Omelia nella Solennità del Mercoledì delle Ceneri
Pennabilli (RN), 22 febbraio 2023
Gl 2,12-18
Sal 50
2Cor 5,20-6,2
Mt 6,1-6.16-18
Nell’ingresso in Quaresima Gesù ci invita alla preghiera, al digiuno e alla condivisione (preferisco il termine condivisione perché elemosina dà l’idea dello spicciolo che si dà ad un passante): tre atteggiamenti necessari che il Signore domanda esplicitamente per scuotere il nostro cuore e per sollevarci dalla nostra mediocrità.
C’è una condizione che torna come un ritornello: fare nel segreto. Il segreto è l’intimo del cuore, il luogo dove il Padre ha stabilito la sua dimora e dove noi possiamo incontrarlo. Nel segreto cadono le maschere, siamo finalmente noi stessi, nella verità del nostro essere. Il segreto, poi, è la garanzia della gratuità di quello che facciamo, del nostro fare sul serio. Dunque, non ci sarà nessun vantaggio, nessun guadagno per l’immagine che gli altri possono essersi fatti di noi: siamo quello che siamo, non importano i complimenti e neppure il vestito, il copricapo… L’essere nel segreto non esclude l’essere in comunione con gli altri. È qui che il Padre ci attende per consegnarci ai nostri fratelli.
Dei tre atteggiamenti necessari – preghiera, digiuno e condivisione – questa sera preferisco dire una parola sul digiuno: «Quando digiunate non assumete un’aria melanconica come gli ipocriti». Nel Salmo 50 c’è una frase che ha molta pertinenza con la Quaresima: «Rendimi la gioia di essere salvato» (cfr. Sal 50,14). Per questo la Quaresima non è un tempo triste!
Il digiuno fa bene al nostro corpo, al nostro spirito e al nostro rapporto con il Signore. La pratica del digiuno si trova in tutte le tradizioni religiose (ad esempio nel ramadan dei musulmani, nella regola dei monaci buddisti, nella prassi dell’ebraismo in occasione di diverse feste, tra i cristiani in Quaresima e non solo…) e si ritrovano diversi esempi nell’Antico e nel Nuovo Testamento: ad esempio quando Neemia, dopo il rientro dalla cattività babilonese, convoca tutto il popolo e proclama un giorno di grande digiuno, oppure quando la principessa Ester invita i giudei a digiunare insieme ai suoi servi o quando san Paolo prega per gli anziani inviati alle nuove comunità che sono state fondate. Nell’antichità il cibo scarseggiava, tuttavia si digiunava. Invece oggi il digiuno non trova una grande accoglienza; è una pratica desueta, perché sinonimo di mortificazione e di austerità. I parroci più fervorosi invitano tutt’al più ad altre forme di moderazione, indicano altre forme di penitenza (es. la rinuncia alla tv). Allora perché digiunare?
- Il credente digiunando coinvolge l’intero suo corpo. È un modo concreto di spendersi: la nostra fede non è disincarnata. Quando Gesù ci chiede di camminare con lui chiede di investire non soltanto l’anima, ma anche la nostra corporeità: muovere dei passi con lui, mettere in azione dei muscoli… Non si può avere una visione soltanto intellettualistica della fede. Possiamo dire che il digiuno è la più incarnata delle preghiere.
- Digiunare è un mezzo per partecipare a quello che vivono tanti poveri che sono nel mondo. I poveri mancano del minimo per vivere, mentre noi – nonostante anche qui ci siano difficoltà – facciamo parte della società del benessere. Fare una rinuncia, fare un digiuno è un piccolo passo verso gli altri che sono in difficoltà.
Attenzione, non si deve fare il digiuno quasi come una forma di scambio con il Signore: «Io digiuno e tu fai quello che io ti chiedo». Non si compra Dio! Non è detto che perché digiuni Dio manderà magicamente un pasto caldo a quella famiglia che tribola nell’inverno dell’Ucraina. Se digiuno è per pensare a Dio, per essere unito ai poveri, allora il digiuno è una preghiera.
- Il digiuno ci segna profondamente. Non mangiare lascia un vuoto concreto, metafora di un vuoto più profondo che dobbiamo riconoscere dentro di noi, un bisogno da colmare: «Non di solo pane vive l’uomo». Digiunare è come aprire una porta, creare uno spazio di disponibilità. Quando si fa una bella cena, un bell’incontro conviviale, più del buon cibo e del buon vino si dice che si fa famiglia. Si può fare famiglia anche con il digiuno.
Ma che ne pensa del nostro digiuno chi ha fame? Che beneficio ricava dal nostro digiuno?
Daremmo volentieri metà del nostro pranzo per chi ha fame, ma non lo possiamo spedire a chi ne ha bisogno. Allora a cosa serve digiunare? Digiunare in due è ancora peggio…
In certi periodi in famiglia si raccoglieva l’equivalente della cena e lo si consegnava in chiesa. Mio papà diceva: «Ti do i soldi per una cena, ma io ceno!». Digiunare ci lega veramente con chi soffre. La sofferenza dell’altro non ci sarà mai completamente accessibile, non la sentiremo totalmente su di noi. Tuttavia, digiunare vuol dire stare un po’ accanto ed esprime la misura della nostra capacità di fraternità. Vedendoci incapaci di risolvere il problema proviamo dispiacere, ma ci fa bene, ci rende umili. Non abbiamo altra risorsa che questa. Il digiuno produce questo effetto: non ci sentiamo più la persona che dall’alto si china benevolmente per offrire qualcosa: diventiamo compartecipi. Non ci resta che pregare e sperare.
Se la pratica del digiuno ci avvicina a Dio è perché, in fondo, è un atto di fede. Anche quando non vediamo gli effetti. Noi credenti sappiamo che il nostro digiuno non è mai un ricatto, come certi digiuni esibiti: «Mi lascio morire di fame davanti a te, perché non ho altra arma umana per ottenere ciò che voglio». No, il nostro digiuno è un atto di fede.
Crediamo anche alla dimensione soprannaturale che ci lega, il Corpo Mistico: «Quando un membro soffre, tutto il corpo partecipa di questa sofferenza» (cfr. 1Cor 12,26-27).
Inoltre, il digiuno lo si pratica in vista di un cammino che vogliamo fare dietro a Gesù per rispondere alla sua chiamata, per essere in comunione.
Avevo aperto la riflessione dicendo: «Perché digiunare?». La concludo dicendo: «Per chi digiunare?». Il profeta Zaccaria, rimproverando il popolo, scriveva: «Quando avete fatto digiuni e lamenti lo facevate per me?» (cfr. Zac 7,5). Vorrei che questa sera tutti dicessero: «Signore, vogliamo fare digiuno per te, perché vogliamo sentire la fraternità come la senti tu!».