Omelia nel conferimento della cura pastorale della parrocchia dei Santi Pietro, Marino e Leone di San Marino Città a don Marco Mazzanti sdb

XIX domenica del Tempo Ordinario

Is 53,10-11
Sal 32
Eb 4,14-16
Mc 10,35-45

Gesù accondiscende alla preghiera di Giacomo e di Giovanni: «Che cosa volete che io faccia per voi?» (Mc 10,36). Gesù è disposto ad esaudirli. I due apostoli, fratelli, ci fanno sorridere per il loro candore: «Vogliamo sedere nella tua gloria uno a destra e uno a sinistra». Nella Bibbia la gloria di Dio non è la fama o la celebrità, ma la presenza luminosa, attiva e potente di Dio. La gloria, ad esempio, si è manifestata nello splendore del Sinai, il santo monte, poi nella nube lungo i sentieri dell’Esodo. I Salmi cantano i cieli che proclamano la gloria di Dio. Potremmo dire che la gloria è l’essenza stessa di Dio nel suo manifestarsi come presenza amorosa accanto al suo popolo e, quando è necessario, contro i nemici. Ma l’evangelista Giovanni, un giorno, dopo la lezione impartita dal Maestro, spiegherà che la gloria di Dio ha preso forma: la forma dell’umanità di Gesù, che è il sacramento dell’incontro con Dio. Dio adesso ha il volto di Gesù, non è qualcosa di inimmaginabile. Dunque, la gloria è mistero, presenza, prossimità… Ecco la gloria di Dio: il sorprendente modo di fare di Dio!
I discepoli, ancora in cammino, hanno equivocato; hanno pensato la gloria alla maniera umana. Ma la lezione è chiarissima, lampante: «Chi vuol essere il primo tra voi sia il servo di tutti» (Mc 10,44). Nonostante la gelosia che i due fratelli Giacomo e Giovanni hanno scatenato nel gruppo, ci riescono simpatici. Con fierezza, infatti, dichiarano a Gesù che sono pronti a tutto, anche a bere il calice. Fierezza nel proponimento e insistenza fiduciosa nella loro preghiera: «Vogliamo che tu ci conceda quello che ti chiediamo». Non aveva detto Gesù: «Chiedete e otterrete»? (Mt 7,7). Pregare non è pretendere che Dio faccia quello che vogliamo noi, ma disporsi a fare quello che lui vuole da noi, come insegna la preghiera del Padre Nostro: «Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra» (Mt 6,10). Così ha pregato Gesù nel Getsemani: «Abbà, Padre, tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu» (Mt 26,39). Gesù parlando di un calice allude alla Passione; un calice amaro di tutto il fiele che è nel mondo.
Impariamo un’altra cosa: la gloria di Gesù è nel dono della sua vita. Una vita “rapita” per chi lo uccide, ma “donata” nell’interpretazione che dà Gesù. Da qui l’insegnamento del Signore sull’autorità. Autorità come servizio. Dio si è posto non sopra ma davanti; Gesù si pone ai nostri piedi e li lava: ci guarda dal basso! Il padrone fa paura, il servo no: il Vangelo sancisce la fine della paura di Dio. Il padrone esige e pretende per sé, il servo si impegna e vive per un altro. Il padrone si serve degli altri, Gesù fa sua la nostra causa. Il padrone giudica e castiga, Gesù perdona e soccorre. Il padrone vuol vedere i frutti, il Signore è seminatore.
Autorità che fa crescere. Fa sì che ognuno dia il meglio di sé, metta in gioco i suoi talenti. L’autorità vera non è mai autoritarismo, ma autorevolezza! Sa vedere il positivo e promuove… come don Bosco!
Autorità come dono di sé. «Il figlio dell’uomo è venuto per servire e dare la sua vita»: il parroco dirige, insegna, è competente, ma nello spirito del servizio e nella dimenticanza di sé per fare posto. Ora comprendiamo il senso evangelico del “potere”: il potere di amare.

