Omelia nella festa della Dedicazione della Cattedrale
Pennabilli (RN), Cattedrale, 17 giugno 2020
1 Re 8,22-23.27-30;
Sal 94;
1 Pt 2, 4-9;
Lc 19,1-10
Abbiamo cantato: «Rendiamo grazie a Dio nella sua dimora» (cfr. Sal 94).
Cari fratelli e sorelle, due sono state le richieste che rivolte al Signore all’inizio di questa solenne celebrazione, anniversario della Dedicazione della nostra cattedrale. Abbiamo chiesto di potervi offrire un servizio degno, irreprensibile, in questo luogo così ben tenuto; e abbiamo chiesto di ottenere frutti di redenzione: vorremmo avere la stessa felice ventura di Zaccheo. Il Signore è entrato da lui e Zaccheo è cambiato. Il Signore ci ha dato il privilegio e la gioia di costruire una casa tra le nostre case, perché noi qui potessimo accorrere, attingere grazie e favori necessari per il nostro cammino. Questa cattedrale fu costruita allorché le circostanze sociali urbanistiche imposero la traslazione delle strutture episcopali dalla città di San Leo ad altro sito. Avendo individuato tale spazio proprio qui, fra i castelli di Penna e dei Billi, il vescovo di allora, Giovanni Francesco Sormani, progettò una cattedrale decorosa, come cattedrale vicaria. Questa disposizione divenne normata dal decreto di san Pio V: era il 1570. Vari altri furono i restauri e le nuove Dedicazioni; l’ultima, quella del 2000, ad opera di mons. Paolo Rabitti, che è spiritualmente presente in mezzo a noi (sarebbe venuto se non fosse stato impedito dalla situazione di pandemia). Lo ricordiamo con affetto, con gratitudine e con venerazione. «Ma è proprio vero – si chiedeva Salomone – che Dio abita sulla terra?». «I cieli dei cieli non possono contenerti Signore, tantomeno questa casa che io ho costruita». Salomone si rendeva conto che Dio non lo si poteva rinserrare in un limite, in un luogo, tuttavia il Signore gli ha detto: «Lì sarà il mio nome», cioè “una mia particolare presenza”. Questo spazio che ci raccoglie in unità – siamo qui questa sera a nome di tutta la Diocesi – è per noi segno e strumento della nostra unione con il Signore. Noi accorriamo alla cattedrale e il Signore qui ci aspetta, ci dà appuntamento e, insieme a tutta la comunità diocesana, ci fa sua sposa (Chiesa-sposa) e, di più, suo grembo, perché garantisce d’essere presente in mezzo a noi. Noi pensiamo d’aver fatto una cosa bella per lui, ma è lui che ha fatto e fa per noi. I nostri padri hanno edificato questo luogo santo, ma il Signore continua a edificarci come tempio vivo facendoci crescere come Corpo mistico. Nella Seconda Lettura Paolo dice alla comunità di Corinto: «Voi siete l’edificio di Dio». Di sé dice: «Io sono stato come un sapiente architetto, ho iniziato l’opera, ho posto il fondamento, altri costruiranno». Penso alla successione apostolica dei vescovi; uno ha posto il fondamento e altri proseguono l’opera. Ecco il mistero della Chiesa, qui presente e diffusa nel mondo, che «avanza nel suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo – in alcuni luoghi sono reali, sanguinose – e le consolazioni di Dio» (cfr. LG 8), fino al raggiungimento della sua pienezza, la città santa, la Gerusalemme celeste. Là non c’è più bisogno del tempio e neppure del sole, perché il Signore risplenderà.
Un Padre della Chiesa, Ignazio di Antiochia, scrive ai cristiani di Smirne, nell’Asia Minore (attuale Turchia): «Là dove c’è il vescovo, là ci sarà la comunità. Allo stesso modo che là dove c’è Cristo, là c’è la Chiesa Cattolica». Questa affermazione – siamo all’inizio del II secolo, nell’epoca immediatamente post-apostolica – ci fa comprendere il fondamento della cattedrale. Nella tradizione della Chiesa dove c’è il vescovo c’è anche il segno del suo presiedere la Chiesa, cioè la cattedra. La cattedra episcopale è il segno della successione apostolica nella testimonianza del Vangelo, nella sua interpretazione. Colui che siede sulla cattedra è il vescovo, che è il garante della fede, perché la successione apostolica (gli anelli che uniscono me al mio predecessore, il mio predecessore al suo e così via fino ad arrivare alla radice) è molto più di una trasmissione di poteri, è l’inserzione nell’apostolicità della Chiesa, nella sinfonia di tutte le altre chiese. La Chiesa diocesana è unita alle altre, ma è Chiesa completa. La cattedra, allora, è simbolo che identifica il luogo in cui il vescovo presiede la Chiesa, predica il Vangelo, veglia sull’autenticità della devozione, promuove la testimonianza della carità e fa di tutto per conservare l’unità. È in questa chiesa, chiamata anticamente domus ecclesiae, da cui la parola duomo, che dall’VIII sec. in Occidente si individuerà il luogo della cattedra episcopale, definendo questo luogo come chiesa cattedrale. Vi sono ragioni teologiche ed ecclesiali, oltre che storiche e culturali, per dare una considerazione speciale alla cattedrale. Questa Solennità della Dedicazione è “giusta e doverosa”.
