Pellegrinaggio in Terra Santa – quinto giorno
28 settembre 2019
Betlemme. Intoniamo canti natalizi… con 34 gradi e col sole a picco. C’è da fare una lunga coda per scendere alla grotta della Natività: un serpentone multicolore, plurilingue, multireligioso. Nel luogo dell’umiltà incarnata c’è chi fa il furbo: scavalca, urta, sgomita. Nonostante i buoni propositi ci si inquieta. Effettivamente l’arroganza suscita indignazione. Cerchiamo di mantenere la calma. C’è chi sa vedere il positivo: «Guarda quanti sono attirati da Gesù». In verità, tra i pellegrini si sono infiltrati turisti, cristiani per caso e scatenati fotografi. Abbiamo l’auricolare, strumento indispensabile per questi giorni e soprattutto qui per ascoltare le spiegazioni di Alessandra, la nostra guida. Passa più di un’ora quando finalmente si comincia a fare qualche passo. Tentiamo di mantenere il raccoglimento e di fare argine alla superficialità che ci sembra di cogliere attorno. Sussurriamo il Rosario meditando i misteri gaudiosi. Ci riconciliamo con la folla. Ci sembra una metafora della Chiesa di oggi. Ormai siamo a pochi passi dalla grotta. Scendiamo la scaletta. Sotto un altare una grande stella d’argento a quattordici punte incorona il luogo della nascita di Gesù, secondo l’antica tradizione. Stare in fila tanto tempo ci ha aiutato a focalizzare bene quanto ognuno ha da dire e da chiedere al Signore. Il tempo è pochissimo: una genuflessione, un bacio o una carezza sulla stella. Strano: gli uomini della sicurezza ci consentono di fare un altro canto natalizio.
Ripensando al nostro atteggiamento prima e durante la sosta a questo luogo, ci sembra d’aver creato “una bolla di preghiera” contagiosa per chi ci sta attorno. Non usciamo dalla porticina come avevamo fatto all’ingresso. Quella porticina viene chiamata “dell’umiltà”: per oltrepassarla ci si deve piegare e alleggerire dal proprio orgoglio. Solo così si arriva al Signore. Passiamo alla Grotta del Latte, un luogo mariano. A dispetto della confusione di prima, troviamo un’oasi di assoluto silenzio. C’è una comunità di monache che ci offre ospitalità eucaristica: un’ampia cappella con l’Eucaristia esposta per l’adorazione. Molti di noi prolungano il silenzio adorante e su cartoncini scrivono richieste di preghiera da affidare a quelle sante donne. Al campo di pastori, più sotto, si narra un simpatico racconto. I pastori vanno dal Bambino Gesù con i loro doni. Solo uno non ce la fa ad arrivare: è anziano e un po’ sbadato. Giuseppe, avvertito da un angelo, prepara la cavalcatura per la fuga. Maria ha in braccio il bambino. A questo punto – son tutti pronti per partire – il bambino strilla. Che cos’ha? Neppure le carezze della più dolce delle mamme riescono a placarlo. Non si può partire. Il bambino piange. Arriva il ritardatario, l’ultimo dei pastori sotto il carico del suo dono, ma soprattutto dei suoi anni. A quel punto il bambino non piange più. È arrivato l’ultimo. Non c’è più motivo di indugiare.
La giornata si conclude ad Ain Karen, il villaggio dove Maria incontra Elisabetta e dove nascerà Giovanni Battista. Preghiamo il Benedictus e il Magnificat. Il luogo è verdissimo e pieno di fiori. Tutto ci parla di affettuose cronache familiari che assurgono, però, a tappe importanti della storia della salvezza. Si respira la spiritualità degli anawìm, i piccoli che tutto si aspettano, fiduciosi, da Dio. È quell’Israele pronto ormai ad accogliere il Messia: Zaccaria, Elisabetta, Simeone, Anna, Giuseppe e Maria di Nazaret.
Fa un certo effetto e rende pensosi la fine tragica del Precursore.
Rientriamo a Betlemme, ancora una volta dobbiamo varcare il grande muro, passare il check point, aspettare in silenzio i controlli dei militari armati di mitra. Preghiamo ancora una volta per la pace.