Omelia nella Messa in Coena Domini

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Cattedrale di Pennabilli, 13 aprile 2017

 

Es 12,1-8.11-14
Sal 115
1Cor 11,23-26
Gv 13,1-15

Benvenuti «al convito nuziale del suo amore». Sono le parole della preghiera con cui abbiamo iniziato la liturgia, a questo «convito nuziale del suo amore» possiamo partecipare in pienezza, cioè non come semplici spettatori, ma “stando al gioco” sino in fondo. Quella notte effettivamente – la notte dell’ultima cena – Gesù, lo sposo, ha iniziato un gioco d’amore: si è nascosto per farsi trovare e per la gioia di sentirsi cercato. Una tattica vincente, perché fa crescere il desiderio e col desiderio l’ardore. Per chi si lascia amare, lui può dare ancora più amore in una performance sempre più esuberante: eccedenza dell’amore sponsale! E dove si nasconde lo sposo? Nel pane spezzato quella sera, prima del suo sacrificio: «Prendete e mangiate, […] prendete e bevete» (cfr. Mt 26,26). Rimane nascosto agli occhi. Sulla croce era nascosta la divinità, qui è nascosta anche l’umanità. E noi, tutti insieme, la Chiesa sposa, crediamo alla sua divinità e alla sua umanità, benché nascoste nel pane e nel vino, pane che viene poi conservato e racchiuso nel tabernacolo, cuore delle nostre chiese. Davanti al fascino dello sposo finalmente riconosciuto, questo mistero d’amore ha l’effetto sulla bocca di renderci muti, l’effetto negli occhi di renderci miopi e l’effetto nell’anima di renderci mistici. Le parole “mistero” e “mistico” derivano dal verbo greco “muo” che significa “star chiuso di bocca e di occhi”, cioè “essere muto” e “essere miope”. E chi ci obbliga a questo? Il mistero, cioè il fascino dell’Eucaristia. Lo sposo cercato, ritrovato, serrato a sé, si dà con il suo corpo e in questo noi riconosciamo la sponsalità di questo amore. «Eccomi – dice Gesù -, prendimi, unisciti a me, mangiami, possiedimi». Da parte sua, lo sposo vuole donarsi, cioè farsi dono – e il dono non è un prestito -, vuole perdersi, cioè consegnarsi per sempre nella fedeltà. Nell’unità c’è la fusione: lui in noi, noi in lui. Questo fa l’Eucaristia.

Tra poco riceveremo il Signore che si dona così e da questa unità nasceranno tanti frutti: fecondità, creatività, voglia di essere come lui. Lo sposo ama in modo incondizionato e dà il meglio di sé all’amato. Chiede fedeltà, una fedeltà da intendere nel modo giusto. Dichiara una gelosia che non è possesso che annulla, che tarpa le ali, che inibisce. È una fedeltà che fa sbocciare l’amato in tutti i suoi colori. È una fiducia che fa crescere, è una gelosia che protegge, perché ti fa sentire quanto vali per lui, quanto importante sei per lui. «Eccomi – dice stasera il Signore -, io sto alla porta e busso, se qualcuno mi apre io verrò da lui, cenerò con lui e lui con me» (cfr. Ap 3,20). E poi aggiunge: «Io sono lo sposo che passerà a servire» (cfr. Mc 13,34; Mt 20,28).
Teresa d’Ávila dice che, nel momento dello sposalizio con il Signore, la creatura arriva a «compiere opere ed opere». Così lo sposo e la sposa gareggiano nel servizio. Gesù lava i piedi; rivivremo questo momento fra alcuni istanti. Anche a noi chiede di fare lo stesso, questa sera nel rito, ma, appena fuori, nel servizio concreto, fatto con i muscoli, con il sacrificio, spesso necessario. Per “mistica” non intendiamo qualcosa di evanescente, ma la dedizione verso chi ci vive accanto, amore con i fatti e non a parole. Lo sposo ritiene fatto a sé quello che facciamo «al più piccolo dei nostri fratelli» (cfr. Mt 25,40). «Ecco la tua sposa, Signore: questa assemblea che è pronta per te». Amen.