Omelia nella Domenica di Pasqua

San Leo (RN), Cattedrale, 4 aprile 2021

At 10,34a.37-43
Sal 117
Col 3,1-4
Gv 20,1-9

Ieri sera, nel Santo Vangelo, abbiamo letto il più laconico bollettino di vittoria che sia mai stato scritto: Marco riporta lo sconcerto delle donne che vanno, alle prime luci del giorno, alla tomba di Gesù, portando con sé gli aromi. Si chiedono chi può togliere la grossa pietra. Vanno con questa domanda nel cuore e sono le prime a vedere la pietra rotolata via, le prime ad annunciare che Gesù è vivo. Qui è scattata la prima scintilla. Siamo nell’ultima pagina del Vangelo di Marco, ma è la prima pagina del “quinto Vangelo”, quello che dobbiamo scrivere noi. La notizia che Gesù è risorto è affidata a noi, così come la potenza della risurrezione. La risurrezione comincia con Gesù, ma è qualcosa di permanente, di nuovo che riguarda tutti noi. La Chiesa esiste per dare questo annuncio all’umanità, per gridare che c’è un “oltre” la nostra morte: la risurrezione! La Chiesa è molto apprezzata per quello che fa: l’impegno per la promozione umana, per l’educazione…Nelle scuole cattoliche sparse nel mondo ci sono tre milioni di alunni e sono aperte a tutti. Quante istituzioni caritative: ospedali, dispensari, mense… Sono tutte opere preziose, ma non sono lo specifico della Chiesa; ciò che la Chiesa fa, a volte, è una “supplenza”, altre volte è una testimonianza che il Vangelo non è avulso dalla realtà; ma ciò per cui la Chiesa è nel mondo è per gridare questa “buona notizia”.
Considerando come le donne sono state le prime ad andare al sepolcro, stamattina mi è venuto di scrivere d’impulso alle monache e alle suore della nostra Diocesi. Le donne sono sempre coraggiose, sono le prime ad affrontare il dolore. Alle donne non fa paura neppure il sepolcro. In Diocesi abbiamo cinque monasteri di clausura con diverse monache molto giovani. Le monache sono le continuatrici delle donne “mirofore”, portatrici del myron (gli aromi) a Gesù, che per prime l’hanno visto risorto. Ho scritto alle monache che sono preziosissime per la Diocesi. Col loro stile di vita sono le prime missionarie, le avanguardie del futuro, le testimoni coraggiose della risurrezione.
La Diocesi di San Marino-Montefeltro ha puntato, in questi anni, su una rinnovata iniziazione cristiana. Dopo aver dedicato due anni alla realtà del Battesimo, sacerdoti, religiosi e laici si sono ci siamo detti: «Ora tocca a noi, dobbiamo essere missionari, annunciare Gesù Risorto». È stata sdoganata la parola kerygma, parola antica e sempre nuova che significa “primo annuncio”. Molti sono cristiani solo per tradizione, senza mai aver deciso di esserlo, invece c’è bisogno di rifare la scelta. In sede di programmazione (Consiglio presbiterale, Consiglio pastorale e Uffici pastorali) abbiamo steso delle indicazioni di lavoro prevedendo assemblee, iniziative, assembramenti comunitari. Poi, questa pandemia ha bloccato tutto; il Signore ci ha fatto capire che la missione è qualcosa che nasce nel profondo: bisogna tornare all’anima dell’apostolato, altra cosa dall’attivismo. Lì per lì abbiamo faticato ad accogliere questa sterzata, perché avevamo messo in cantiere tante attività per una nuova evangelizzazione. Il Signore ci ha rimandato, come Mosè, al roveto ardente, come gli apostoli al cenacolo per essere ricolmati di Spirito Santo.

Nel Vangelo Giovanni racconta che la prima ad andare al sepolcro è stata Maria di Magdala. Lei ha un amore folle per Gesù e per le sue parole e va al sepolcro di buon mattino. Vede che la tomba è vuota. Non saprebbe distaccarsi da quel luogo, le basta avere nel suo cuore il ricordo del Maestro. Poi, corre ad annunciare agli apostoli quello che ha visto, o meglio quello che non ha visto. Due di loro, Pietro e Giovanni, corrono al sepolcro, corrono forte, c’è una sorta di gara fra i due; il primo che arriva, Giovanni, aspetta e lascia entrare l’altro, Pietro. Pietro guarda attentamente, valuta, scruta. Nota che ci sono il lenzuolo da una parte e le bende dall’altra. Il suo è un guardare ispettivo. Finalmente entra il discepolo che Gesù amava: vede e crede. Le tre “staffette” non si contrastano ma si completano e tracciano il nostro cammino di fede. Il guardare di Maria di Magdala è il guardare del cuore, della nostalgia, della memoria. Lei parlava con Gesù, anche se lui non era lì. Pietro ha un altro guardare, un guardare ufficiale, una constatazione. L’evangelista adopera verbi con sfumature diverse. Per Giovanni usa il verbo “theoreo” che vuol dire contemplare. E’ così anche il nostro cammino. Molti di noi hanno un bel ricordo di Gesù, magari hanno visto un bel film dedicato a lui; qualcun altro vuole mettere delle basi solide e si mette a studiare, ma la fede completa è quella di Giovanni, del discepolo che ama Gesù e che è amato da Gesù. «Vide e credette». Nel quarto Vangelo il verbo vedere coincide con il credere.

Più cresce la fede, più cresce la spinta missionaria. Vi auguro di essere missionari di Gesù. Non abbiate paura di annunciarlo! Ricordo che nella mia città di origine c’era un gruppo di operai al petrolchimico che mi raccontavano la fatica di essere cristiani in fabbrica; venivano presi di mira al bar, in mensa, alle “macchinette”, ma alla fine erano i più stimati per il coraggio della loro fede, per la loro testimonianza. Quando un collega aveva problemi andava a cercare proprio loro.
Non abbiate paura. Siamo testimoni della risurrezione. Verranno anche a noi momenti di paura, del resto sono venuti anche a Gesù, ma possiamo aiutarci tutti insieme, uniti al Santo Padre, uniti al Vescovo, con i nostri sacerdoti. Tutti insieme, la Chiesa di Gesù. Così sia.