Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani

La Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani è un’iniziativa internazionale di preghiera ecumenica nella quale tutte le confessioni cristiane pregano insieme per il raggiungimento della piena unità che è il volere di Cristo stesso: «Perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato (Giovanni 17,21).
Da sempre le diverse confessioni hanno pregato per l’unità, ma separatamente. In particolare verso la fine del Settecento e nel corso dell’Ottocento si svilupparono diverse iniziative di preghiera con questa intenzione, specialmente in area protestante e anglicana. Inizialmente furono guardate con sospetto, se non proibite, dall’autorità cattolica.
Il primo Ottavario, in forma simile all’attuale, nacque su iniziativa di due ministri in relazione epistolare tra loro: l’inglese Spencer Jones, anglicano, e l’americano Paul James Francis Wattson, episcopaliano (anglicano americano). Nell’anno 1907, il rev. Jones suggerì l’istituzione, per il 29 giugno di ogni anno, di una giornata di preghiera per il ritorno degli anglicani, e di tutti gli altri cristiani, all’unità con la Sede Romana. L’anno seguente Wattson ampliò l’idea, proponendola in forma di un’ottava allo scopo di domandare a Dio “il ritorno di tutte le altre pecore all’ovile di Pietro, l’unico pastore”. È precisamente a questo anno (1908) che viene fatta risalire convenzionalmente la nascita ufficiale dell’attuale settimana.
Wattson decise di iniziare l’ottavario il giorno della festa della Confessione di Pietro (variante protestante della festa della Cattedra di San Pietro che si festeggiava il 18 gennaio), e di concluderlo con la festa della Conversione di San Paolo. Da allora queste due date (18 e 25 gennaio) segnano l’inizio e la fine dell’Ottavario nell’emisfero settentrionale.
In ambito cattolico l’iniziativa fu esplicitamente approvata da diversi pontefici (Pio X e Benedetto XV) ma non come preghiera comune con gli altri cristiani: i cattolici erano invitati a pregare “per il ritorno a Roma dei dissidenti”, tanto che per un certo tempo Wattson, nel frattempo convertitosi al Cattolicesimo Romano, la chiamò “Chair of Unity Octave” (Ottavario per l’Unità della Cattedra) per enfatizzare la relazione tra l’unità dei cristiani e il papato.
In ambito protestante, il movimento ecumenico Faith and Order (Fede e Costituzione) nel 1926 propose a sua volta un ottavario che iniziasse però la domenica di Pentecoste (tradizionalmente considerata la commemorazione della fondazione della chiesa di Cristo). Oggi questo periodo è adottato in molti paesi dell’emisfero meridionale, in cui gennaio è tempo di ferie.

La Settimana si celebra ogni anno tra il 18 e il 25 gennaio con un tema generale e a partire da un passo biblico appositamente scelto e da un sussidio elaborato congiuntamente, a partire dal 1968, dalla commissione Fede e costituzione del CEC (protestanti e ortodossi) e dal Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani (cattolici).
Il tema per la prossima Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani (18-25 gennaio 2024) prende ispirazione dal dialogo tra Gesù e il dottore della legge che nel Vangelo di Luca precede la parabola del buon samaritano: “Amerai il Signore Dio tuo e il prossimo tuo come te stesso” (Luca 10,37).
In diocesi cercheremo di vivere questo momento con la preghiera del vespro in Pieve a San Leo sabato 20 gennaio 2024 alle ore 20,30 alla presenza del Vescovo Andrea, del Pastore Valdese della Chiesa di Rimini e del Pope Ortodosso della Chiesa Ortodossa Rumena presente a San Marino.
Il Pastore Valdese Alessandro Esposito ci introdurrà in una riflessione sul magnificat.

