Omelia Solennità del Corpus Domini
Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
Castello di Montemaggio, 7 giugno 2015
Carissimi,
chissà perché solo a sentir parlare di messa proviamo un senso di noia. Capisco i ragazzi; ma noi adulti…
Dobbiamo ammettere che talvolta il modo di celebrare, il tono delle omelie, le ripetizioni, la pressione delle preoccupazioni personali possono condizionare negativamente. Ma al fondo della nostra difficoltà forse sta un’idea sbagliata della messa. Si pensa alla messa come ad un pesante contenitore di preghiere, lungo un’ora (quando va bene!). Un obbligo da assolvere in compagnia di sconosciuti, in un ambiente torrido d’estate e gelido d’inverno. Un contenitore di preghiere complesse, estranee al linguaggio corrente, accompagnate da una gestualità lontana e ieratica. Preghiere che altri ci mettono sulle labbra (noi avremmo in cuore ben altro da dire al Signore) e a cui dobbiamo rispondere con formule stilizzate: “e con il tuo spirito”, “amen”, “Deo gratias”.
No! la messa non è un contenitore di preghiere.
Se vogliamo “entrarci” consideriamola un avvenimento.
Durante la messa succede qualcosa.
Andiamo subito al centro dell’avvenimento. La messa si apre con i “riti d’inizio”, servono alla preparazione dei partecipanti con umile riconoscimento della comune condizione di peccatori.
Per prima incontriamo la liturgia della Parola, così viene chiamata la lettura ed il commento ai brani biblici, immancabili in ogni celebrazione. La messa ha – per così dire – una duplice mensa: quella in cui si spezza il pane della Parola e quella in cui si spezza il pane eucaristico (cfr. Sacrosanctum Concilium).
La messa ha una sua logica, un suo sviluppo ed una sua dinamica. Ho conosciuto persone che andavano a “prendere messa” (come dicono loro impropriamente) nel Duomo dove le messe si susseguono una dopo l’altra. Ne prendono metà dalla celebrazione precedente e proseguono con la successiva, come fa chi va al cinema a partire dal secondo tempo. Ma nella messa non siamo spettatori. Partecipiamo. Preoccupiamoci delle “cose da fare”. Incominciamo col mettere sull’altare il nostro vissuto, le nostre giornate, la cesta colma delle fatiche e delle gioie: il pane ed il vino che il sacerdote sta per offrire ne sono il simbolo. Perché quest’operazione non sia generica diamo un nome preciso a quello che offriamo. Questo è il momento dell’offertorio.
Dopo il canto dell’ “Osanna a Colui che viene” (o “Santo”) siamo coinvolti in un racconto che da duemila anni i cristiani ripetono con assoluta fedeltà. È incredibile come, nell’era degli spot, della tele-comunicazione, il racconto non abbia perso la sua forza. Ce ne accorgiamo (lo sentiamo e lo vediamo) guardandoci attorno: un’assemblea s’inginocchia, si raccoglie in un profondo silenzio (non lo guasta neppure lo strillo improvviso di un bimbo!); il sacerdote si china e sussurra: “La notte in cui Gesù fu tradito, prese il pane, lo spezzò, lo diede ai suoi discepoli e disse: prendete e mangiate questo è il mio corpo dato per voi…”. Il racconto prosegue. Il pane ed il vino vengono presentati all’assemblea. Anche un amico non cristiano sospetterebbe che è accaduto qualcosa di grande. Il cristiano ha la fortuna di sapere che Gesù si è fatto presente nel dono di quel pane spezzato. È il momento della consacrazione.
Un miracolo? Di più. In quel gesto è ripresentata, resa attuale e sintetizzata tutta la vicenda di Gesù Figlio di Dio incarnato, che condivide la nostra vita e ci fa dono della sua (solo un sacramento può realizzare efficacemente questo mistero e renderci contemporanei ad esso).
Il racconto suscita, ogni volta, stupore. Coinvolge: ecco, veniamo rapiti in un movimento ascensionale che ci trasporta nel seno del Padre. Siamo collocati nel “sì” che Gesù ha detto al Padre. Non è il momento di abbassare gli occhi sulle nostre infedeltà e sui nostri peccati. Fissiamo l’ostia e il calice che il celebrante innalza sull’altare più che può. Consideriamo con quanta forza lo Spirito Santo – “Amore effuso nei cuori” (cfr. Rm 5,5), così i primi cristiani chiamavano la terza Divina Persona) – ci fonda con Gesù e ci sospinga come fa il vento che gonfia una vela. Dobbiamo solo dire – anzi, cantare – “amen!”. La nostra adesione intercetta e si unisce a quella di un popolo intero: “Per Cristo, con Cristo e in Cristo, a te Dio Padre onnipotente, nell’unità dello Spirito Santo, ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli”.
Il fiato che esce dai nostri polmoni e si fa canto è risonanza dello Spirito. E siamo voce di ogni creatura. Questo è un momento centrale della messa, a volte scivola via e ci sfugge: è il momento della dossologia.
Ho visto in una chiesa un pregevole bassorilievo in marmo bianco. Vi è scolpito un pellicano che si squarcia il petto per nutrire di sé i suoi piccoli.
Fin dall’antichità il pellicano è simbolo eucaristico. Un inno medievale (autore Tommaso d’Acquino) canta così: “Pie pellicane, Jesu Domine”. Gesù ci nutre di sé; disponibile per saziare la nostra fame. Fame di che cosa se non di lui, pane vivo disceso dal cielo (cfr. Gv 6,51)?
Siamo al momento tanto atteso e desiderato della comunione. Ci si preparare pensando e considerando a chi si va a ricevere (a questo serve anche l’ora di digiuno richiesta prima della comunione) ed essendo in comunione autentica con il Signore (nella sua grazia). Dovremmo stimare tanto la Comunione da detestare il peccato e le sue false promesse. Conosciamo la fatica di sbarazzarsi del peccato. Ci hanno insegnato, tuttavia, che non è il peccato a tenerci lontano da Gesù, ma il non volerci riconciliare con lui. Il perdono di Gesù ogni volta sorprende, turba, disarma, converte, conquista, abbraccia, fa crescere…
A Dio importa molto anche di chi, in questo momento della vita, forse, non può accostarsi al sacramento, ma, intanto, può fare comunione con la parola di Gesù e con lui nel fratello. E questo non è davvero poco.
Ci pare poco?