Omelia nella Solenne Eucaristia in suffragio dei vescovi e dei sacerdoti def.ti della Diocesi
Pennabilli (RN), Cattedrale, 6 novembre 2020
Ap 21,1-5a.6b-7
Sal 27
Sequenza Dies Irae
Gv 5,24-29
Attraversando la navata della Cattedrale mi sono profondamente commosso pensando ai tanti vescovi che mi hanno preceduto e ai tanti sacerdoti che hanno servito il Signore e il nostro popolo. Confido, a mia volta, d’essere ricordato dalla pietà dei fedeli, quando sarò sepolto in questo luogo.
Stasera meditiamo la Parola di Dio servendoci del celebre canto del Dies Irae. Le parole latine e la melodia gregoriana del Dies Irae sono risuonate per secoli dentro le nostre chiese. Questa popolarità viene confermata dalle molteplici traduzioni in italiano, ma soprattutto dalla trascrizione musicale.
Celeberrimi i Dies Irae di Mozart, di Verdi e di Liszt. Liszt avrebbe dato tutta la sua musica per essere l’autore del Dies Irae. Le sequenze nella liturgia, oltre a questa, sono quattro: Victimae Paschali laudes nella Settimana di Pasqua, Veni Sancte Spiritus nella Messa del Giorno di Pentecoste, lo Stabat Mater nella memoria della B.V.M. Addolorata e il Lauda Sion Salvatorem (forma breve Ecce Panis Angelorum) nella Solennità del Corpus Domini. Questa composizione è stata attribuita a Tommaso da Celano (1260), il primo biografo di san Francesco, anche se la critica attuale lo considera piuttosto il redattore finale di canti che erano già circolanti nelle comunità. Quello che in questo momento mi importa è una lettura meditativa, da gustare interiormente.
Anzitutto è una sequenza ricchissima di riferimenti biblici. Inizia con la parafrasi dell’oracolo del profeta Sofonia (Sof 1,14-16): è un grido che sconvolge. «Una voce – dice Sofonia –: amaro è il giorno del Signore! Anche un prode lo grida. “Giorno d’ira quel giorno, giorno di angoscia e di afflizione”». È l’ora del giudizio. Questa prima strofa contiene anche reminiscenze classiche che vengono collegate alla risurrezione dei morti, al giudizio finale; per esempio, la citazione della Sibilla, personaggio della mitologia romana, l’allusione a Orfeo nelle Georgiche di Virgilio. Comunque, la prima parte di questo testo è una impressionante descrizione del giorno del giudizio che si presenta come una specie di summa dell’escatologia cristiana medioevale. La seconda parte è un appassionato appello alla misericordia divina. Qui i riferimenti evangelici sono particolarmente toccanti. Viene nominata Maria Maddalena (qui Màriam absolvìsti), popolarmente identificata con la peccatrice, la donna silenziosa che bagna con le lacrime i piedi del Signore e li asciuga con i suoi capelli (cfr. Lc 7,36-38): che audacia! Gesù le dirà: «Hai molto amato, sei perdonata». Viene nominato il buon ladrone (et latrònem exaudìsti), squarcio finale del Vangelo di Luca (cfr. Lc 29,39-43). E poi, implicitamente, la Samaritana attesa da Gesù al pozzo (quaerens me, sedìsti lassus: nel cercarmi ti sei seduto stanco, cfr. Gv 4,6-7). È come se l’autore di questo canto ci dicesse: «Prendi con te questi fratelli; anzi di più: vediti in loro». Queste figure evangeliche sono prospettate come esempi di chi ha beneficato della misericordia, giunta attraverso colui che il canto chiama Iesu pie: Gesù buono.
Colui che all’inizio è presentato come un giudice inflessibile (iudex ergo cum sedèbit, quidquid latet apparèbit, nil inùltum remanèbit: quando il giudice siederà, ciò che è nascosto sarà manifesto, nulla rimarrà senza giudizio), nelle strofe successive viene sempre più identificato come Salvatore misericordioso. Bellissimo il contrasto: «Rex tremèndae maiestàtis» (re di tremenda maestà), poi la preghiera di fiducioso abbandono: «Recordàre, Iesu pie».
