Omelia in occasione delle S. Cresime a Fratte

Fratte, 7 ottobre 2018

S. Cresime

Gen 2,18-24
Sal 127
Eb 2,9-11
Mc 10,2-16

(da registrazione)

Cari ragazzi,
si avvicina il momento della Santa Cresima. Mi rivolgo a voi, ma anche a tutta la comunità, perché quello che accadrà in questa chiesa ha molto a che fare con la Pentecoste, quando lo Spirito di Dio scese sul gruppo dei discepoli di Gesù. Erano discepoli spaventati, discepoli che vedevano come un’impresa smisurata quella di annunciare il Vangelo fino agli estremi confini della terra: erano semplici pescatori. Poi fra loro vi erano litigi, perché si chiedevano: «Chi è il più grande fra noi?» (cfr. Mc 9,33-36).
La prima cosa che mi viene da dirvi è che dobbiamo aiutarci ad avere fede. A scuola e negli ambienti che frequentate incontrerete persone di cultura diversa, di differenti convinzioni. Un gruppo di studenti delle scuole superiori, che ho incontrato la scorsa settimana in parrocchia, mi ha confidato che nella loro classe tutti i compagni si dichiarano atei. Voi, tra poco, rinnoverete le promesse battesimali. Anche per voi verrà il momento del combattimento, in cui vi chiederete: «Sarà vero quello che il mio parroco mi ha insegnato? Sarà vero quello che i catechisti mi hanno continuamente ripetuto? Sarà vero quello in cui crede la mia famiglia?». Ricorro spesso, quando parlo ai ragazzi, a questa immagine. Se noi potessimo, per assurdo, fare un’intervista ad un bimbo prima che nasca, quando è ancora nel grembo della mamma e chiedergli: «Com’è la tua mamma? Che colore hanno i suoi capelli? E i suoi occhi?». Lui non saprebbe cosa rispondere. Eppure non c’è nessuno di più intimo a quella mamma di lui. Ma lui non la conosce, non la vede, non la sente, se non indirettamente. Così siamo noi. Il Signore Dio è un grande mistero che ci avvolge, è un amore infinito, ma noi ancora non l’abbiamo visto e possiamo solo credere. Se vedessimo, non ci sarebbe bisogno della fede. La fede è fiducia. «Mi lascio cadere in te, Signore, chiedo la forza del tuo Spirito per potermi mantenere fedele». Mi sovviene di paragonare la fede anche ad una rete nella quale ci si può lanciare, una rete che ci sorregge, nella quale siamo sicuri che verremo custoditi, non cadremo per terra. Un’altra immagine mi viene dalla città da cui provengo, Ferrara, la “città delle biciclette”. Quando si pedala la dinamo fa luce: più si pedala e più ci si vede. Così è la fede: più ci si fida, più ci si vede.
E che cosa fa lo Spirito Santo? Ci unisce, perché tutti abbiamo lo stesso Spirito, e suscita in mezzo a noi tanti doni, tanti carismi, per l’utilità comune.
Questa domenica, attraverso la pagina del Vangelo, lo Spirito ci dà di comprendere e contemplare la bellezza di una grande vocazione, la vocazione della maggioranza delle persone, il matrimonio. Tutto parte da una parola di Dio. «Non è bene che l’uomo sia solo» (Gn 2,18). Dunque, il male originale, il primo che è apparso sulla terra, prima ancora del peccato, è la solitudine, perché non c’è nessuno che basti a se stesso, nessuno che possa essere felice da solo. Neppure il paradiso è sufficiente. Per questo Dio dice: «Farò un aiuto che gli corrisponda». Questo aiuto, all’inizio, fu Eva per Adamo e Adamo per Eva. Eva è stata data ad Adamo nel sonno, perché è un dono. Adamo non se l’è costruita da solo, non è una sua creatura. È stata tratta dal fianco (da una costola), perché pari nella dignità, ineffabilmente attraente. L’uomo e la donna, insieme, sono chiamati ad un amore per sempre. All’inizio, prima della «durezza del cuore» (Mc 10,5), era proprio così. «I due formano una carne sola» (Gn 2,24). Poi, con la «durezza del cuore», col peccato, sono venuti i distinguo, le concessioni legali, i ripudi legittimati. Ma Gesù fa agli sposi il dono del matrimonio. Il sacramento del matrimonio è una vocazione, è un dono, è una missione. Quando si è ragazzi si pensa al matrimonio come al momento in cui andare finalmente a vivere insieme, ecc. No, il matrimonio è una missione. Ci si accorge di questo col passare degli anni, quando all’innamoramento succede un amore che interpella. Credo che nei momenti di difficoltà, che non mancano in nessuna coppia, ci sia tanto bisogno di fare memoria del sacramento che ha unito lo sposo alla sposa: quel sacramento continua a vivere e ad operare, è sorgente di forza e di luce. Ripensare a quel giorno, quando abbiamo messo sull’altare il nostro amore umano – sicuramente grande, bello, significativo – e poi, al termine della liturgia, ci è stato ridato con un valore aggiunto, perché lo sposo amerà la sua sposa come Gesù ama la Chiesa e la sposa avrà la prova dell’amore di Gesù attraverso la tenerezza del suo sposo (e viceversa). Ecco cosa fa lo Spirito Santo. «L’uomo e la donna saranno una carne sola. L’uomo non osi separare ciò che Dio unisce» (cfr. Mc 10,8-9). Oggi immagino che nelle parrocchie del mondo, chiunque debba prendere la parola su questo brano di Vangelo, può sentirsi in imbarazzo, perché in tutte le nostre famiglie c’è qualche problema; non tutti sono riusciti a mantenere l’impegno dell’indissolubilità. Se fossero qui presenti, vorrei dire loro come dice Sant’Agostino: «Anche se il matrimonio è andato in crisi, per i motivi che la vostra coppia conosce, sentitevi parte della comunità; la comunità prega per voi, evita accuratamente i giudizi e vorrebbe accompagnarvi durante il tempo del discernimento, per capire bene cosa è accaduto».
In questi giorni, a Roma, il Papa ha convocato il Sinodo sui giovani. Attenzione, lo studio parte dai giovani ma in realtà riguarda noi adulti. La Chiesa cerca di ringiovanirsi, di essere sempre più piena di entusiasmo, perché al Signore si arriva non per un’imposizione, per un decreto, per dei divieti, ma perché ci si innamora di lui. Allora bisognerebbe sempre che le nostre comunità, ancorché siano ridimensionate rispetto ad una volta, siano entusiaste, piene di Gesù. E Gesù – state certi – è attrattivo. «Vieni Spirito Santo, vieni nei nostri cuori, nei cuori di questi ragazzi e nei cuori di noi adulti». Così sia.