Siamo qui questa sera per compiere un gesto che ricorda le investiture che si facevano nell’antichità. Consegnerò delle chiavi a don Marco. Le chiavi possono essere simbolo di potere. Un giorno Gesù disse a Pietro: «A te darò le chiavi… » (Mt 16,19). Così anche agli apostoli: «In verità vi dico, tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato anche in Cielo e quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto anche nei Cieli» (Mt 18,18). Si tratta del potere come lo intende Gesù, come servizio, come dono di sé, come calice.
Consegnerò a don Marco due chiavi, la terza dovrete consegnarla voi, anche a nome di coloro che non sono presenti questa sera. La prima chiave che gli darò è quella della chiesa, della vostra chiesa, che vi accoglie e che vi sta tanto a cuore, che è il vostro gioiello, la vostra fierezza, il luogo a voi più caro. È la casa che accoglie i bimbi nel giorno del loro Battesimo, i fanciulli per la Prima Comunione, gli adolescenti per la Cresima. È spalancata per la Messa domenicale, per le feste della comunità e della famiglia, per i matrimoni. Tutti raduna per accompagnare i defunti al cospetto di Colui che accoglie misericordioso. Ma questa chiesa è di pietra ed è solo un segno; le pietre vive siete voi, che con la Parola di Dio e con i sacramenti avete sempre più autocoscienza di essere il popolo di Dio, il Corpo di Cristo, il Tempio dello Spirito Santo. In questa chiesa, il parroco, in mezzo a voi, anzitutto prega, adora, con voi, per voi. A don Marco dico: «Abbi cura di tutti, facendoti aiutare dai Consigli pastorale e degli affari economici per il discernimento comunitario ed amministrativo». A voi dico di corrispondere al vostro parroco, di collaborare, sì da essere tutti insieme «un cuor solo ed un’anima sola» (At 4,32). Per vivere quella sfida che si chiama sinodalità.
Consegnerò un’altra chiave: quella del Tabernacolo (il luogo dove conserviamo l’Eucaristia). Insieme con la Parola, l’Eucaristia ci fa comunità, ci fa famiglia. Il parroco custodisce il Tabernacolo come il cuore della Chiesa, cuore della comunità. L’Eucaristia è tutto per la Chiesa, tutto per il cristiano, perché è Gesù. Adoratela, onoratela, contemplatela insieme al vostro parroco.
C’è una terza chiave: non posso dartela, caro don Marco. È la chiave che possono darti solo i tuoi parrocchiani: la chiave dei loro cuori. Ognuno di voi ha la chiave del suo cuore: consegnatela, pieni di fiducia, al vostro nuovo parroco. Con la chiave che metterete nelle sue mani lui potrà entrare in voi, ascoltare le vostre confidenze, accogliere le vostre domande.
Tra poco accompagnerò don Marco al confessionale e metterò sulle sue spalle una “sciarpa” color viola; si chiama stola: è il segno della potestà di rimettere i peccati, ma anche di consolare, di guidare coscienze, di sostenere con la direzione spirituale.
Sono certo, don Marco, che i tuoi parrocchiani, con fiducia e schiettezza, metteranno nelle tue mani la chiave dei loro cuori; incontreranno, attraverso di te, la misericordia del Padre e non dovranno temere nel confidare fragilità e dubbi. Darai tanto a loro, ne sono certo. E altrettanto riceverai da loro. Crescerà, giorno dopo giorno, l’affezione. E, del resto – si sa – il cuore è il cuore: ha i suoi ritmi e i suoi tempi, ha bisogno di ricevere e di dare. Tu, don Marco, prenderai «l’odore di queste pecore» e loro da te prenderanno la sicurezza che la tua fede e la tua personalità sapranno infondere.
Ti affido un altro compito. Ti chiedo di avere a cuore le vocazioni: tutte, quelle religiose, quelle missionarie, quelle contemplative e quelle al sacerdozio. E a tutti chiedo di avere cara la vocazione al sacerdozio. Abbiamo tanto bisogno della presenza del sacerdote. Ce ne accorgiamo di più quando non c’è. Il sacerdote ci dà l’Eucaristia, tiene unita la comunità, pronuncia a nome di Gesù le parole che ci sono indispensabili: «Io ti perdono… da tutti i tuoi peccati». Così sia.