Omelia nella S. Messa crismale

Pennabilli (RN), Cattedrale, 14 aprile 2022

Is 61,1-3.6.8-9
Sal 88
Ap 1,5-8
Lc 4,16-21

«Fasciculus myrrhae dilectus meus mihi» (Ct 1,13). Sono parole del Cantico dei Cantici che pongo a dedicazione di un piccolo dono che offro a ciascuno dei miei preti e diaconi. Si tratta di una manciata di incenso profumato da ardere nella Veglia pasquale in onore del nostro Sposo e Signore. Un omaggio a lui. Un omaggio che facciamo insieme nella comunione realizzata dalla liturgia. Un omaggio accompagnato dalle nostre voci che si fondono nel canto dell’Exsultet nella Veglia “madre di tutte le veglie” (Sant’Agostino, Sermo 219).

Non è un ripiegamento intimistico considerare l’incanto e il prodigio della nostra vocazione col suo carattere di innamoramento. Come il profeta Amos, ognuno di noi potrebbe dichiarare che è stato chiamato nel modo più impensato e sorprendente: «Non ero profeta, né figlio di profeta; ero un pastore e raccoglitore di sicomori; il Signore mi ha preso di dietro al bestiame e il Signore mi disse: “Va’, profetizza al mio popolo Israele”» (Am 7,14-15). La nostra vocazione è iniziativa sua, un atto d’amore personale, una parola irrevocabile e creatrice. Per ognuno di noi una storia diversa: forse un’esperienza che ha fatto percepire la bellezza della fede, oppure la possibilità di un’umanità realizzata, spesa per gli altri, oppure la gioia di appartenere a Cristo e la spinta a costruire comunità cristiane. O forse, semplicemente, la spinta di motivazioni molto umane, sublimate poi. Fatto sta che abbiamo lasciato tutto per il Tutto.
Abbiamo sicuramente protestato la nostra inadeguatezza, le nostre fragilità, i nostri timori (cfr. Is 6,5). Il Signore ci ha confermato: «Ti basta la mia grazia; la mia potenza, infatti, si manifesta nella debolezza» (2Cor 12,9). La Chiesa ha accolto la nostra disponibilità attraverso l’imposizione delle mani del vescovo. Abbiamo messo a disposizione intelligenza, cuore, braccia, mani e piedi.
Non dobbiamo dubitare. Tra poco rifaremo ancora le promesse sacerdotali col fervore della prima volta.
«Fasciculus myrrhae dilectus meus mihi» (Ct 1,13). Anche il cuore del prete ha bisogno di sentirsi amato, ha bisogno di tenerezza: queste parole assicurano quella del Signore. Il Signore, questa mattina, rinnova la sua dichiarazione d’amore e di stima per ciascuno. Non c’è altro motivo che questo per andare avanti in questi giorni difficili.

C’è bisogno, con la vicinanza del Signore, di sentire altre vicinanze.
La vicinanza al vescovo. Il vescovo, chiunque egli sia, rimane per ogni presbitero e per ogni Chiesa particolare, un legame che aiuta a discernere la volontà di Dio. Ma anche il vescovo deve mettersi in ascolto della realtà dei suoi presbiteri, dei suoi diaconi e del popolo santo di Dio, che gli sono affidati. Gli sono richiesti umiltà, capacità di ascolto, autocritica e il lasciarsi aiutare (cfr. Papa Francesco).
Ho molto da farmi perdonare. Tuttavia – dirò con san Paolo – «fatemi posto nel vostro cuore» (2Cor 7,2). Vi assicuro che nel mio vi siete già!

A partire dalla comunione sacramentale col vescovo si apre la vicinanza fra i sacerdoti. Le caratteristiche della fraternità sono quelle che san Paolo ci ha lasciato come “mappa” nella Prima Lettera ai Corinti: «La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» (1Cor 13,4-7).

