Discorso nel conferimento della cura pastorale dell’unità pastorale di Novafeltria a don Simone Tintoni e a don Jean-Florent Angolafale

Novafeltria (RN), 30 ottobre 2022

1.

Un inizio. Come ad ogni inizio c’è curiosità, trepidazione e gioia (come quando si apre un regalo: cosa ci sarà dentro?). Inizia un nuovo assetto pastorale. A don Simone Tintoni, don Jean-Florent Angolafale e al diacono Vittorio Fiumana sono affidate le parrocchie di Novafeltria, Talamello, Torricella e Sartiano. Don Simone e don Jean-Florent sono parroci insieme. A don Simone viene dato l’incarico di moderatore dell’unità pastorale. A Vittorio è chiesta la disponibilità alla diaconia. Si tratta di un primo passo verso quella conversione pastorale tanto auspicata da papa Francesco e segnalata anche nei nostri dialoghi sinodali; realtà che non riguarda solamente rapporti fra i presbiteri – rapporti di fraternità, di lavoro insieme, di complementarità –, ma anche fra i presbiteri e i laici e dei laici fra loro, di una comunità e dell’altra, tutti fratelli, tutti discepoli di Gesù, tutti desiderosi di essere missionari. Viene chiesta apertura di cuore e di mente per impegnarsi con viva corresponsabilità. A tutti viene chiesto di superare attaccamenti alle proprie abitudini (non oso immaginare ci siano campanilismi; nel caso ci fossero bisogna che ci educhiamo gli uni gli altri). Ho usato la parola “apertura” almeno in tre sensi. 1. Apertura reale e sincera a ciò che lo Spirito Santo vuol dire oggi alla Chiesa. Siamo tutti scolari, alunni, discepoli, tutti bisognosi di imparare. 2. Apertura delle realtà ecclesiali le une verso le altre e ciascuna verso l’intera Chiesa, sotto la guida del Pietro di oggi, che è il Santo Padre papa Francesco e, nella nostra Diocesi, del Vescovo. 3. Apertura a nuove forme di ministerialità che riguardano i fratelli, gli uomini, e le sorelle, le donne. A partire dal prossimo anno, potranno accedere ai ministeri istituiti anche le donne. Oltre al ministero del lettorato, dell’accolitato e del catechista, il Signore susciterà certamente altri ministeri in una Chiesa che vuole essere comunione e missione.
Nel nuovo inizio c’è una certa continuità: non si parte da zero! Abbiamo una tradizione ricchissima; spesso non ci rendiamo conto di cosa vuol dire avere alle spalle duemila anni di cristianesimo: chi viene da paesi in cui la Chiesa è giovane se ne accorge maggiormente. Non immaginate chissà quale terremoto con questo nuovo assetto. Però c’è anche una discontinuità: ci troviamo davanti ad una pagina bianca da scrivere, disegnare, colorare; cose forse già vissute, ma da adesso in poi da vedere e da considerare con occhi nuovi.

2.

L’inizio è anzitutto una grazia, perché sollecita creatività e mobilita nuove energie. Per il credente è sempre accompagnata da un collegamento alle parole che aprono la Sacra Scrittura: «Bereshît bara’ Elohîm (All’inizio Dio creò)» (Gn 1,1). Il verbo bara’ dice l’iniziativa salvifica di Dio che continua nella storia. Dio è fuori dal tempo. Quando Dio decide, fa, pensa, crea, permane in quell’atteggiamento; non ci sono passato, presente, futuro: è tutto presente. C’è il medesimo progetto d’amore, sotteso a tutto l’arco dell’azione divina, dall’inizio alla fine. Quel verbo, bara’, non indica soltanto l’azione potente del Creatore sul cosmo, ma l’intera sua presenza che abbraccia la storia, quella grande e quella piccola, quella personale e quella di ciascuno di noi. Ci sarà una lunga serie di avvenimenti, di creazione, di liberazione, di nuovi inizi che la Bibbia ci fa conoscere e lo fa per educarci a vedere come Dio sia sempre all’opera nelle nostre esistenze e come ogni inizio sia sotto la sua volontà di benedizione. Di per sé ogni giorno, ogni ora, ogni iniziativa partecipa di quell’inizio. «All’inizio» devi pensare al per sempre, il per sempre dell’amore di Dio e della sua fedeltà.

3.

