Omelia Festa di San Giovanni Bosco
Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
Chiesa di Murata, 1 febbraio 2015
Mt 18,1-5.10; 12-14
1. «Chi dunque è il più grande nel Regno dei Cieli?» (Mt 18,1). Una domanda ingenua: c’è ancora chi pensa il Regno come una grandezza mondana, dove contano le gerarchie, le carriere, il potere.
Nella sua risposta Gesù, con grande acume didattico, chiama a sé un bambino, lo pone in mezzo a loro, e insegna ai discepoli che, certo la comunità dovrà essere strutturata, ma conta chi diventerà piccolo come un bambino (v. 3).
Il bambino è spontaneo, sincero, non ha ambizioni. Così una comunità che vuole essere un segno del Regno non può tollerare che si dia posto al carrierismo; e chi ha delle responsabilità dovrà stare insieme agli altri in modo semplice, discreto, accogliente. Dovrà guardarsi dal disprezzare uno solo di questi piccoli che a volte infastidiscono con le loro domande e vogliono sempre giocare. Non li trascuri e non li scacci via, perché i loro angeli nel cielo vedono sempre la faccia del Padre. I loro angeli fanno parte del consiglio ristretto di Dio e quindi saranno giudici accusatori o difensori a seconda di come si sono trattati i bambini!
2. Don Bosco ha accolto i bambini e “questa cara gioventù”; è stato un prete così! E chi non vorrebbe averlo come amico, maestro, guida? Ed a chi – tra i giovani – non piacerebbe diventare un prete come lui? Amico dei ragazzi, interprete dei loro sentimenti più profondi e veri, animatore del loro cammino e del loro stare insieme… Adulto e, nello stesso tempo, più giovane di loro!
Prima dei talenti che hanno resa così singolare la sua vita, prima delle sue geniali intuizioni pedagogiche e delle sue qualità umane (che ce lo fanno sentire ancora tanto vicino a 200 anni dalla nascita), dobbiamo considerare il segreto racchiuso nell’anima di quest’uomo. Era un uomo di Dio. Ha creduto all’amore di Cristo e si è lasciato fare da lui: ha camminato alla sua presenza. Da qui la sorgente della sua gioia, l’inesauribile dedizione nel dono di sé. Non solo è stato accogliente con i piccoli, ma ha fatto proprio lo “spirito d’infanzia”: Essere come i bambini; un programma esigente e semplice.
Per don Bosco significava quello “spirito dell’infanzia” che ti fa sentire amato dal Padre preventivamente e incondizionatamente. Non per meriti acquisiti. Dio ama, come un papà e una mamma amano il loro bambino; semplicemente perché è “loro”!
3. Perdonate questo riferimento personale: il mio primo incontro con don Bosco è accaduto quando ero bambino. Nel sussidiario della terza elementare c’era una pagina dedicata a lui. L’illustrazione lo ritraeva ai bordi di una giostra con tanti ragazzi attorno. Da allora ho sempre collegato la sua persona alla gioia; anzi, ad una delle sue espressioni più eloquenti: il gioco.
Don Bosco si è fatto “giocoliere” tra i ragazzi. Ha avuto una grande intuizione: nel gioco si liberano e si fanno circolare talenti. Il gioco è una dimensione importante della vita (chi lavora volentieri, vive il lavoro stesso come gioco e tanti giochi simulano i lavori!).
Il gioco non è solo relax, una sosta dalla fatica, ma muove creatività, fantasia, libertà, impegno… Per don Bosco il gioco era una cosa seria: scuola di vita, palestra dove ognuno si misura con se stesso. Il gioco è gratuità.
Nelle memorie di don Bosco si narra del suo incontro con uno dei primi ragazzi dell’Oratorio. Un altro prete stava scacciando in malo modo quel monello. Don Bosco ferma il ragazzo e gli dice con garbo e con una certa solennità: “Ho una cosa importante da dirti. Aspettami dopo la Messa”. Il ragazzo non se ne va. È incuriosito: nessuno mai si è rivolto a lui con la promessa di una cosa importante… Finalmente, dopo la Messa, don Bosco chiede al ragazzo: “Sai leggere?”. “No”, risponde. “Sai scrivere?”. “No”. “Sai fare un mestiere?”. “No”. “Sai cantare?”. “Neppure”, replica il ragazzo. “Sai fischiare?”. “Sì!”, risponde finalmente il ragazzo. Con un ragazzo che sapeva fischiare don Bosco ha iniziato un capolavoro di pedagogia: l’Oratorio. C’è una grande idea dietro: andare ostinatamente alla ricerca del positivo che è nell’altro. In ogni persona c’è qualcosa, presente in germe, che può sbocciare. Ha solo bisogno del clima necessario per venir fuori. Mi hai fatto come un prodigio, canta il Salmo 138. E ancora: la tua bontà mi fa crescere (Sal 17).
È l’essenza del metodo educativo salesiano. “L’educazione è cosa del cuore”, scriveva don Bosco. Da qui il “prevenire” piuttosto che il “reprimere”.
“Farsi bambino”: una parola che può trarre in inganno. “Farsi piccolo”, “credersi piccolo” può nascondere infantilismo o falsa umiltà. È proprio del bambino non restare piccolo. Il bambino cresce, e non può che essere così; riceve la vita dai genitori e l’aiuto dai grandi e questo gli consente di svilupparsi fisicamente, intellettualmente e spiritualmente. Se Gesù ci esorta a diventare come bambini è perché vuol ricordarci che non abbiamo mai finito di crescere!
4. Nella biografia di don Bosco troviamo il riferimento ai suoi sogni. Come interpretare questo? Don Bosco non era un “sognatore”, ma una persona assolutamente concreta, attenta alla realtà, coinvolta nelle vicende del tempo. Eppure ha ricavato dai suoi sogni progetti e scelte. Gli è stato riconosciuto in questo un carisma speciale. Che rapporto c’è tra sogno e realtà? C’è chi vede nel sogno l’emergere del proprio vissuto e dell’inconscio: nel sonno si allenta la vigilanza e viene fuori il passato. Don Bosco sembra dirci che nel sogno è adombrato l’ideale. Nel sogno c’è futuro e orizzonte! Per lui è stato così. Il sogno è stato vocazione! Vale per i ragazzi e vale per noi adulti: “Quando eravate ragazzi – diceva don Bosco – vi ho voluto bene, adesso che siete grandi ancora di più”.
A San Domenico Savio ha insegnato il segreto della santità e del sogno: “Fare la volontà di Dio sempre, subito e con gioia”.