Omelia nella XXIV domenica del Tempo Ordinario

Monte Cerignone (PU), 13 settembre 2020

Festa del Beato Domenico Spadafora
Apertura del V Centenario della morte del Beato Domenico Spadafora

Sir 27,33-28,9
Sal 102
Rm 14,7-9
Mt 18,21-35

In questa celebrazione che apre il centenario del Beato Domenico festeggiamo il perdono e la tenerezza del Signore.
L’anno centenario del beato Domenico Spadafora è anche anno giubilare, anno nel quale viene dispensato con abbondanza il perdono di Dio con l’indulgenza concessa dalla Penitenzieria Apostolica.
Dal brano di Vangelo di questa domenica ricavo alcuni punti per la meditazione.
Noi non abbiamo idea della gravità del peccato. Dicevano i padri: «Quanti ponderis sit peccatum (che peso che ha il peccato)». Il peccato contiene ingratitudine, menzogna, cattiveria verso il Signore. Spesso non ce ne rendiamo conto. Ecco perché, se volete sapere che cos’è il peccato, bisogna chiederlo ai santi. Molto spesso vengono raffigurati con in mano il crocifisso, oppure inginocchiati davanti a Gesù Crocifisso. Ma non è per dolorismo: Gesù è risorto, è vivo, e ci ha ottenuto il perdono.
Alla luce di queste considerazioni capisco di più la parabola che Gesù ci racconta… C’era un uomo che aveva un debito enorme (equivaleva al bilancio dello stato di Erode Antipa!). Aveva chiesto al creditore di pagare un poco alla volta. La cifra è iperbolica, per dire quanto grave è il nostro peccato. Dopo esser stato perdonato, quell’uomo incontra un collega che gli deve una piccola somma. La parabola è sempre paradossale, contiene un contrasto perché deve far pensare, è performativa, costringe a prendere posizione. Viene da chiedersi come sia possibile questa esagerazione, questa divaricazione fra i due debiti e le due reazioni. Perché quell’uomo a cui tanto è stato perdonato non ha perdonato a sua volta? Mi sono dato una risposta: colui che aveva quel debito infinito non si è reso conto del perdono ricevuto ed è rimasto nel suo senso di colpa. Una cosa è il senso del peccato, un’altra è il senso di colpa. Chi non crede che è stato perdonato, non perdona. Il debito che contraiamo col nostro peccato è troppo grande, non possiamo restituirlo. Ma il cuore di Dio è capace di questa impresa: il perdono totale!
Entreremo presto in un anno giubilare, un anno in cui il perdono, l’indulgenza, viene largheggiata. Viviamo il perdono, accogliamo questo grande dono e facciamoci convinti che davvero siamo perdonati. Abbiamo bisogno del perdono. Solo allora riusciremo, a nostra volta, ad essere magnanimi, a saper perdonare.
Quand’ero parroco mi capitava spesso di invitare i fedeli alla Confessione. Un parrocchiano mi bloccò dicendo: «Ma siamo così peccatori? Per chi ci ha preso?». Rispondevo che li incoraggiavo perché ricevere il perdono del Signore è un’esperienza dolcissima, di grande tenerezza, anche se non avevano compiuto peccati gravi. La carezza del Signore rincuora e fa sentire la bellezza del suo amore per noi. Allora è meno difficile perdonare: il perdono è una cosa divina, non umana.
Gesù cita indirettamente il canto di Lamec: «Sette volte sarà vendicato Caino, ma settanta volte sette Lamec» (Gen 4,24), così cambia la cifra della vendetta nella cifra del perdono: perdonare sempre!
In internet ho letto di una tecnica giapponese di restauro dei vasi, si chiama kintsugi. In realtà, è una filosofia: quando si rompe un vaso, esso viene aggiustato con una pasta mescolata con l’oro. Viene fuori un vaso ancora più bello, venato d’oro, con le crepe luccicanti. Il perdono, quando lo offri, fa più autentico e forte il rapporto. Perdonare non è “mettere una pietra sopra”, o dare un colpo di spugna – la chiarezza è necessaria – ma è dire: «So che tu non sei il tuo errore, il tuo peccato. Il Signore ti vede come capolavoro, come figlio». Se tutti perdoniamo, miglioriamo il mondo.
C’è il caso – a me è capitato a volte – in cui tra lo sbaglio e il perdono c’è un tempo di mezzo, un tempo di sofferenza. Può essere che si avverta l’imbarazzo di chiedere perdono, anche se lo si desidera con tutto il cuore: c’è qualcosa dentro che frena. A volte si teme perfino di peggiorare la situazione e si è intimiditi, forse anche l’altra persona vive la stessa difficoltà. Il tempo frammezzo fra l’offesa e il perdono non va sprecato: è il tempo dell’espiazione in cui si offre il proprio dispiacere per aver fatto quell’errore e matura la conversione. Quel tempo di sofferenza è anche una richiesta al Signore perché la persona offesa riesca a perdonare e possa nascere un nuovo rapporto. D’altronde, anche le perle nascono dal dolore, dalla sofferenza di un’ostrica ferita da un predatore: altro non è, una perla, che una ferita cicatrizzata, una lacrima che diventa rubino!