Nell’attuale situazione che sta vivendo la Chiesa oggi, dobbiamo porci delle domande. Il problema, infatti, non è avere una cattedrale; basterebbe chiamare un’impresa e dei bravi artisti. Il problema è vivere la cattedrale. Oggi la comunità diocesana raramente sente e discerne il significato della “chiesa del vescovo”. Faccio alcuni esempi. In alcuni casi – ho presente celebri cattedrali francesi – assistiamo all’espropriazione stessa della cattedrale, ridotta ad un museo per turisti, soprattutto laddove è un monumento, un’opera d’arte. Non so se i vescovi abbiano qualche responsabilità in questo. Ci sono altri casi – penso, ad esempio, la cattedrale di Pozzuoli – collocate in una zona della città disabitata o riservata ad uffici; chiese sul monte, magari su un promontorio bellissimo, ma in una zona irraggiungibile. Queste cattedrali irraggiungibili appaiono sempre più lontane dai luoghi dove scorre la vita: è una contraddizione in termini. C’è poi la situazione in cui, come la nostra, il territorio e il ridimensionamento del sito, hanno tolto delle possibilità alla cattedrale di essere visitata, frequentata, vissuta.
Provo, allora, a dare qualche suggerimento per ripensare la cattedrale.
- Non bastano gli adattamenti e i restauri per farla vivere. Che cosa deve essere la cattedrale in una chiesa che non è più il centro, il fulcro della città? Sto pensando alle grandi città: la cattedrale non è più il centro, neppure urbanisticamente. Come pensare una cattedrale in una Chiesa che si scopre missionaria, in uscita, che vuol raggiungere uomini e donne là dove sono, non avendo possibilità di convocare a sé?
Risposte possibili. Bisognerebbe riproporre (e insistere con i sacerdoti) la prassi consapevole di cristiani maturi nella fede che, almeno alcune volte all’anno, si recano alla cattedrale per manifestare la comunione della loro parrocchia con le altre comunità della Chiesa locale. Inventare occasioni, perché le persone vengano in cattedrale.
- Celebrare nella cattedrale gli eventi pastorali diocesani più significativi e sinodali. Ad esempio, l’inizio del nuovo anno pastorale – sarà il prossimo 27 settembre – così come il momento di verifica di fine anno. Ritornare a celebrare in cattedrale la Giornata della Vita consacrata e tante altre Giornate unitarie. Convenire alla cattedrale.
- Nella cattedrale si celebrano le ordinazioni diaconali, sacerdotali ed episcopali e si celebra il conferimento dei ministeri istituiti. La cattedrale è la Chiesa madre (quando ci sono le ordinazioni l’obiezione è che in cattedrale non ci stanno tutti gli invitati… Si possono attrezzare schermi e altoparlanti perché tutti possano seguire la celebrazione).
- Far sì che il Capitolo della Cattedrale diventi un segno del clero vicino al Vescovo. Come Mosè si è circondato di collaboratori per tenere le mani alzate in preghiera, così il gruppo dei Canonici della cattedrale. La scarsità dei sacerdoti rende comprensibile la loro difficoltà a convenire qui, ma qualche volta all’anno sarebbe bello convenissero.
- Sarebbe bello promuovere annualmente l’accensione di una lampada ad olio, ad esempio da parte di un vicariato che porta qui, in cattedrale a Pennabilli, in pellegrinaggio, l’olio che tiene accesa la lampada per ricordare il centro sacramentale della nostra Chiesa locale, la cattedrale (già lo è il Giovedì Santo con la Messa crismale).
In conclusione, si tratta di instaurare una nuova consapevolezza del vivere la cattedrale, forse è meglio dire vivere la Chiesa, e di recuperare un’ecclesiologia pratica della Chiesa locale. Se non si è uniti al vescovo non si è la Chiesa. O la cattedrale è simbolo eloquente dell’unità e dell’unicità della Chiesa locale, oppure è ridotta ad un museo o ad un santuario per le devozioni personali. Così però non vive più del ministero di cui è soggetto, cioè farsi segno dell’apostolicità della Chiesa, anche quando non ci fosse il vescovo e lo si attendesse. La cattedrale resta, perché resta l’apostolicità della Chiesa. La cattedrale ne è il segno permanente.