Omelia nella IV domenica di Quaresima

Pennabilli (monastero Agostiniane), 31 marzo 2019

Gs 5,9-12
Sal 33
2Cor 5,17-21
Lc 15,1-3.11-32

1.

Oggi tutta la Chiesa è alla scuola di Gesù, seduta ai suoi piedi per apprendere l’insegnamento più necessario, più utile e più bello: insegnamento su Dio. Scopo della parabola di Luca (15,11-32) è soprattutto quello di farci cambiare l’opinione che solitamente abbiamo di Lui. Le Sacre Scritture dell’Antico Testamento ci parlano molto di Dio. Azzardo un’immagine: è come se i racconti di Alleanza fossero scesi su un foglio bianco come una pioggia di notazioni musicali. Nella pienezza dei tempi Gesù viene a distendere il rigo musicale sulle note che finalmente divengono leggibili e svelano il “Canticum Patris”.
Nelle domeniche di questa Quaresima abbiamo ripercorso il cammino dell’Alleanza (un’unica Alleanza in verità con modulazioni diverse, da Noè ad Abramo, da Mosè a Giosuè, ma verso una piena e nuova Alleanza in Gesù).

2.

Preferisco chiamare la parabola di Luca: “La parabola del Padre misericordioso”. Tutte le linee narrative portano a Lui. Ci sono i due figli coprotagonisti e tante altre comparse.
Stranamente, nella casa paterna non ci sono donne. Papa Giovanni Paolo II suggeriva di cercare il femminile nelle “viscere” del Padre che si com-muove verso il figlio che torna (cfr. Dives in Misericordia nota 52). Lascio a ciascuno di attardarsi nella meditazione sui particolari che preferisce.

3.

Sul figlio più giovane.
Se ne va da casa con la sua parte di beni. In cerca di che cosa?
Fondamentalmente in cerca di se stesso e della sua felicità. Il padre lo lascia andare; è un padre che ama la libertà del figlio, la provoca, la festeggia, la patisce.
Quel figlio insegue la felicità, ma si accorge che le cose sulle quali si è buttato hanno un fondo e che il fondo è vuoto: la sua è un’illusione di felicità da cui si risveglia tra porci e ladro di carrube per vivere!
La sua vicenda è una descrizione del peccato: discesa, viaggio ed esilio lontano da Dio; miseria, perdita della gloria dell’uomo immagine di Dio; contatto coi porci, morte dovuta al peccato.
Il prodigo rientra in sé. Nel suo soliloquio sembra dimostrare d’aver preso coscienza del suo peccato. Riecheggiano le parole di Geremia:
«Fammi ritornare e io ritornerò,
perché tu sei il Signore mio Dio.
Dopo il mio smarrimento, mi sono pentito;
dopo essermi ravveduto mi sono battuto l’anca.
Mi sono vergognato e ne provo confusione,
perché porto l’infamia della mia giovinezza» (Ger 31,18-19).
Il prodigo sa di non avere diritti. Si augura d’essere trattato come un “giornaliero”. Cerca in quello che fu suo padre, un buon padrone. Torna per fame, non per amore. Torna per non morire. Come reagirà il padre?
Considerando lo sviluppo del racconto viene da esclamare: «O felix culpa»!

4.

Sull’iniziativa del padre.
Introdotti da questo grido – o felix culpa! – facciamo meditazione su uno dei versetti più commoventi della Scrittura.
Fa tutto il padre. Quello del figlio non è vero pentimento, è un pentimento interessato. Ma al Padre basta anche un cenno, un passo, un alzar di sguardo. Perdona non con dei proclami, ma con una carezza.
Gustiamo i cinque verbi del perdono paterno: scruta l’orizzonte e vede; corre incontro incurante di compromettere la sua compostezza orientale; si commuove: è commozione viscerale; si getta al collo; bacia.
Segue la consegna di tre simboli:
la veste (quella più bella? Quella di prima?), dignità riconsegnata;
l’anello, con il sigillo dell’autorità di figlio;
i sandali, segno dell’uomo libero (lo schiavo cammina scalzo).
E poi c’è la festa: parola che chiude questa prima parte della parabola e che ritornerà a suggellare la seconda parte.

5.

La meditazione di Luca (scriba mansuetudinis Christi).
Il pensiero del narratore (Luca) è al di là del puro racconto e invita a considerare i dinamismi della conversione. Nel giudaismo “conversione” era sinonimo di penitenza, implicando uno sforzo personale per dimostrare la sincerità del pentimento (digiuni, elemosine, preghiere). In Luca la conversione è gioia che scaturisce dall’incontro con Dio perdonante. Non è l’uomo che si salva da sé. Ma, aprendosi a Dio dal fondo della sua miseria, è nella disposizione che permette a Dio di colmarlo col dono della filiazione e della comunione.

6.

Il figlio maggiore.
Il figlio maggiore entra in scena. Sta tornando dal lavoro. Chissà se ama le cose che fa!
C’è contrasto fra il suo cuore infelice e la festa che tracima dalla casa. Si informa. È imbronciato e protesta i suoi meriti: non ha mai potuto fare le cose che ama. Sembra di sentire l’esortazione del salmista al giusto irritato: «Non irritarti per chi ha successo» (Sal 37,7).
Il genere di perfezione vissuta dal figlio maggiore gli impedisce di entrare nella logica del padre, basata sull’amore gratuito. Qui c’è un padre che non è giusto: è di più, è amore!
Lo scandalo del figlio maggiore fa emergere la gelosia sottesa e lo scombussolamento dei rapporti in quella famiglia: mettere a confronto le espressioni adoperate dal figlio e dal padre per descrivere le relazioni. Che opinione del padre hanno i figli?
Il più giovane come il più grande – per motivi diversi – si sbagliano sul padre.

7.

Racconto senza finale.
Il finale della parabola è aperto. Capirà il figlio maggiore? Capirà il lettore?
Le parole della Seconda Lettera ai Corinzi: «Vi supplichiamo in nome di Cristo, lasciatevi riconciliare» (2Cor 5,18-20) mi riportano ad uno degli episodi più commoventi della Genesi. Narra di Giuseppe, il figlio di Giacobbe spogliato di tutto, venduto ai mercanti d’Oriente, prigioniero in Egitto, poi diventato vicerè d’Egitto. Nell’epilogo del racconto lo si vede piangere sette volte (fra i personaggi della Bibbia è quello che piange di più). Sono tutte lacrime di gioia e di riconoscenza, per fratelli ritrovati, per la tenerezza del padre sempre amato. Il settimo pianto, invece, è di delusione, di dolore e di amarezza. Dopo la morte del padre i suoi fratelli ritornano nella paura perché non credono al perdono di Giuseppe: si sentono allo scoperto, senza protezione. Giuseppe è figura di Dio. Non so se Dio piange quando i suoi figli pensano di doversi ancora procacciare il suo favore, quando non capiscono il suo cuore e sembrano non fidarsi di lui. In Dio la riconciliazione è già completa; è avvenuta, per così dire, unilateralmente. «Dio è più grande del nostro cuore» (1Gv 3,20).