Don Giuliano Boschetti

Omelia nella II domenica del Tempo Ordinario

Maciano (RN), 14 gennaio 2024

1Sam 3,3-10.19
Sal 39
1Cor 6,13-15.17-20
Gv 1,35-42

Questo brano mi rimanda al tempo della mia ricerca vocazionale; mi sono visto non solo nel discepolo Andrea, ma anche nel discepolo “innominato”: ogni lettore del Vangelo può rivedersi in lui. In questa pagina di Vangelo vediamo una raffica di sguardi, inseguimenti, inviti. Nella lettura liturgica ci siamo fermati al versetto 42, ma nei versetti seguenti c’è una sorta di reazione a catena: Andrea, Pietro e Giovanni vanno a raccontare l’incontro a Filippo; poi Filippo lo racconta a Natanaele…
Giovanni Battista, che ci ha accompagnato lungamente nel Tempo dell’Avvento, puntando il dito acclama: «Ecce, Agnus Dei», vedendo passare Gesù. Il suo sguardo su Gesù è profondo e intuitivo. Giovanni fissa Gesù Lo guarda, lo fissa e invita i suoi discepoli a seguirlo. Andrea e l’innominato sono della cerchia di Giovanni Battista, che ha trasmesso loro questa ansia di attesa del Messia.
Gesù si volta e volge il suo sguardo su di loro; altrettanto farà con Pietro e con Natanaele, che gli dirà: «Mi hai visto sotto il fico, ma io non ti ho visto…» (cfr. Gv 1,48). E Gesù concluderà dicendo: «Vedrai cose più grandi di queste» (Gv 1,50).
Dopo gli sguardi ci sono gli inseguimenti, con Gesù che passa. I discepoli vedono Gesù di spalle. Si può ricordare la pagina del libro dell’Esodo in cui Mosè implora: «Signore, che io possa vedere il tuo volto». Dio mette la mano davanti alla cavità della roccia dove si trova Mosè e Mosè può soltanto vedere il Signore di spalle: non si può vedere Dio e restare in vita. Invece, qui Gesù “si voltò”, “si è fatto volto” perché lo possano inseguire. Anche gli apostoli tra loro si inseguono in una sorta di staffetta attorno a Gesù.
Poi ci sono gli inviti: «Maestro, dove abiti?». «Venite e vedrete».
A proposito di Giovanni Battista si può notare il contrasto fra come lui presenta Gesù e come Gesù ama essere incontrato. C’è una leggera vena di ironia: le parole di Giovanni Battista rappresentano un fotogramma ad altissima definizione, che ritrae Gesù con termini biblici e teologici elevatissimi. Lo chiama “l’Agnello”. Probabilmente la parola “agnello” per noi non significa tantissimo; forse abbiamo fatto l’abitudine alle parole del sacerdote che, in vari momenti della Messa, evoca l’Agnello di Dio, ad esempio nel Gloria, o quando alza l’Ostia santa per la Comunione, quando si invoca tre volte “l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo”. La parola “agnello” ai contemporanei di Gesù ricordava la notte dell’esodo, quando Mosè aveva detto: «Uccidete un agnello e con il suo sangue segnate gli stipiti delle vostre case: quel sangue sarà sangue che salva, che mette al sicuro». I primi discepoli, quando sentono la parola agnello, pensano immediatamente all’agnello di cui scrive il profeta Isaia, l’agnello che prende sulle spalle le nostre iniquità, che viene trafitto a causa nostra, al posto nostro, e diventa l’agnello che redime (cfr. Is 53). Lo stesso tema è trattato nel libro del profeta Geremia: l’agnello mansueto, che viene condotto al macello (cfr. Ger 11,19). L’agnello era atteso per il momento definitivo, escatologico; sarebbe stato colui che avrebbe rinnovato il mondo: agnello vittorioso. Nell’Apocalisse la figura dell’agnello ritorna sedici o diciassette volte. Giovanni, nel suo Vangelo, vede in Gesù Crocifisso, nell’era in cui al tempio si sacrificavano gli agnelli, il vero Agnello immolato, a cui non è spezzato alcun osso (cfr. Es 12,46), secondo il rituale. Quello che ha detto il Battista è vero, va meditato, è importante per la formazione e il cammino di fede, ma Gesù si pone subito su un altro livello, quello dell’interpersonalità. Allora vengono fuori non soltanto gli scambi di sguardo, ma gli inviti: «Maestro, dove dimori?». “Dimorare” significa molto di più dell’indirizzo di casa, anche perché Gesù ha lasciato Nazaret e da quel momento è itinerante. «Dove dimori?», significa «dove sosti?», «dove dormi?», per dire l’amicizia che Gesù vuole creare con i suoi discepoli. E loro vanno dietro a lui.