Mi sono riferito al primo versetto della Genesi; ora, per parlare dell’inizio, consentitemi di fare una breve incursione nel Secondo Libro dei Re. Gerusalemme era diventata infedele verso il Signore, aveva abbandonato il suo Dio, aveva amoreggiato con gli idoli dei pagani e col loro stile di vita; anche il tempio era andato in decadenza. Il Signore Dio suscita un santo re, di nome Giosia. Siamo nel VII secolo a.C. Il re Giosia pensa sia il momento di rimettere le cose a posto. Da dove partire? Dal tempio. Allora, chiama un’impresa edile, un’azienda di pulizie, degli artisti, affinché il tempio torni al suo primitivo splendore. Quella che sto raccontando, in fondo, è un’allegoria di oggi. Alcuni fervorosi nel fare le pulizie (come le signore che rendono così bella questa chiesa) trovano nei ripostigli del tempio dei rotoli, un po’ malmessi. Svolgendoli si accorgono che vi sono scritte le parole di Dio e che forse si tratta dei rotoli dell’Alleanza, che narrano il patto che il Signore ha stipulato con Mosè sul monte Sinai. Vanno da un esperto, lo scriba Safan. Egli riscontra che si tratta del libro della Legge… dimenticato per anni nel Tempio! Vanno a dirlo al re Giosia, che dopo averlo fatto leggere dalla profetessa Culda, si straccia le vesti, chiede perdono a Dio e proclama una grande convocazione di popolo. Non basterà la giornata perché vengano letti ad alta voce i libri dell’Alleanza. Quella liturgia solenne si trasforma in una grande festa che dura giorni interi: la riscoperta della Parola di Dio (cfr. 2Re 22, 8-11). Non sarà per caso che al fondo della crisi di oggi nelle parrocchie ci sia il fatto che la Parola di Dio è caduta nel dimenticatoio? Guai! Se è così, abbiamo bisogno di un nuovo inizio.

4.

Faccio riferimento anche ad un’altra pagina della Sacra Scrittura, presa dal Libro del Profeta Geremia, un profeta a cui è capitato di vivere in un tempo terrificante: Geremia, infatti, deve assistere alla distruzione di Gerusalemme, la città santa. Il Tempio, che era stato in parte recuperato dal santo re Giosia, di nuovo ritorna in macerie. La dinastia davidica viene interrotta; sono deportati a Babilonia il re, la regina, i figli e tutti i notabili del popolo, insieme a tanta gente. I sacerdoti non compiono più liturgie, niente più incensi. Il Signore manda il profeta Geremia a portare una lettera ai deportati, una lettera che sembra scritta oggi da un vescovo nel “tempo della crisi”: secolarizzazione, scandali nella Chiesa, abbandono della pratica religiosa, calo delle vocazioni e poi la pandemia, ora la guerra. La lettera del profeta Geremia dice come vivere il tempo della crisi. La crisi può essere un tempo utile e necessario per il cambiamento. «Così dice il Signore degli eserciti, Dio d’Israele, a tutti gli esuli che ho fatto deportare da Gerusalemme a Babilonia…» (Ger 29,4). A deportare non è stato Nabucodonosor? Sì, per le cronache e per i libri di storia, ma quello che è accaduto è accaduto perché il Signore lo ha permesso: l’ha voluto per purificare il suo popolo; infatti, il Signore aggiunge: «Costruite case, abitatele (non vivete da barboni sotto i ponti perché siete a Babilonia in un paese straniero), piantate orti, mangiatene i frutti; prendete mogli, mettete al mondo figli. Lì moltiplicatevi e non diminuite. Cercate il benessere nel paese in cui vi ho fatto deportare e pregate per esso il Signore» (Ger 29,5-7).  Il Signore fa capire che il tempo della crisi può essere un tempo davvero di nuovo inizio. E così accade. È stato abbattuto il Tempio, ma i credenti hanno cominciato ad incontrarsi nelle sinagoghe, in piccoli spazi, quasi un raduno di famiglia, dove si leggono le Scritture (i famosi rotoli). Cominciano a comprendere che Dio non è soltanto il Dio d’Israele, di Gerusalemme, ma il Signore di tutto il mondo: emerge la dimensione universale del monoteismo. È come se Dio dicesse inoltre: «In questo tempo di crisi datevi da fare: famiglia, lavoro, impegno sociale…». Non è un’allusione all’impegno dei laici nel quotidiano? Non ci sono più sacerdoti al Tempio, nascono i rabbini, nuove forme di ministerialità. Poi c’è la parola conclusiva: «Quando saranno compiuti a Babilonia settant’anni, vi visiterò e realizzerò la mia buona promessa di ricondurvi in questo luogo. […] Mi cercherete e mi troverete, perché mi cercherete con tutto il cuore; mi lascerò trovare da voi» (Ger 29,10.13). Dunque, con l’esperienza dell’“inizio” consideriamo la fedeltà di Dio; partiamo dalla riscoperta del Vangelo; ritroviamo forza per affrontare la crisi, tempo che il Signore vuole per la nostra maturazione. Così sia.

