Discorso al Corso di giornalismo: “Conflitti ed esodi di massa. Il ruolo dei Piccoli Stati tra promozione del dialogo e tutela dei minori”
Fiorentino (RSM), 15 ottobre 2020
Porgo il mio saluto adoperando l’incipit dell’ultima enciclica di papa Francesco: Fratelli tutti (citazione dalle “Fonti Francescane”).
Saluto il Direttivo della Consulta per l’Informazione e tutti i partecipanti a questo Corso di giornalismo dal titolo così impegnativo, stimolante e ampio: “Conflitti ed esodi di massa. Il ruolo dei Piccoli Stati tra promozione del dialogo e tutela dei minori”.
Parto da un’esperienza personale. La prima volta che nella Basilica di San Marino ho celebrato la Messa per l’Insediamento degli Ecc.mi Capitani Reggenti fui colpito dai numerosi partecipanti e dal loro portamento compassato, elegante, attento. Ero in San Marino appena da qualche settimana. Soltanto alla fine della celebrazione ho saputo che i presenti erano i rappresentanti delle Ambasciate accreditate presso la Repubblica di San Marino. Sei mesi dopo, quando ho ripetuto la celebrazione, avevo una consapevolezza diversa che mi ha portato a provare commozione. Avevo davanti a me – per così dire – un bozzetto del mondo unito: la piccola Repubblica di San Marino riuniva insieme rappresentanti di diverse nazioni, rivelandosi capace di relazioni, di ospitalità, di dialogo e di convivialità. L’ho vista con occhi nuovi, come una realtà geograficamente piccola, ma con una grande densità di valori, personalità e stile. Immagino come dietro a quell’appuntamento istituzionale che si ripete due volte all’anno, insieme alla forza della tradizione, vi sia tutta una rete di contatti, di scambi, di mutuae relationes preziosissime, soprattutto oggi.
Da quando siamo entrati nel nuovo millennio sono accaduti eventi di portata mondiale che hanno lasciato tracce profonde nelle biografie personali, ma anche nelle dinamiche sociali, con oscillazioni fra due prospettive: consapevolezza dell’interdipendenza della globalità e tendenza alla difesa dell’identità. Cito tre eventi di questi primi vent’anni del nuovo millennio. L’11 settembre 2001 ci ha costretto a mettere a tema la questione del rapporto fra le culture. Si parlava di “scontro di civiltà”. Con la crisi finanziaria del 2008 si è toccata con mano l’interdipendenza economica, il ruolo dei poteri forti nel determinare l’economia dei singoli paesi. Ora siamo coinvolti a livello planetario dalla pandemia. «Siamo tutti sulla stessa barca», ha detto papa Francesco nel celebre discorso del 27 marzo. A proposito di navigazione, di barche e di rotte verso l’Europa penso all’evento epocale che sono le migrazioni…
Siamo alla ricerca di un equilibrio fra riconoscimento dell’autonomia individuale, della libertà e dell’autodeterminazione da una parte e, dall’altra parte, le esigenze derivanti dall’appartenenza ad una nazione, ad un popolo, ad un gruppo. In questo contesto mi faccio attento – è un’autorità riconosciuta, mondiale – al pensiero di papa Francesco che sta aiutando a definire una grammatica delle relazioni sociali. No ad una società chiusa in se stessa, individualista, no al globalismo dominato dalla finanza. Il mondo porta in sé la vocazione all’unità: «Tutto è collegato» (Laudato si’, 91). «Siamo un’unica umanità, come viandanti, fatti della stessa carne umana, come figli di questa stessa terra che ospita tutti noi» (Fratelli tutti, 8). Quando scrive la Laudato si’, anche nell’ambiente della Chiesa c’è chi sussurra: «Il Papa deve parlare di Dio!». In realtà la Laudato si’ è un testo di teologia e di antropologia: è l’uomo che viene messo in relazione con Dio, la creazione con il Creatore. Il Papa ribadisce tre principi fondamentali (preferirei chiamarli tre proposte esperienziali, anziché principi).