A questo punto c’è una pausa, un silenzio: non ci viene detto nulla di quella giornata nella quale i due restano con Gesù: l’amicizia ha i suoi spazi e i suoi tempi di intimità. Siamo noi a dover occupare quello spazio, abitare quel silenzio.
La domanda di Gesù è: «Che cosa cercate?». Sapeva bene che cosa cercassero. Probabilmente i discepoli erano imbarazzati, avendo alle spalle il loro maestro, Giovanni Battista, mentre andavano ad incontrare un perfetto sconosciuto, presentato con parole così solenni e “ad alta definizione”. Gesù fa una domanda sui loro desideri e li conduce, per così dire, nel loro giardino interiore. Non è una domanda sui precetti, ma sul loro desiderio: parola ricca e densa di significato. Gesù vorrebbe che, fra i tanti desideri, facessero spazio dentro di loro per cogliere il Desiderio, perché lui è capace di colmarlo. “Desiderio” è parola latina composta dalla preposizione “de” e dalla parola “sidera” (le stelle). Questa parola nasce da un’intuizione ancestrale: l’uomo proviene dalle stelle, da cielo, è fatto di cielo. Ma sulla terra fa esperienza della lontananza. Da qui la tensione verso l’origine e l’infinito. Gesù si propone come colui che compie il nostro desiderio più profondo.
Dopo che sono stati una giornata con lui – «erano le quattro del pomeriggio (l’hanno ricordato per tutta la vita)» – si vede l’entusiasmo col quale i discepoli tornano da quell’incontro, ma anche il loro cambiamento. A Pietro, Gesù cambia addirittura il nome dopo averlo appena visto: «Tu non sei Simone, ma Pietro», che vuol dire “la pietra”, il fondamento della futura comunità.
Ricordo che ad un incontro col gruppo dei giovani universitari e lavoratori, a cui partecipavano anche ragazzi in ricerca, con vari desideri (tra cui anche quello di trovarsi la fidanzata!), un giovane affermava di essere “credente, ma non praticante” e un amico camerunese scoppiò a ridere. Non capiva come fosse possibile essere credenti e non praticanti (era diventato cristiano da adulto), cioè, essere cristiani ma non abitare con Gesù.
Quali sono i luoghi dove Gesù dimora?
Innanzitutto, come ho già detto, nel nostro giardino interiore. Un altro è nell’esperienza della famiglia e della comunità. Pensiamo al rapporto fra Maria e Giuseppe. Gesù lo dirà nel Vangelo: «Dove due o più sono uniti nel mio nome, io abito in mezzo a loro, “dormo” in mezzo a loro» (cfr. Mt 18,20). Gesù dimora nella nostra chiesa parrocchiale, casa tra le case dove il Signore ha posto il suo nome, dimora nel Tabernacolo dove lui rimane come presenza, azione e autodonazione. Ma c’è una dimora alla quale tutti dobbiamo puntare: è la dimora nella quale Gesù ha preparato dei “posti”. Abbiamo paura dell’ignoto, ma le parole di Gesù sono bellissime: «Vado a prepararvi un posto e quando sarò andato vi chiamerò e dimorerete con me insieme al Padre» (cfr. Gv 14,2-4). Che questa settimana torni spesso questo dialogo: «Maestro, dove abiti?». «Che cosa cerchi?». Alla fine del Vangelo di Giovanni vedremo che Gesù cambierà la domanda rivolgendosi alla Maddalena; non dirà più «che cosa cerchi?», ma «chi cerchi?».

