Omelia nella S. Messa per sant’Antonio da Padova

Pennabilli (RN), Monastero Agostiniane, 13 giugno 2020

Is 61,1-3
Sal 88
Col 3,12-17
Lc 10,1-9

Il mio rapporto con la missione

La festa di sant’Antonio, straordinario messaggero del Vangelo, mi porta a condividere una riflessione sul mio rapporto con la missione e le missioni. Confidenzialmente!

Prima fase: ero un ragazzino che sognava le avventure. E quali se non quelle dei missionari col cappello da esploratore, la veste bianca, la croce alla cintura e la barba? Immaginavo le foreste dell’Africa e della Cina con leoni, elefanti, tigri… Poi, la visita e i racconti dei missionari reduci dai paesi di missione, che narravano di avventure, incontri, vittorie della croce: nuovi eroi come quelli dei primi tempi del cristianesimo. Insomma: tutto quanto poteva far sognare i ragazzi! Una prima fase, “fase puerile”, ma non priva di slanci e di immaginazione.

Seconda fase: ero un adolescente, studente di Liceo, che aveva incontrato Gesù e che avrebbe voluto che tutti potessero conoscerlo, amarlo e seguirlo. Erano gli anni del Concilio Vaticano II. Talvolta veniva in Diocesi qualche padre conciliare che invitava a coltivare desideri di generosità. Ricordo un vescovo del Camerun che invitava noi ragazzi ad andare, durante l’estate, ad insegnare il latino ai suoi seminaristi. Poi, ho incontrato la più missionaria tra i contemplativi: Teresa di Lisieux. Ho cominciato a pensare che anch’io potevo essere, come lei, missionario nel quotidiano: preghiera, sacrifici e… abbonamento alla rivista missionaria. Il sogno romantico delle terre lontane era ancora emozionante: slanci, cultura, esempi, l’esempio di mio fratello Silvio, che era riuscito a vincere il braccio di ferro col Vescovo per partire in missione come padre saveriano.

Terza fase: è il momento dell’adesione definitiva alla chiamata al sacerdozio; con due passaggi. Il primo. Non capivo se avessi “l’onore” di avere la vocazione: «Possibile che chiami proprio me?». Ero diventato amico del profeta Isaia; mi ritrovavo nel passo in cui Dio si chiede «chi manderò?». Isaia dice: «Se vuoi manda me» (cfr. Is 6,8). Secondo passaggio. L’incertezza viene superata da quel: «Non voi avete scelto me, io ho scelto voi» (Gv 15,16). Confidavo al padre spirituale che non avevo una particolare attrattiva particolare per quello che “fa” un prete, sentivo attrattiva per Gesù. Questa fu la fase più adulta della comprensione della missione. «Signore, se sono utile al tuo popolo, mi metto a disposizione (non recuso laborem!)». Anche questa terza fase, più adulta, era caratterizzata dalla soggettività. Mi rendevo conto, comunque, che la missione passava attraverso la mia terra, le strade della mia città sempre più secolarizzata…

Quarta fase: la scoperta della missione come evento pasquale, dinamismo dello Spirito. La missione ora mi appare tutta racchiusa in quel “come”, che ritorna tante volte nel Vangelo di Giovanni; ad esempio: «Come il Padre che ha la vita ha mandato me, e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me» (Gv 6,57). Intendo il «per me» nei tre significati: «Grazie a me», «dedicato totalmente a me», «al posto mio». «Tu sarai membra della redenzione: donami le tue mani, la tua intelligenza, il tuo cuore», pareva dirmi Gesù. «Come il Padre ha mandato me, così io mando voi» (Gv 20,21). Non si tratta di un semplice invio, un’operazione di marketing del Vangelo o di propaganda. Qui si allude esplicitamente alla vita trinitaria e al suo dinamismo intrinseco, con l’effusione dello Spirito Creatore.
Seguitemi: andiamo insieme nel cenacolo la sera di Pasqua. Gesù entra e dice: «Pace a voi». Detto questo, mostra le mani e il costato, non per lamentarsi dei guai che gli abbiamo causato, ma per dire il suo amore: «Ecco i segni del mio amore che non si cancellano». Alita sui discepoli e dice: «Ricevete lo Spirito Santo, a chi rimetterete i peccati saranno rimessi» (cfr. Gv 20,19-23).
Tutte le apparizioni pasquali riferite dai Vangeli contengono l’invio missionario: Gesù Risorto manda, sempre. È così con Maria di Magdala, con le donne, con i discepoli sul monte, con Pietro sulle rive del lago, ecc. La missione è parte integrante del Vangelo. È Gesù continuato nella storia. La comunità del Risorto, ancorché piccolo gregge, turbato e perplesso come sul monte dell’Ascensione, è una comunità su cui si è posato l’alito creatore del Messia. Da subito è una comunità cattolica. La missione così intesa, in questa fase, è profondamente mistica ed altrettanto concreta. Comprende l’ascolto: ricordate il roveto ardente dell’esodo che comunica a Mosè: «Ho udito il grido del mio povero, ho visto la sua afflizione…» (cfr. Es 3,1-12). E comprende l’ardimento che Gesù chiede ai missionari (cfr. Lc 10,1-9). Così penso la visione di Paolo che sente un macedone che dice: «Vieni da noi!» (cfr. At 16,9-15), oppure quando fonderà la comunità di Corinto sulle parole di Gesù che dice: «Non scappare, non pensare che Corinto sia un luogo poco adatto per la missione, refrattario al Vangelo, perché lì mi sono preparato un popolo» (cfr. At 18,9-11).

Anche se li ho espressi in forma narrativa, sono i pensieri che mi sono venuti dopo aver letto i testi della liturgia di oggi e aver considerato la narrazione dell’esperienza cristiana di sant’Antonio. Da una parte l’invio missionario di Gesù («vi mando come agnelli in mezzo ai lupi» Mt 10,16) e dall’altra Antonio (si chiamava Fernando) con l’ardente desiderio di andare in Oriente ad evangelizzare. La promessa contenuta nell’oracolo di Isaia: «Lo Spirito del Signore è sopra di me e mi ha mandato ad annunciare…» (Is 61,1) e l’incontro di Antonio col carisma francescano della minorità (piccolezza), della fraternità e del servizio.
Poi, la Lettera ai Colossesi con l’invito di Paolo a vestirsi dei sentimenti di Cristo (cfr. Col 3,12), ad ospitare la sua parola e a far tutto nel suo nome, e l’attività apostolica di Antonio, consapevole e ferrato nelle Scritture, maestro di teologia per incarico di Francesco (un’eccezione!). In mezzo al popolo…

Quinta fase: la intravvedo guardando il missionario Antonio che, ancor giovane, ma consumato dalle fatiche per il Vangelo, a causa della sua prossimità con il popolo, si ritira vicino a Padova, all’eremo di Camposampiero, e si fa costruire una celletta su un robusto albero di noce per vivere immerso in Dio e nella natura. La missione totale: «Cupio dissolvi et esse cum Cristo» (Fil 1,23)!