Omelia nella celebrazione eucaristica in occasione dell’Investitura dei Capitani Reggenti

San Marino (Basilica del Santo), 1 ottobre 2018

Gc 3,13-18
Sal 84
Mt 5,38-48

(da registrazione)

Abbiamo ascoltato un tratto della Lettera di Giacomo, una delle grandi figure della Chiesa primitiva, il primo vescovo di Gerusalemme, chiamato anche «il fratello del Signore» (Gal 1,19). Giacomo scrive a dei cristiani che attraversavano tentazioni e difficoltà. Dopo la conversione e il primo entusiasmo, via via erano andati perdendo di lucentezza, di coraggio, di speranza. Non c’era più mordente nella loro vita cristiana. La Lettera di Giacomo non è un trattato di teologia, piuttosto un insieme di consigli pratici, neppur tanto collegati tra di loro, ma riconducibili ad un denominatore comune: non basta ascoltare il messaggio, bisogna viverlo. «La fede senza le opere – scrive Giacomo – è morta» (Gc 2,26). Ecco le incongruenze che Giacomo denunciava nei cristiani di allora: fanno distinzione di persone (non trattano tutti allo stesso modo); mancano di carità facendo cattivo uso della lingua (parlano male gli uni degli altri); sono litigiosi; consolano a parole i poveri ma non fanno niente per aiutarli; ci sono tra loro persone che pensano solo al guadagno; alcuni si sono arricchiti defraudando il salario agli operai. Di fronte a tutto questo, Giacomo riafferma il comandamento supremo dell’amore che deve tradursi in gesti concreti. Non bastano le semplici dichiarazioni d’intenti. Conclude, poi, mettendo a confronto, una sapienza «che non viene dall’alto, terrestre e materiale», con «una sapienza che viene dall’alto» (cfr. Gc 3,15-17). Sapienza, nella lingua italiana, richiama il sale, ciò che dà sapore, gusto. La sapienza che viene dall’alto è piena di virtù; una sapienza che rende bella la vita davanti a se stessi – che è la cosa più importante – e davanti agli altri. La sapienza è ardua da conquistare, anche se poi, nel contesto del Nuovo Testamento, la sapienza è un dono dello Spirito di Dio. Sembra che Giacomo sottolinei di più l’aspetto dell’impegno, definendola ardua da conquistare, ma gustosa.
Sentite l’elenco delle virtù che ne sono corredo. La sapienza è pura, pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale, sincera: sette virtù. La virtù è stata definita in vari modi; ad esempio, si parla di virtù come controllo della ragione su se stessi, virtù come giusto mezzo per evitare gli eccessi, oppure come abito operativo, abitudine al bene, quindi come stile. Soltanto l’uomo virtuoso dentro, nella sua radice, compie atti buoni. Gli vengono, per così dire, naturali. Le possibilità morali dell’uomo affiorano da una tendenza costante al bene. Gesù dirà: «Non può un albero buono fare frutti cattivi» (Mt 7,18). D’altra parte, in che cosa consiste questa bontà dell’uomo se non in una disposizione permanente dell’animo, capace di sussistere al di là dei singoli atti. Come educarci alla virtù, giacché la cura dell’anima è la cosa più necessaria, più utile, più bella? Ci si educa anzitutto coltivando pensieri di bene. Tutto, in fondo, si gioca laddove uno è solo con se stesso. Ci si educa custodendo quel progetto di vita che è illuminato dalla «sapienza che viene dall’alto», ma anche con la ripetizione di atti virtuosi, con l’ascesi. Quest’abitudine buona facilita e rende più disinvolto, meno esitante, il nostro fare il bene e accresce la libertà interiore, lo spessore di una vera humanitas. Certo, non mancano i sospetti sulla virtù e più ancora sui cosiddetti virtuosi. Gesù stesso ha insistito sulla necessità del “cuore obbediente” più che degli “atti obbedienti”.
C’è chi mette nella virtù qualcosa che rimpicciolisce; per esempio un freno che inibisce la spontaneità, oppure come un “tic tac”, una routine ordinata ma senza slanci. Per non dire l’ipocrisia, gli atteggiamenti di facciata, per convenire al perbenismo. Talvolta, si intende la virtù come assenza di coraggio per adeguarsi all’educazione comunemente accolta, recepita. I virtuosi allora vengono paragonati ai ciottoli che il torrente ha levigato; non hanno spigoli, sono puliti, rotondeggianti, probi, ma non è questa la virtù. Accogliamo questa critica che smaschera atteggiamenti equivoci. La virtù autentica è un progetto di vita, è il costante, personale impegno ad imprimere una direzione al proprio agire, fino alla fedeltà alle piccole cose. «Chi è fedele nel poco, sarà fedele anche nel molto» (Lc 16,10). Ci sono virtù indispensabili e fondamentali che la tradizione chiama cardinali in quanto sono i “cardini” che sostengono l’impianto della nostra vita e delle nostre relazioni: la giustizia, la fortezza, la prudenza, la temperanza. Quattro virtù che il cristianesimo ha trovato nell’Antico Testamento e che erano proprie del pensiero antico.
La pagina evangelica ci dice che la cosa più importante, la meta, il fine, il motore di tutto è la carità. Con l’autorevolezza del suo «Ma io vi dico» (Mt 5,39), Gesù ci invita a tendere alla perfezione. «Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei Cieli» (Mt 5,48). Quanta stima verso l’uomo, verso ogni persona! Che bellezza, che audacia, che ideale! San Marino preghi per noi e ci ottenga la sapienza che viene dall’alto.