Omelia nella Messa esequiale per don Marino Gatti

Mercatino Conca (PU), 27 dicembre 2023

1Gv 1,1-4
Sal 96
Gv 20,2-8

1.

Rinnovo le più sentite condoglianze a don Erminio e ai familiari di don Marino. Condoglianze che formulo anche ai parrocchiani di Mercatino Conca, di Montealtavelio e di Piandicastello per i legami di paternità e di figliolanza che li uniscono a don Marino.
Senza nulla togliere al dolore dei familiari e senza sottovalutare la nostalgia delle sue comunità, sento che la partenza di don Marino tocca profondamente il nostro presbiterio, la nostra famiglia sacerdotale. Sì, il presbiterio è davvero la nostra famiglia. Don Marino è uno della famiglia che ci ha lasciato, improvvisamente e in punta di piedi. Ci siamo salutati e abbracciati, ma non sapevamo che sarebbe stata l’ultima volta, a fine novembre, durante il corso di Esercizi Spirituali a Ginestreto (PU). Mai avrei pensato che don Marino potesse partecipare, date le sue condizioni già precarie; invece, insieme a don Erminio, è venuto in mezzo a noi portando tanta gioia e contentezza. Dunque, un prete fedele anche agli appuntamenti di famiglia: così si costruisce la famiglia, anche con la presenza… il resto sono chiacchiere!
Momenti come questo, benché mesti, hanno l’effetto di fonderci ancora di più tra noi presbiteri. Al di là delle differenze di età, di formazione, di provenienza, riscopriamo il legame umano e soprannaturale che ci unisce in virtù del sacramento dell’Ordine, in virtù del comune amore sponsale al Signore Gesù che ci ha sedotti (e noi ci siam lasciati sedurre) e in virtù della dedicazione della nostra vita al servizio del Vangelo, dell’Eucaristia e del ministero della Riconciliazione. Ho sentito da molti confratelli che, durante il periodo natalizio, tanti sono andati a rinnovare il sacramento della Riconciliazione. Non abbiate paura ad andare a questo sacramento: la cosa principale non è l’elenco dei peccati che confessiamo (il Signore li sa già, sa anche quelli che non sappiamo), ma è bello professare la sua misericordia, sentirsi amati.
Come vorrei che quanti hanno apprezzato e amato don Marino – soprattutto giovani – si ponessero con verità la domanda: «Signore, io come posso servirti?». E chi sente la vocazione al sacerdozio rispondesse “sì”, con generosità e coraggio, e che tutti sentissimo quanto è necessario, utile e bello il ministero sacerdotale. Sono da lodare la dedizione del volontario, la dedizione al servizio dei poveri e alla promozione umana, ma chi pensa all’anima, chi pensa alle anime? Chi si fa prete e abbraccia, per amore, il sacro celibato non è solo… ha una famiglia, ha e riceve tanto amore, vive paternità vera e gode dell’affetto filiale. Sentite quale rapporto univa sant’Agostino alla sua comunità, in una testimonianza scritta alla morte di un amico: «E poi – scrive – c’erano altre cose che avvincevano il mio animo: le conversazioni e le risate insieme, lo scambio di affettuose gentilezze, la lettura in comune di libri piacevoli, fare insieme cose ora insignificanti ora importanti, contrasti passeggeri, senza rancore, come succede ad ogni uomo anche con se stesso, e con quei contrasti, peraltro così rari, rendere più gustosa l’abituale concordanza di vedute; insegnarci cose nuove a vicenda, sentire acutamente la nostalgia per gli assenti e accoglierli con gioia al loro ritorno: questi e altri simili segni, sgorganti da cuori che amano e si sentono riamati, ed espressi col contegno, con le parole, con lo sguardo e con mille graditissimi gesti, fondono insieme come fiamma gli animi e di molti ne fanno uno solo» (Sant’Agostino, Confessioni, IV,8).

2.

