Omelia nella Veglia Pasquale

Pennabilli (RN), Cattedrale, 30 marzo 2024

Ez 36,16-17a.18-28
Rm 6,3-11
Sal 117
Mc 16,1-7

Carissimi, buona Pasqua.
Questo non è un augurio, è un annuncio: Gesù è risorto, è vivo ed è in mezzo a noi!
Ci sarebbero tante cose da commentare nella liturgia che stiamo vivendo. Questo “popolo di Pasqua”, che siamo noi, è incamminato dietro il bagliore del cero pasquale. Un richiamo alla presenza nella storia: siamo piccoli, poveri, pochi, ma portatori di luce per l’umanità.
Poi, il momento solenne in cui il seminarista Paolo ha cantato l’Exsultet, un inno che squarcia le tenebre, un inno da centellinare riga per riga, parola per parola, fino al paradosso: «O felice colpa, che ha meritato un così grande Redentore». Segue la grande traversata lungo la storia della salvezza. Non c’è tempo per sottolineare come tutte le Scritture parlino di Gesù e di noi come suo popolo, sue membra. Successivamente la liturgia della benedizione dell’acqua: il fonte battesimale.
Talvolta, mi succede di ripetere questa frase: «Molti si ritrovano cristiani senza aver mai deciso di esserlo». Questa sera decideremo di esserlo se pronunceremo in modo convinto, col cuore e con l’intelligenza, le promesse battesimali. Poi il momento che riassume tutto: l’Eucaristia, con i quattro verbi che abbiamo sottolineato e approfondito in quest’anno pastorale. Gesù prende il pane: prende la nostra vita. Il pane, con tutta la sua storia, ci rappresenta. Lo benedice: benedice le nostre vite e noi vogliamo che la nostra vita sia una benedizione, un dir bene di Lui. Lo spezza perché tutti ne abbiano almeno un frammento, una briciola; lo spezzare è anche un gesto profetico, che allude al suo morire in croce: Gesù viene spezzato perché si dona. Anche noi, talvolta, viviamo delle fratture nella nostra vita, siamo pane spezzato per gli altri: in famiglia, nella società, nella Chiesa e nella “vocazione” particolare della sofferenza. Sta a noi decidere se vogliamo subirla – tutti soffrono – oppure se aspettiamo quel momento di sofferenza, che viene comunque, per offrirlo. Ma cosa se ne fa il Signore? Quello che conta è il senso che diamo al nostro soffrire. Diciamo a Gesù: «Con te, attraverso di te, in te, voglio essere membra della redenzione, voglio partecipare con te alla redenzione del mondo, mettendo la mia piccola “goccia”», quella che simbolicamente viene fatta scendere dal celebrante nel calice all’offertorio: le gocce di acqua che il sacerdote fa scendere nel calice rappresentano la nostra parte, piccola, ci pare addirittura insignificante, ma Dio sa quanto ci costano alcuni passaggi della nostra vita. Avrei tante altre cose da dire; le leggo perché voi siete il popolo della Cattedrale. Quando il Vescovo parla in Cattedrale non lo fa “a braccio”: il Vescovo non è qui per comandare, ma per esprimere un magistero. Non siamo un’organizzazione mondana. Il Vescovo è un apostolo che deve gridare che Gesù è Risorto, che c’è risurrezione nella morte.
Insieme a voi mi faccio prendere per mano da tre donne del Vangelo: Maria di Magdala, Maria madre di Giacomo (quella che disse «vorrei che i miei figli fossero uno alla tua destra e uno alla tua sinistra») e Salome. Lasciamoci condurre al sepolcro. Non voglio rovinare la festa parlando di sepolcri, però, dalle donne, imparo la capacità di entrare nel dolore: le donne sanno prendere tra le braccia. Per ben tre volte l’evangelista Marco sottolinea il momento: «Passato il sabato, Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo e Salòme…»; «Di buon mattino, il primo giorno della settimana, vennero al sepolcro al levare del sole». Le parole, nei testi antichi, hanno sempre un significato più grande di quello che percepiamo noi: per loro scrivere era un’impresa. L’evangelista Marco, quando sottolinea questi tre momenti: «Passato il sabato», «Di buon mattino, il primo giorno della settimana», «Al levare del sole», ci sta dicendo che siamo di fronte a qualcosa di molto grande, paragonabile alla creazione. La risurrezione è una nuova creazione.
Poi, le tre donne comprano il Myron, l’olio aromatico – era una prassi comune a quell’epoca – per attenuare il cattivo odore che emana la salma. Vogliono rendere possibile la sosta presso la tomba. Quel gesto è emblematico, perché svela qualcosa che succede nella nostra vita: ognuno ha dentro di lui delle sconfitte, del veleno (qualcosa di mortifero, di maleodorante) e qualcosa che assomiglia alla morte. Anche noi facciamo come queste tre donne: vogliamo coprire la morte con il Myron. Ma ecco la sorpresa: quelle donne troveranno un sepolcro vuoto. Incontrano un messaggero – noi diciamo che è un angelo e lo raffiguriamo con le ali –, in realtà può essere ciascuno di noi, in primis il sacerdote che dalla tomba vuota (l’ambone, di per sé, ha la forma di una tomba) proclama l’Evangelo. Quell’Angelo annuncia alle donne: «Il Signore che voi cercate non è qui!».
Gli ebrei, all’epoca dell’evangelista Marco, chiamavano la parte interna del tempio “il luogo”, intendendo il luogo santo, il luogo dove Dio parla. Il Santo dei santi, la cella interna del grande tempio di Salomone ricostruito da Erode, era vuoto. Però lì c’era la presenza, perché Dio parla nel suo silenzio. L’Angelo annuncia che Gesù è vivo e che i suoi discepoli devono andare ad incontrarlo in Galilea. Da notare: non li manda “in piazza San Pietro” o “nella Cattedrale di Pennabilli”, ma in Galilea. Cosa significa? La Galilea è il luogo di provenienza delle donne, degli apostoli, dei discepoli, là dove lavoravano, dove avevano famiglia e vivevano le relazioni, dove trattavano i loro affari. Quindi, li esorta ad andare nel quotidiano: «Là lo vedrete». Anche noi possiamo incontrare Gesù nel nostro quotidiano.
Ma c’è anche un secondo significato. Il Vangelo di Marco di per sé finisce di colpo, dopo la risurrezione, ma è stata fatta un’aggiunta canonica, ispirata, con questo invito: «Andate in Galilea», cioè “tornate indietro”, “riavvolgete il film” e rivedrete come dalla giornata di Cafarnao fino a Gerusalemme non è stato altro che un anticipo dell’incontro con Gesù Risorto, a partire dal primo miracolo, la guarigione del lebbroso, più morto che vivo: Gesù lo risana e diventa puro; poi, la guarigione del paralitico calato dal tetto, a cui Gesù dice: «I tuoi peccati sono perdonati» e, per dimostrare che era proprio vero, Gesù compie un segno: l’ha fatto camminare, invitandolo a prendere sulle spalle il suo lettuccio, il luogo nel quale era stato inchiodato per anni, bagnato del suo sudore: «Adesso puoi camminare, sei risorto…». Tutto il Vangelo non è altro che incontri con Gesù Risorto.
Il Vangelo di Marco si ferma qui. È come se dicesse: «Prova a vedere dove, nella tua vita, stai incontrando Gesù e come lo stai incontrando in questa serata di preghiera e di veglia». Buona Pasqua!