il messaggio che esce dalla tomba vuota è: «Fa’ come Giovanni». Solo un rapporto d’amore con Gesù fa alzare il sipario e aprire gli occhi sulla realtà misteriosa della risurrezione. «Signore, ti chiediamo un “di più” di fede».
Vedremo durante la settimana tanti racconti di apparizione. Ogni racconto non è altro che la testimonianza di un incontro.
«Signore, togli la pietra che chiude il nostro cuore nella notte. Facci vivere nella luce della tua Risurrezione».