Quella di don Marino è stata un’esistenza missionaria. Rivolgo il mio sguardo, per quanto possibile, ad una vita come la sua nella quale si intrecciano iniziativa di Dio e corrispondenza umana, uno sguardo su un’esistenza veramente presbiterale con i suoi aspetti e le tappe caratteristiche. Nel Vangelo si dice di Gesù che la sua missione era di andare di villaggio in villaggio ad annunziare il Regno e a fare del bene (cfr. Mc 1,32; 6,6; At 10,38). E un prete è inviato, come Gesù, a passare da un luogo all’altro, da una comunità all’altra per permettere così a Gesù di continuare nel tempo il suo ministero.
Don Marino è membro della comunità Papa Giovanni XXIII; a Pietracuta apre una Casa famiglia e diventa sacerdote-padre affidatario; è fra coloro che aprono il centro diurno “Il nodo”. Il mondo diventa la sua “famiglia” con il servizio per sei anni in Mozambico. Rientrato in Diocesi è per decenni responsabile del Centro Missionario Diocesano. I campi di raccolta in Diocesi e i campi di un mese all’estero diventano appuntamento fisso per molti ragazzi e ragazze che negli anni, con don Marino, condividono lo spirito missionario. È parroco dal 1993 a Mercatino Conca, Piandicastello e Montealtavelio. A Mercatino, con don Oreste, vuole la Casa della Pace: giovani che rientrano dalle missioni per “contaminare” questa valle e farla crescere con le loro esperienze. Accoglienza, sorriso, determinazione, a volte anche cocciutaggine – sempre elegante – sono i tratti che hanno caratterizzato il suo servizio pastorale. Era fiero di mostrare nel suo studio i cimeli africani (pelle di serpente compresa, appesa alla parete), donati poi alla Diocesi per l’Ufficio missionario. È stato insegnante di religione nelle scuole medie fino alla pensione, con un occhio speciale ai giovani: “I giovani Valconca” (fiore all’occhiello della vallata). Sempre partecipe alle vicende lieti e tristi dei parrocchiani. «Che bello!»: suo modo frequente di intercalare.

3.

La liturgia della Parola ci fa meditare rispettivamente sull’incipit della “Lettera dell’Amore” – così viene chiamata la Prima Lettera di Giovanni – e sul Vangelo della risurrezione. Potevano esserci letture più appropriate?
Il Vangelo ci riporta alle prime luci dell’alba della Pasqua: Maria di Magdala, Pietro e Giovanni corrono al sepolcro e dal sepolcro, di ritorno, corrono per annunciare – dopo aver verificato la tomba vuota e i lini e il sudario accuratamente deposti – che Gesù è vivo! Lo annunciano per fede, con la fede, nella fede. Quale altro messaggio importa annunciare se non questo: ci riguarda, ci dà speranza, plasma la vita di noi “vivi tornati dai morti” (così san Paolo chiamava i cristiani nella Lettera ai Romani: Rom 6,13).
Permettete citi un detto ferrarese che i nostri vecchi assicurano d’aver sentito, a loro volta, dai loro vecchi. È un detto ironico, ma anche vero: “I preti cantano sul morto”. All’epoca i funerali erano una risorsa per i poveri preti di campagna, questa l’ironia (cantano perché guadagnano qualcosa). In verità, erano, sono, siamo annunciatori della risurrezione: abbiamo il coraggio di cantare in barba alla morte. Se togliete questo annuncio alla nostra predicazione, togliete tutto. Il resto è buona educazione o cortesia.
Qualcuno potrebbe pensare che da duemila anni non è cambiato granché sulla faccia della terra: Cristo non ha salvato nessuno, la risurrezione è un mito senza altro fondamento che la speranza umana di sopravvivere alla morte, si continua a peccare. È vero, il Signore non ha eliminato la morte, neppure il peccato, neppure la sofferenza. Ma, entrando fino in fondo nel dolore, nella disperazione e nell’annientamento, ha inaugurato un altro modo di attraversarli: l’ha fatto continuando a fidarsi del bene che era presente nella croce. È risorto perché ha creduto nella presenza del Padre, persino nel momento in cui sembrava assente: «Chi non ama rimane nella morte». «Passiamo da morte a vita amando i fratelli» (cfr. 1Gv 3,14). «Quello che abbiamo veduto e udito noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. E la nostra comunione è con il Padre e con il Figlio suo, Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo perché la vostra gioia sia piena» (1Gv 1,4). Così sia!

