Discorso del Vescovo al Convegno promosso dal Forum del Dialogo: “Noi e l’Islam”

 

San Marino (Palazzo SUMS), 27 febbraio 2016

 

  1. Il mese scorso, nel giorno della Memoria, gli studenti del Liceo sammarinese si sono riuniti per un tempo di riflessione a settanta anni dall’olocausto. In quella circostanza fu ricorrente l’invito a non fermarsi alla sola memoria, ma a fare della memoria una risorsa per il presente. Dopo gli interventi dei giovani partecipanti (lettura di brani, relazione di un recente viaggio ad Auschwitz, una loro rappresentazione e un brillante stacco musicale), sono saliti sul palco rappresentanti e leader di diverse confessioni religiose cristiane e non cristiane. C’ero anch’io. La nostra presenza attorno a quel tavolo credo abbia rappresentato un messaggio forte, al di là delle parole. Non era solo cortesia. C’era molto di più. C’era l’unanime condanna alla guerra, specialmente ad ogni guerra in nome di Dio. C’era il desiderio di fissare temi e comuni strategie educative in vista della pace. C’era un’aperta volontà di dialogo. Il tutto esibito chiaramente davanti alla platea. So di qualche critica sulla conduzione dell’evento; ci può stare… Personalmente ho trovato quell’incontro un segnale ed un seme promettente per il futuro; uno “spettacolo” reso ancor più risuonante per la presenza dei giovani interlocutori.
  1. Ho richiamato alla mente il mio motto episcopale: “Cor ad cor loquitur”. Il cuore è unico in ogni essere umano. C’è corrispondenza tra uomo e uomo e questo è un buon punto di partenza. All’inizio del dialogo sta questa prima evidenza affidata alla responsabilità di ognuno. Da cuore a cuore, quasi confidenzialmente, racconto come ha risuonato dentro di me la parola “dialogo”. Ho un vivissimo ricordo di come imparai questa parola attraverso la prima enciclica di Paolo VI, Ecclesiam Suam. Correva l’anno 1964. Ero un ragazzo di Liceo. Certamente condizionato dal clima di quegli anni, fui pieno di entusiasmo per il dialogo assunto come via della Chiesa: “La Chiesa si fa dialogo” (Paolo VI). Il dialogo era visto soprattutto come strumento attraverso il quale giungere ad una più profonda comprensione della verità e ad una apertura a chiunque fosse disposto ad ascoltare il messaggio di Cristo. Dalla mia famiglia avevo imparato a convivere con le differenze… Il mio entusiasmo, come quello di chi mi stava attorno, visto in distanza non fu esente da ingenuità e, talvolta, fu maldestro. Imparai la lezione. Nel dialogo non si abdica alla propria identità, né alle proprie convinzioni. Al contrario, attraverso diverse esperienze, ho compreso che la relazione con chi è diverso da me e la pensa diversamente da me mi chiarisce a me stesso. Altro è l’unità, altro l’uniformità. L’unità è armonia nella diversità. L’uniformità annulla la bellezza originale. L’unità è variopinta, l’uniformità è grigia. Nel mio servizio educativo ho ritenuto indispensabile precisare, ad esempio, come il volto del Dio di Gesù Cristo sia inconfondibile, singolare, non assimilabile al volto di Dio come è tratteggiato da altre esperienze religiose. Dio è uno e unico, ma quando leggo Luca 15, come ho fatto questa mattina, devo confessare con la più grande commozione che prego così: “Signore, vorrei che tutti ti conoscessero così!”. Quando leggo Giovanni 17 capisco qualcosa di più di quella definizione: “Dio è amore”. Dio mi si rivela come Trinità d’amore.
  1. Nell’esercizio del dialogo faccio esperienza di sicurezza. Dialogare è necessario, non è una concessione, perché nell’altro c’è verità. Non ho paura. Ho toccato con mano che c’è una “sicurezza insicura”. La ritrovo in chi gioca in difesa. Si mostra solido, ben piazzato nella sua rocca, ma, in realtà, è per il timore di mettersi in discussione. C’è l’apparente insicurezza di chi è in ricerca, ma è perché non teme l’avventura di aprirsi e la sfida dell’incontro con l’altro. C’è una tradizione patristica (primo testimone, a quanto so, è il santo filosofo Giustino) che fa guardare la realtà, i cammini più diversi, alla luce dei “semi del Verbo”. Io dialogo con te, con la tua cultura, perché voglio scoprire e raccogliere i “semi del Verbo” di cui sei portatore. “Semi del Verbo”: scintille di verità che provengono dall’Uno. “Accogliete la parola seminata in voi” (Giac 1,21). Il dialogo ha un’ascesi: faccio silenzio e ascolto, mi faccio da parte, per così dire, creo spazio. Così metto in condizione l’altro di darsi, di svelarsi e dare il meglio di sé. Accolgo perché chi mi sta di fronte è prezioso e degno di stima (cfr. Is 43,1-6). Ti accolgo non perché non sai dove andare, dove trovare rifugio, ma perché sei un dono per me. Vedo il tuo problema: il tuo problema è mio, mi faccio uno con te. Allora mi metto a tuo servizio.
  1. La fraternità è una delle tre parole chiave della rivoluzione francese (della modernità): égalité, liberté, fraternité. Fraternità è parola che lascia intravvedere una matrice cristiana ed è anche la più difficile da tradurre giuridicamente, ma quella a cui ciascuno aspira, soprattutto quando una comunità si sente minacciata. La fraternità è una nozione centrale nel cristianesimo. I cristiani si presentano come fratelli e sorelle (cfr. NT), riconoscendosi tutti ugualmente figli di uno stesso Padre. Ma non si può nascondere come nella Bibbia l’esperienza della fraternità incominci in maniera drammatica. Il primo “figlio minore” dell’umanità, Abele, viene assassinato dal suo fratello maggiore, Caino (cfr. Gn 4,1-15). Altri conflitti tra fratelli ci verranno raccontanti; ad esempio, Giuseppe venduto dai fratelli (cfr. Gn 43-44). Ma il libro della Genesi si chiude con questo motivo di speranza: “Se voi avevate pensato un male contro di me, Dio ha pensato di farlo servire a un bene, per compiere quello che ora si avvera” (Gn 50,20).
  1. A differenza dell’amicizia, la fraternità è qualcosa di donato. Gli amici si scelgono, ma non i fratelli. I fratelli si ricevono dai genitori comuni. È un legame che ci precede e che è necessario. Come gestire questo essere dono? La fraternità, in effetti, è ambivalente: può essere usata per chiudere un gruppo su se stesso e contrapporlo a chi non è del gruppo. La fraternità nazionale – ad esempio – può essere proclamata per sottolineare la distinzione tra i cittadini e gli stranieri, guardati addirittura con sospetto (spinte identitarie). Ma il Vangelo proclama che la fraternità non può che essere necessariamente universale. I legami di sangue o di “suolo” sono un dono, ma reclamano un allargamento, una liberazione: la paternità divina essendo unica ed universale postula che altrettanto sia la fraternità. Non è un cammino facile, occorre continuamente scoprire quello che si è e quello che si ha in comune, oltre le apparenze. Dio può svelarci come fratelli e sorelle. Vorrei chiudere dicendo a tutti e a ciascuno: “Sei mia sorella, sei mio fratello; vorrei farti sentire in casa tua a casa mia”.