Discorso nel conferimento della cura pastorale della parrocchia di Serravalle a don Pier Luigi Bondioni

Serravalle (RSM), 23 ottobre 2022

C’è gioia e c’è attesa per questo nuovo inizio. Ma soprattutto vince la carità reciproca che è il segno unitivo e distintivo dei discepoli del Signore. «Dove due o più sono uniti nel mio nome – dice Gesù – io sono presente in mezzo a loro» (Mt 18,20). E noi ne godiamo. «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35). «Come io e il Padre siamo una cosa sola, così anche voi uniti perché il mondo creda» (cfr. Gv 17,21). Questa è la prima e fondamentale testimonianza che evangelizza e ognuno di noi si mette in gioco. Questa è la nostra carta d’identità. Siamo un popolo messianico che ha per capo Cristo, come statuto la dignità e la libertà dei figli di Dio, la sua legge è il comandamento nuovo di amarci, come lui ci ha amato. Il suo fine, il fine di questo popolo, è il regno di Dio, iniziato sulla terra da Dio stesso, ma destinato a dilatarsi sempre di più (cfr. Concilio Vaticano II, Lumen gentium, n. 9). Questo amore deve essere aperto alle persone che vivono in questo territorio, soprattutto ai più fragili, a chi soffre, a chi non trova ragioni per vivere.
Mi piace rivisitare quello che è il nostro luminoso cammino attraverso le parole di un’altra pagina del Vaticano II: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini di oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore» (Concilio Vaticano II, Gaudium et spes, n.1).
Davanti a me, in questo momento, è riunita una comunità parrocchiale desiderosa di proseguire il suo cammino con nuovo slancio; una comunità che – ripeto – vuole aprirsi al territorio, consapevole di avere una missione da portare a servizio di tutti.
Rivolgo un saluto particolare alla mamma di don Pierluigi e ai suoi familiari, ma soprattutto a don Pierluigi. Viene da Pennabilli, dalla parrocchia della Cattedrale, una realtà significativa, dove ha dato se stesso ed è stato riamato, dove ha imparato le sorprese della relazione umana, caratteristica del pastore. Ora si allargano per lui gli spazi della carità pastorale su una realtà più grande (Serravalle è cinque volte più grande di Pennabilli), sicuramente più impegnativa, ma più giovane, socialmente più ricca, anche se complessa. Caro don Pierluigi, hai davanti un vasto campo di apostolato. D’altra parte, conosci già tanti amici e amiche di questa comunità, guardali con occhi nuovi, ora sicuramente con occhi e cuore più maturi. Don Pierluigi conosce bene la storia di Serravalle, le sue vicende passate e vicine, e riceve un’eredità ricca di passione pastorale – penso a don Peppino – e ricca di spiritualità – penso a don Simone. Con questi sacerdoti tanti laici si sono spesi, e lo faranno ancora, impegnando cuore, volontà, braccia, soprattutto per la gioventù, per l’educazione, per il sociale, per le attività più svariate (centro sociale sant’Andrea, coro, circolo anziani, associazioni, gruppi, realtà sportive, Colonia La Verna, ecc.).
Don Pierluigi sale su un treno ben avviato. Il nuovo inizio è anche una grazia di rinnovamento. Come ci ricorda spesso papa Francesco, bisogna andare oltre il “si è sempre fatto così” e rinnovarsi. Aiuterà sicuramente l’esperienza, ben avviata a Serravalle, del Cammino Sinodale, da riprendere appena possibile; un cammino fatto di ascolto sincero, aperto, senza repliche, di corresponsabilità, lettura della realtà, da cui arrivare alle decisioni da prendere insieme, con laici attivi, consapevoli del loro Battesimo. Qui, don Pierluigi, hai un grande tesoro, un grande dono: la presenza delle suore.
Permettimi qualche indicazione per il tuo ministero. Essere costituito parroco in questa comunità non deve farti perdere di vista la Diocesi come grembo; non deve allentarsi il legame con il presbiterio, di cui fai parte per vincolo sacramentale. Sei a Serravalle perché accompagnato e introdotto dal Vescovo. Il tempo che dedicherai agli incontri con i confratelli e con il Vescovo non è rubato alla parrocchia, ma è un accumulo di grazia: le mattine di spiritualità, l’aggiornamento, gli esercizi spirituali e tutte le altre convocazioni. Ritorna a quell’unico cuore da cui partono i sacerdoti e dal quale sono nutriti per trasmettere la comunione ecclesiale.