Omelia nella Festa del Battesimo di Gesù

Pennabilli (RN), Monastero Agostiniane, 7 gennaio 2024

Is 55,1-11
Da Is 12
1Gv 5,1-9
Mc 1,7-11

Ancora luce! Dopo la luce di Betlemme, che ha illuminato quella grotta, dopo la luce universale dei magi, che vanno a portare l’omaggio dei popoli, la luce del pieno giorno, Battesimo del Signore, quando Gesù viene ad inaugurare la sua missione. È un momento di grande solennità: siamo di fronte al mistero del Battesimo del Signore.
Di solito, nelle parrocchie, si festeggiano i Battesimi, ma non bisogna distrarsi dalla festa del Battesimo di Gesù, che rimane un grande mistero. “Mistero”, parola da ben comprendere. Ad esempio, quando si prega il Santo Rosario, si meditano i cosiddetti “misteri”, cioè i fatti della vita del Signore. Nel linguaggio comune la parola “mistero” richiama qualcosa di oscuro o di strano; invece, i fatti della vita di Gesù si chiamano “misteri” per indicare che non si tratta semplicemente di “cronaca” (il Battesimo di Gesù è raccontato da tutt’e quattro i Vangeli): lì accadde qualcosa di misterioso, cioè carico di luce. La parola “mistero” deriva dal verbo greco “myein” che indica il silenzio che si impone davanti a qualcosa di spettacolare, che riempie di meraviglia, per cui le parole sono inadeguate a tradurlo, come quando siamo davanti al sole e ci viene da chiudere gli occhi. Davanti ai fatti della vita del Signore siamo rapiti in qualcosa di sorprendente.
«Gesù venne da Nazaret…». Viene a fare la fila con noi peccatori. Lui non aveva bisogno del Battesimo, semmai è il battesimo di Giovanni che aveva bisogno di Gesù per rendere quelle acque capaci di rigenerazione. Gesù, il Figlio di Dio, va al fiume e si mette in fila per essere “immerso nell’acqua”. Ma l’evangelista Marco passa subito al secondo movimento, la risalita dall’acqua. In quel momento si compie quella che era l’invocazione dell’umanità e di ogni cuore, espressa dal profeta Isaia: «Oh, se tu squarciassi i cieli e scendessi…» (cfr. Is 63,19). L’umanità si arrampica per avere un contatto con la divinità. Basti pensare al percorso dei popoli antichi, prima di Gesù, alla grande filosofia, alla metafisica. I Cieli rispondono all’invocazione e si aprono, ma non c’è nessun fenomeno particolare, nessun sole che danza nel cielo: è linguaggio apocalittico, simbolico, per dire il mistero straordinario, luminosissimo, del Dio che viene. Il Natale nell’oggi della liturgia – che è poesia e contemplazione – si espande nell’epifania, nel battesimo al Giordano e nelle nozze di Cana: tre fatti di manifestazione, di epifania, di teofania (Dio che si rivela). L’evangelista Giovanni indica tre segni: i cieli che si aprono, compiendo l’attesa, la profezia; lo Spirito che da questo grembo squarciato viene effuso e avvolge la persona di Gesù, riconosciuto come Messia (la colomba ricorda un altro battesimo, il diluvio universale); la voce, che ripete un versetto di Is 42: «Tu sei il figlio mio…», che si può tradurre anche con «tu sei il mio servo» (la parola è la stessa nella lingua di Isaia). Gesù, dunque, viene caricato di una missione. «Tu sei l’amato…». «In te ho posto il mio compiacimento»: tu sei la mia gioia. Qui viene preannunciato, nel linguaggio narrativo, il grande mistero che è il cuore della nostra fede cristiana, la Trinità, Dio Amore, Trinità di Persone. Ricordo che, ad un incontro, un grande biblista francese ci parlò dei quattro modi di leggere le divine Scritture. Il primo corrisponde all’infanzia, quando leggiamo le Scritture fermandoci alle rappresentazioni e alla fantasia. Poi c’è il modo adolescenziale di leggere le Scritture, con la preoccupazione storico-critica. Il terzo modo è quello degli adulti, che leggono il Vangelo e si chiedono: «Che me ne viene? Cosa devo fare?», una richiesta di attualizzazione. Infine, la lettura del saggio, dell’adultissimo, che è una lettura contemplativa: egli guarda, contempla, si lascia coinvolgere. Con l’immagine della Prima Lettura, penso la Parola di Dio come l’acqua del fiume che scorre, scende, penetra il terreno e porta frutti, vita.
È cosa buona, utile e necessaria pensare, oggi, al nostro Battesimo, ma siamo rapiti dalla luce del Battesimo del Signore. Splendore!