Omelia nella Liturgia della Passione del Signore
Pennabilli (RN), Cattedrale, 15 aprile 2022
Is 52,13- 53,12
Sal 30
Eb 4,14-16; 5,7-9
Gv 18,1- 19,42
Il diacono ha appena chiuso il Libro della Passione del Signore secondo Giovanni. Ma resta permanentemente aperto davanti ai nostri occhi e al nostro cuore Lui, il Crocifisso, libro vivente sul quale è stato scritto col sangue l’amore di un Dio che si è fatto uomo e ha dato la vita per noi: Gesù. In Lui Dio ha detto tutto.
Mi soffermo su qualche “fotogramma” della Passione per andare più in profondità.
«Presero Gesù ed egli, portando la croce, si avviò verso il luogo detto del Cranio, in ebraico Golgota, dove lo crocifissero». Il Golgota è un leggero rialzamento nel terreno appena fuori Gerusalemme, con la forma curiosa di un cranio. Nella tradizione giudaico-cristiana sarebbe il luogo della sepoltura di Adamo, un luogo importante, simbolico. Il sangue di Gesù, colando a terra, ne bagna gli strati, purifica il primo peccatore e tutti gli altri dopo di lui. Questa antica tradizione del Golgota recepisce questo luogo come il centro di tutta la storia e della redenzione dell’umanità.
Gesù viene crocifisso «con altri due, uno da una parte e uno dall’altra e lui in mezzo». Questa circostanza mette in forte relazione la croce di Gesù con gli uomini peccatori: «Chi è senza peccato?» (cfr. Gv 8,7). Di per sé il problema non è l’essere peccatori o il non esserlo, ma quale sia la risoluzione da prendere quando se ne è consapevoli. Due sono le risoluzioni possibili. La prima risposta è quella dettata dall’orgoglio: «Io? Ma quando mai? Non sono peccatore, non ho bisogno di essere salvato, basto a me stesso…»: l’orgoglio di Adamo riemerge. Chi dice questo pensa, in fondo, che l’opposto del peccato sia la virtù: aumento l’impegno, faccio da me, non ho bisogno di un altro che mi salvi!
L’altra risoluzione: cadere tra le braccia della misericordia perdonante del Signore. Riconoscere il proprio male. Consegnarlo. Se la terra è insanguinata e cattiva, dipende anche da me, dipendono anche dalla mia umiltà il suo riscatto e la sua redenzione.
Nella liturgia del Venerdì Santo, come avete notato, ricorrono con insistenza due testi dell’Antico Testamento. Tutto il racconto della Passione ne è, per così dire: Isaia 53, il carme del Servo sofferente, e il Salmo 21.
Isaia 53. Si parla di un misterioso personaggio, un servo di Dio che soffre, accetta di soffrire. Isaia e la fede di Israele avevano elaborato una teologia secondo la quale la redenzione verrebbe da qualcuno che prenderà su di sé tutte le malattie, tutti i peccati, tutte le piaghe. «Dalle sue piaghe saremo guariti» (Is 53,5 ripreso in 1Pt 2,24). Israele sapeva tutto questo. I primi cristiani hanno ricompreso la crocifissione del loro Signore grazie a questo testo. Non sarebbe stato comprensibile che il loro Maestro, il Signore, facesse questa fine terribile; il testo di Isaia permetteva loro di capire il senso di ciò che umanamente senso non aveva: l’innocente messo a morte ingiustamente.
Veniamo all’altro testo, il Salmo 21. Anche questo ha molto aiutato i primi cristiani ad interpretare ed elaborare la crocifissione di Gesù. Giovanni non riporta l’incipit di questa preghiera sulle labbra di Gesù morente, a differenza di Marco e Matteo: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Sal 21,1). Ci sono versetti successivi. In questo Salmo, l’orante, un sofferente misterioso – i cristiani vedono in lui Gesù – butta fuori tutta la disperazione; si sente perfino dimenticato da Dio, per questo esterna in un grido prolungato la sua paura, la sua tristezza, la sua angoscia. Tuttavia, in questo Salmo, qua e là emergono delle luci, dei ricordi di come Dio aveva soccorso i suoi padri. Ad un certo punto il Salmo parla addirittura di un banchetto: è il preannuncio della risurrezione. Ricaviamo subito un insegnamento: quando andiamo in preghiera esprimiamo al Signore quello che realmente sentiamo. Non abbiamo bisogno di mettere maschere e proclamare che “tutto va bene, mentre bene non va” (cfr. Ger 6,14). Occorre buttar fuori tutto il male per poi renderci conto che Dio è entrato proprio in questa angoscia. Tanti di noi possono dire che ci sono stati dei momenti terribili nella propria vita e che, tuttavia, hanno incontrato il Signore proprio in quei momenti come Salvatore. Così ha pregato Giacobbe nel suo esilio: «Certo, il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo» (Gen 28,16). Il Salmo 21, alla fine, diventa una preghiera di ringraziamento.
Così Gesù è entrato nella morte ed è così che è veramente re, il Nazareno, re dei Giudei. Unico trono la croce, luogo nel quale si manifesta la signoria di Dio, realtà che capovolge la nostra immagine di Dio. Dio non è quel personaggio potente che risolve i problemi con le sue magie; Dio è colui che fa un tutt’uno con noi, ci incontra nel nostro male, nel punto più basso dei nostri fallimenti, dei nostri limiti, nel nostro essere incapaci di salvarci da soli. In questo lui è Dio! Nessun altro è così potente da fare comunione con chi è perduto. Nessuno di noi saprebbe diventare una cosa sola col più disgraziato. Lui sì! Egli è colui che trasforma il nostro fallimento in comunione con lui. In virtù dell’incarnazione, possiamo dire che siamo noi pure membra della redenzione. Quando si dice “offrire il nostro dolore” non è una pia pratica, ma riconoscere e la comunione profonda che c’è fra noi e il Signore, per cui completiamo nella nostra carne ciò che manca in noi dei patimenti di Cristo (cfr. Col 1,24). Davvero, Signore Gesù, il tuo amore sorprende, turba, disarma, converte, conquista, abbraccia, fa crescere. Accogli il nostro bacio.