1. Siamo in relazione. Non possiamo non esserlo: la relazione è costitutiva del nostro essere. Relazione con gli altri, con l’ambiente, con il cosmo e con l’Oltre (Dio). Si parla di “creato” e l’allusione è evidentemente al Creatore. Sembra un discorso ovvio, eppure tante volte l’abbiamo dimenticato, affermando che esiste un “io” a prescindere, un “io” del tutto autonomo e indipendente. Ce lo ricorda l’ombelico: noi siamo stati in relazione ancor prima di nascere. Possiamo esistere solo dentro a reti di relazione. Un giorno chiesi a bruciapelo ad uno studente di antropologia, mentre insieme stavamo salendo la scaletta per andare al campo sportivo: «Che cos’è l’uomo?». «Un figlio», rispose. Effettivamente non tutti siamo mariti o mogli, non tutti siamo padri o madri, ma tutti siamo figli. Sembra un’osservazione elementare… È la prima evidenza di questa grammatica delle relazioni sociali.
2. Questa relazione dinamica si svolge su tutti i livelli: famiglia, amici, vicini di casa, colleghi di lavoro, ma anche nei mondi culturali, relazioni a cui apparteniamo. Ci sono relazioni digitali che arrivano ad abbracciare il mondo intero, relazioni gioiose, liberanti e altre che sono faticose e subite. Tutto questo lo viviamo adesso in una sorta di vortice. Abbiamo bisogno di limiti, di confini, di disciplina per arginare intemperanze e condizionamenti, ma soprattutto abbiamo bisogno di prenderci cura delle relazioni in profondità.
Narro ancora una esperienza tratta dall’ambito che mi appartiene. L’anno scorso abbiamo cominciato in novembre a preparare il Programma pastorale della Diocesi. Abbiamo fatto ragionamenti e stilato un cartellone. Non c’è mese senza un convegno, non c’è settimana senza un incontro, non c’è giorno senza un’iniziativa. Quando siamo entrati nel lockdown è stato come se l’inchiostro sul cartellone si squagliasse. Ci siamo chiesti: «Se eliminiamo le iniziative, i convegni, gli incontri è finita per noi?». C’è stato un momento di smarrimento. Siamo stati ricondotti da questa esperienza al silenzio e soprattutto all’ascolto. Ci siamo messi di fronte ad un’icona biblica (Es 3,1-10): il racconto di Mosè davanti al roveto ardente. È un’icona, cioè qualcosa che travalica l’esperienza personale di Mosè. Mosè si era ingaggiato in un’opera di liberazione di sua iniziativa, con criteri suoi, ed era finito in un clamoroso fallimento. Al punto da fuggire; poi prende moglie, ha dei figli, diventa imprenditore a servizio di Ietro, lo suocero. Un giorno vede un roveto che arde senza consumarsi e sente una voce che usa questa grammatica, coniuga questi verbi: Dio osserva l’oppressione che pesa sul suo popolo, ode il suo grido di dolore, conosce la sofferenza dei suoi che vivono nella povertà e nell’umiliazione. Per questo scende ed entra nella storia per intervenire in essa. Ernst Bloch nel libro Ateismo nel cristianesimo (1968) dà una definizione di Dio suggestiva: Dio non è colui che “sta sopra”, ma colui che “cammina davanti”.
3. Nessuna relazione può pensarsi chiusa, cioè indipendente e sganciata da ciò che sta “oltre”. La relazione deve pensarsi aperta anche a ciò che la supera, non solo al pianeta, agli uomini, ma anche al mistero che si spalanca alla coscienza, al senso religioso. Il Papa ci ricorda che questo tipo di ascolto ridimensiona ogni pretesa di assolutezza.
Questa grammatica è importante; spinti dalla pandemia in cui stiamo vivendo dobbiamo ripensare queste relazioni: noi col pianeta, noi con Dio e poi aver cura di queste relazioni. Buon lavoro!