Questo passaggio mi riporta ad un’esperienza personale vissuta nella bellissima abbazia di Pomposa. Nell’abside dell’abbazia è dipinto un giudice nella sua maestà: Gesù. Quel giorno ero in difficoltà. Nel momento della Comunione, mentre salivo verso l’altare con gli altri sacerdoti, vedevo il volto di Gesù ovale, severo ed austero. Man mano che avanzavo dicendo l’atto di dolore, per effetto ottico il volto di Gesù si allargava, quasi sorridente.
In questa sequenza c’è una risoluzione: da Rex tremèndae maiestàtis a Iesu pie. Questo spostamento di accento mostra che Gesù, giusto giudice, può venire supplicato. Con una audacia incredibile si insinua che ogni destino di dannazione segna una sconfitta dell’opera redentrice di Colui che è morto in croce per salvare gli uomini. Allora: «Recordàre, Iesu pie, quod sum causa tuae viae, ne me perdas illa die (Ricordati, Gesù buono, io sono il motivo del tuo cammino tra noi, non perdermi in quel giorno)». Sei venuto per salvare, vuoi smentire la tua azione, le tue parole? Tu che seduto stanco hai aspettato la peccatrice al pozzo di Giacobbe (cfr. Gv 4,6); tu che ci hai redenti con la croce; fa’ che tanta fatica non sia vana (Quaerens me, sedìsti lassus; redemìsti crucem passus; tantus labor non sit cassus). In questi versi esplode in modo aperto la contraddizione: colui che dovrebbe condannare, in realtà è venuto al mondo per salvare! Questo giudice, ora assiso glorioso, è la stessa persona che un tempo era seduta stanca presso il pozzo in attesa della Samaritana. Tutti noi che attendiamo di essere giudicati – secondo l’autore di questa preghiera – ci identifichiamo con la peccatrice perdonata. Un vertice del canto del Dies Irae si manifesta nel presentare il Signore stanco; è seduto e sfinito colui che è venuto a cercarci. C’è un richiamo al pastore che corre nella valle, sui monti, a cercare l’unica pecora (cfr. Lc 15,11-32). Sembra anche la figura del Padre misericordioso della parabola (cfr. Lc 15,11-32) che può soltanto attendere il figlio prodigo. Non gli ha impedito di andarsene da casa, non lo va ad acchiappare nelle discoteche del tempo, può solo aspettare: il giudice è paziente! Lui che ora è nella gloria – il Cristo – non può dimenticare la stanchezza da lui patita e non può vedere annullato lo scopo della sua prima venuta nel mondo. Allora il canto lo supplica così, con un imperativo: «Recordàre, Iesu pie (Ricordati, Gesù buono)»!
Il Dies Irae, questa grande preghiera, sotto la sua severa veste di definitività e di tremante convocazione di tutti di fronte al trono, lascia trasparire la convinzione che la condanna toccherebbe direttamente l’animo del Risorto. Non è imperturbabile. Il Giudice terribile può essere supplicato facendogli intravvedere che la condanna comprometterebbe l’immensa fatica che ha compiuta (Tantus labor non sit cassus).
La sequenza che inizia chiamando in causa il giorno dell’ira, dies ìrae, dìes ìlla, termina evocando un tempo contraddistinto da tutt’altro clima: «Lacrimòsa dies illa»: è giorno di lacrime, giorno del pianto… solo per i dannati? No. L’autore sembra alludere misticamente alle lacrime del Signore. È indubbio che questa preghiera domanda misericordia, anche per il “reo”, anche per colui che canta questo inno, che è bisognoso di misericordia in prima persona: «Voca me cum benedìctis: salva me con tutti i benedetti, i beati del Cielo». Tutto il canto vibra di sincerità. La nostra fede dice che la dannazione è un esito possibile. Un grande teologo, Urs von Balthasar, diceva che l’inferno c’è, ma è vuoto: una sua opinione… Chi può dirsi capace di conquistare la grazia con le sue forze? Qui sembra superata la tensione fra giustizia e misericordia: vince la misericordia! Evviva la misericordia del Signore.