Omelia nella Solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Cristo

San Marino, 31 maggio 2018

Es 24,3-8
Sal 115
Eb 9,11-15
Mc 14,12-16.22-26

(da registrazione)

Dopo tre anni di cammino insieme, per l’ultima volta il gruppo dei discepoli giunge con Gesù a Gerusalemme. È la festa di Pasqua. L’insegnamento del Signore tocca ormai il vertice. È come se Gesù levasse definitivamente il velo di ogni mistero. Dice: «Tutto quello che ho ricevuto dal Padre ve l’ho fatto conoscere» (cfr. Gv 15,15). Ora sta per dare pieno valore alle sue parole con la sua morte e risurrezione. È la massima prova della qualità di relazione che offre agli uomini: «Dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13).
Tutto si svolge durante una cena. La nuova alleanza viene sigillata non più come sul monte Sinai, fra tuoni e lampi, neppure più come al tempio in liturgie solenni, sfavillanti, con il sangue di agnelli offerti in espiazione, bensì tutto avviene nell’umiltà di un pasto tra amici. «Prendete, questo è il mio corpo dato per voi. Bevete, questo è il mio sangue, il sangue della nuova alleanza» (Mc 14,22-23).
Le letture bibliche di oggi sono attraversate – come avete potuto sentire – da un filo rosso che le attraversa tutte. Ricorre una parola che riassume il senso della festa del Corpus Domini; la parola è: alleanza, cioè legame, nodo che unisce ciò che era disperso, cioè comunione. Sì, nuova alleanza, rinnovata e definitiva modalità di comunione tra Dio e l’umanità.
Il rapporto col cibo è fondamentale per gli esseri umani, sia come sostentamento, ma anche come segno di unione tra commensali. Ci sono disturbi alimentari gravi che hanno la loro causa nella qualità delle relazioni pregresse, familiari. Siamo di fronte ad una relazione che nutre, un cibo che dice relazione.
Sull’altare c’è un piccolo pane bianco, con poco sapore, che è silenzio, profondissimo silenzio. Permettete una confidenza, un pensiero personale. Che cosa mi può dare questo pane? Per un istante mi affaccio sull’enormità di ciò che mi sta accadendo: Dio mi cerca, Dio è in cammino verso di me; poi, Dio arriva e assedia il mio cuore con i suoi dubbi, i miei dubbi, i miei trasalimenti, entra e trova casa in me. La comunione, allora, mi sembra essere più che un bisogno mio, un bisogno di Dio. Faccio la Comunione e Dio mi abita. Sono la sua casa: «Prendete – dice –, questo è il mio corpo. Bevete, questo è il mio sangue». Mangiare e bere il corpo e il sangue significa fare propria l’intera vicenda di Cristo, cogliere il suo segreto vitale. Quando Gesù dà il suo corpo vuole che la nostra fede si appoggi non tanto a delle idee, ma ad una persona. Non ha detto: «Ecco la mia mente a tua disposizione, la mia volontà, la mia divinità, il meglio di me». Semplicemente, poveramente, ha detto: «Ecco il mio corpo», cioè la mia persona, fatta di sguardi, di gesti, di ascolto, di cuore. Quando Gesù dà il suo sangue, vuole che nelle nostre vene scorra la sua vita, vuole che nel nostro cuore metta radici il suo coraggio e quel miracolo che è la gratuità nelle relazioni.
In conclusione, quando Gesù ci dà il suo corpo e il suo sangue vuole anche farci attenti al corpo e al sangue dei fratelli. Infatti, si dice del corpo che è «offerto» e del sangue che è «versato». Dunque, la legge dell’esistenza è il dono di sé e unica strada per l’amicizia è l’offerta. Allora, non indietreggiamo. Questa relazione nutre.