Omelia nella Veglia pasquale

Pennabilli (RN), Cattedrale, 3 aprile 2021

Mc 16,1-7

Abbiamo trascorso la Settimana Santa scrutando il cuore di Gesù e i suoi sentimenti, un cuore umano e un cuore divino insieme, un cuore folle d’amore. Gli siamo stati vicini. È stato bello il Venerdì e il Sabato Santo riunirci anche la mattina per cantare le Lodi; è stato bello partecipare alla preghiera della Via Crucis. E poi quanti pensieri, quante giaculatorie, quante invocazioni, quanti atti d’amore, sempre più vicini alle sue ultime giornate terrene, dalla Domenica delle Palme alla Veglia pasquale. Ora siamo pronti a risorgere con lui, ad essere una cosa sola con lui.

Domenica abbiamo meditato la Passione Secondo Marco, l’evangelista che ci accompagna quest’anno. Marco ha raccolto una testimonianza di prim’ordine: era il segretario dell’apostolo Pietro, quindi ci dà informazioni di prima mano. È il primo degli evangelisti scrittori. Marco vuole accompagnare il lettore ad un coraggioso atto di fede: riconoscere nel Crocifisso il Figlio di Dio; non fa nulla per attenuare il nostro sconcerto di fronte alla crocifissione di Gesù, ci chiede di non fermarci ai miracoli, agli Osanna della folla, ma di avanzare con Gesù e poi, come ha fatto il soldato romano, pagano e straniero, davanti alla croce confessare: «Davvero quest’uomo era il Figlio di Dio».
Ci siamo soffermati sugli atteggiamenti umano-divini di Gesù nella sua Passione, rivelatori dei suoi sentimenti. Gesù continuava a soffrire: «Tutto è compiuto» (Gv 19,30); «ho sete» (Gv 19,28). Continuava a pregare: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46); «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34); «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34). E continuava ad amare: «Oggi sarai con me in paradiso» (Lc 23,43) e, alla sua mamma, ai piedi della croce, affidandola a Giovanni: «Donna, ecco tuo figlio», e a Giovanni: «Figlio, ecco tua madre» (Gv 19,26-27).

Giovedì Santo siamo andati più in profondità, considerando come Gesù sentiva forte le vicende del suo popolo, con un amore grande all’umanità permanentemente in lotta con la natura e con i propri simili, alle prese con il mistero di Dio. Gesù celebra la Pasqua, ma ha in cuore di valorizzare tutto quello che era la tradizione del suo popolo, il “passaggio” dalla primavera al tempo dei pascoli, la benedizione della transumanza. Il Signore Gesù non ha disdegnato di unirsi a questo culto antico. Poi ha fatto sue le Sacre Scritture che raccontano la vicenda del suo popolo, prima schiavo e implorante e poi finalmente liberato. Ho visto nella vicenda dell’esodo il dramma della più grande liberazione dal peccato. Ha così ristabilito la giustizia, rendendoci persuasi che la condizione umana, a causa del peccato, giace in una profonda ingiustizia. Gesù si fa il prezzo del nostro riscatto, non con oro e argento, non con il sangue di capri e di agnelli, ma con il suo sangue: Dio che per salvare lo schiavo “gioca” suo figlio… Gesù, poi, prende dal linguaggio rituale del suo popolo la parola “sacrificio”. Il culto gradito a Dio viene celebrato nel dono di sé: è lui l’Agnello pasquale! Il culto antico era la celebrazione della trascendenza di Dio, il che è pure vero, ma la trascendenza è anche lontananza. Il culto di Gesù, con l’offerta della sua vita, mostra invece la condiscendenza di Dio. Il culto antico procedeva per successivi divisioni e distacchi: il popolo, la tribù, la famiglia del sommo sacerdote, il sommo sacerdote, la vittima sacrificale, una nuvoletta di fumo… Il culto nuovo di Gesù procede in modo opposto, per successivi “abbracci” fino alla realtà più profonda dell’uomo, discesa nel dolore, nel dolore innocente, nel peccato dell’uomo, nella morte: un supremo farsi uno. Non un Dio lontano, ma un Dio vicinissimo. Nella Santa Cena, quell’ultima sera di Gesù con i discepoli, anticipa e concentra in modo sacramentale tutto questo grande mistero di amore: «Prendete, mangiate… Prendete, bevete…» (cfr. Mt 26,26-27). Siamo stati invitati alla Cena dell’Agnello, a mangiare la Pasqua con lui. Noi facciamo la Comunione, ma siamo in Comunione con il Signore? Il Battesimo ci ha resi una cosa sola con Gesù; col Battesimo siamo con lui membra della redenzione. Il mistero che si compie in Gesù si compie in ogni discepolo, in ogni battezzato che vive la vita battesimale. Non dobbiamo avere paura: Gesù ci ha parlato della logica del chicco di grano che, se non muore nella terra, rimane solo, ma se accetta di morire porta frutto (cfr. Gv 12,24). Nella predicazione a volte si usano queste parole in modo eccessivamente disinvolto, ma in rilievo non viene tanto il morire – saremmo i più sventurati di tutti se finisse così – ma il frutto: la vita, la vita piena. Il rischio dell’esodo significa liberazione, il sangue dell’agnello significa sacrificio gradito a Dio. È l’amore che dà al patire un valore redentivo. L’amore è la forza motrice della redenzione.
Da studente avevo concluso la tesi affermando che la più alta meditazione era quella del teologo, ma il professore replicò: in verità la più alta meditazione è quella del mistico! Allora cedo la parola alla Beata Angela da Foligno. Gesù le disse: «Guarda se in me vedi altro che amore», oppure a Caterina da Siena a cui disse: «Non i chiodi mi tengono fisso al legno della croce, ma il mio amore per te».
Ecco, i sentimenti di Gesù. Diciamo: «Signore, vogliamo essere uniti a te e fare della nostra vita un sacrificio: un dono, “nella tua messa, la nostra messa”». Spalanchiamo gli occhi, vediamo tanta sofferenza, tanto peccato: vogliamo con te essere membra della redenzione». Ci sono esodi di popoli interi in questo momento. Ci sono popoli che non mangiano e non hanno neppure la manna, se non le briciole di carità che ogni tanto mandiamo loro. Ci sono le preoccupazioni per questa pandemia. C’è il nostro quotidiano travaglio. «Signore, siamo una cosa sola con te. Ti diciamo il nostro “sì” perché vogliamo il bene dell’umanità, vogliamo la redenzione di tutti e la nostra per essere sempre con te». Così sia.