Impariamo la pazienza, suo contrario è l’indifferenza. Cresciamo nella benevolenza: giovani e anziani, ognuno con le proprie caratteristiche, capaci di gioire del bene che c’è nell’altro, il contrario dell’invidia. Non dobbiamo permettere che si creda che l’amore fraterno sia un’utopia, tanto meno un luogo comune. Tutti sappiamo quanto può essere difficile vivere in comunità o nel presbiterio. Eppure, l’amore fraterno è la grande profezia in questa società. «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35). Consideriamo gli strumenti che abbiamo a disposizione e la creatività suggerita dallo Spirito per crescere nella vicinanza tra noi.
Anche le occasioni istituzionali di incontro vanno rivitalizzate, preparate, curate e partecipate. Ciò che le rende poco significative sono le assenze ingiustificate. Comprensibile, certo, la fatica degli spostamenti e l’attaccamento al proprio particolare con le sue urgenze. Ma talvolta si è assenti per motivi futili: basta poco per esimersi. Danneggia la contrapposizione fra incontri spontanei, a cui si aderisce per affinità o per simpatia e gli incontri più istituzionali. Così viviamo il paradosso di non conoscerci neppure, mentre siamo ingaggiati nella stessa squadra.
La vicinanza al popolo. La relazione con la nostra gente è per ciascuno di noi prima che un dovere, una grazia. «Per comprendere nuovamente l’identità del sacerdozio, oggi è importante vivere in stretto rapporto con la vita reale della gente, accanto ad essa senza nessuna via di fuga. Vicinanza con lo stile del Signore: compassione, tenerezza, come quella del buon samaritano, che riconosce le ferite del suo popolo, la sofferenza vissuta nel silenzio, l’abnegazione e i sacrifici di tanti padri e madri per mandare avanti la famiglia e anche le conseguenze della violenza, della corruzione, dell’indifferenza» (Papa Francesco).
Drammatico nel nostro popolo è lo smarrimento della fede, il distacco della fede dalla vita e l’indifferenza. Tante persone si trovano spaesate e senza speranza nel turbine di questi giorni insanguinati: guerra alle porte, sofferenze inaudite, dolore innocente, bambini e donne violate…
Quando tutto sembra crollare la nostra presenza è motivo di speranza. Dovrà essere comunque una Pasqua piena di luce, perché carica dell’evento che celebra, non un semplice anniversario, un ricordo. La Pasqua è vita nuova che entra in circolo, che ne siamo consapevoli o meno. Lo sente ogni uomo, lo sperimenta nel suo cuore quando ama. Gesù, innocente crocifisso, è risorto ed ha spalancato per tutti una breccia oltre il muro della morte, dell’ignoto, del peccato. Con la risurrezione penetra nella storia, soffia col suo Spirito nelle nostre fragili esistenze, incoraggia cammini di pace, suscita solidarietà, non ammette rese e paure, invita alla sobrietà, perché la vita dell’uomo non dipende dai suoi beni. Il libro della Genesi si chiude con le parole di Giuseppe, il giusto perseguitato: «Se voi avevate tramato del male contro di me, Dio ha pensato di farlo servire a un bene…» (Gn 50,20). «Un atto di puro amore salva il mondo intero», aveva già scritto san Giovanni della Croce. Molti, in questi giorni difficili, ci stanno provando. Io sto con loro!
Un’esperienza di vicinanza col vescovo, fra i presbiteri e col popolo è il Cammino Sinodale. Si cammina insieme docili allo Spirito. Si offrono esperienze, ispirazioni, propositi e i pastori accoglieranno tutto come un dono, frutto di un lavoro vissuto in spirito di serenità e di libertà. Laici e pastori in dialogo e più vicini: unico Popolo di Dio!
Sin qui è stato un “lavoro orante”: nella preghiera costante allo Spirito Santo abbiamo vivificato il metodo fatto di ascolto, risonanze, raccolta di criticità e… perle. A detta di tutti, possiamo mettere all’attivo l’acquisizione di un metodo partecipativo e di un cammino condiviso.
A questa fase del cammino – detta anche “narrativa” – ne seguirà una successiva di studio e discernimento con l’indicazione di priorità per la vita e la missione della Chiesa. Il cammino continua…