Permettimi anche una confidenza, dopo cinquant’anni di sacerdozio. Ho ricevuto categorie teologiche, sempre valide, universali, ma in me hanno avuto una sorta di evoluzione negli anni. Si diceva, con una certa enfasi, sacerdos alter Christus; in cima al regolamento del Seminario leggevo: Tu autem homo Dei. Teologie da capogiro, a ben pensarci! E poi “sacerdote come dispensatore dei divini misteri” e si studiava la teologia dei poteri del presbitero, tria munera. Ma si trattava di una teologia che doveva necessariamente aprirsi ad altri orizzonti. Del resto, non è sacerdote ognuno di voi secondo il Battesimo? Non offrite ogni giorno la vostra vita a Dio? Il matrimonio non è forse una forma sublime di esercizio del sacerdozio regale, perché dono di sé senza misura? Il sacerdozio ministeriale, quello del prete, è a servizio del sacerdozio regale, battesimale. Il sacerdozio è da vivere per il proprio popolo, alla maniera di Gesù che offre la sua vita, mette a disposizione le sue mani, il suo cuore, fa di se stesso un dono. Allora i tre doni – insegnare, guidare, santificare – diventano più comprensibili dentro una comunità. A chi insegno, chi guido, chi santifico, se non una comunità? Quando un presbitero celebra Messa, solo lui può dire le parole: «Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue», ma alla fine c’è l’Amen dell’assemblea, che conferma con la sua fede. Dopo cinquant’anni di sacerdozio posso dire che sono stato generato dalla mia gente, senza nulla togliere all’imposizione delle mani, al sacramento dell’Ordine Sacro. Le persone mi hanno insegnato come si fa il prete, con le loro domande, a volte provocatorie, con le loro richieste, con le loro proposte. E anche il sacro celibato, custodito gelosamente, l’ho compreso sempre più come misura dell’amore pastorale, affetti ricevuti e affetti ricambiati.
Caro don Pierluigi, ti chiedo un’attenzione speciale per la famiglia, primo nucleo della comunità, come la chiama il Concilio, «piccola chiesa domestica» (cfr. Concilio Vaticano II, Lumen gentium, n. 11; Apostolicam Actuositatem, n. 11). Vicinanza alla famiglia nel suo nascere, cura dei fidanzati e prima ancora dei giovani e della loro educazione affettiva (ti chiedo la presenza nei percorsi prematrimoniali che si tengono in San Marino). Vicinanza nella celebrazione del sacramento del matrimonio, ricordandone l’efficacia per la vita e per la missione degli sposi; poi nell’accompagnamento di genitori e figli all’iniziazione cristiana. Presenza nei momenti del dolore, quando in famiglia fanno la loro comparsa la malattia, la sofferenza, la solitudine, il lutto. Presenza nelle situazioni di crisi, nell’incontro con le famiglie “ferite” (in questa comunità è stata avviata una bella esperienza di accoglienza, di accompagnamento e di incoraggiamento alla partecipazione alla vita piena della comunità; ti prego di avere un’attenzione specialissima per questa realtà).
Poi una confidenza personale, avendoti conosciuto da vicino: non avere paura di aprire il tuo cuore, non temere neppure per i tuoi limiti; quando saprai accettarli e manifestarli, sarà il momento in cui ti sentirai ancora più accolto, più amato. Crescerai con la comunità che stai sposando e la comunità crescerà con te. Autenticità: mi sembra la parola più adatta e sintetica.
Infine, vorrei potessi esprimere anche qui il tuo amore per la santa liturgia, per l’altare, come maestro di preghiera. Il Vangelo che tra poco il diacono proclamerà si apre e si chiude con due verbi di moto: moto a luogo – si parla di una salita al tempio – e moto da luogo, il ritorno dal tempio; in mezzo lo spazio della preghiera come un dono, non come cerimonia, ma come incontro col Signore. Se umilmente lasciamo fare a Dio, scenderemo giustificati, come dice il Vangelo. Giustificati significa luminosi, come Mosè che scende dal monte col viso raggiante. Lo auguro a te che presiedi l’assemblea, lo auguro ai fedeli che proclamano con l’Amen il loro sacerdozio battesimale. Auguri!

Omelia nella XXIX domenica del Tempo Ordinario

Pennabilli (RN), Santuario B.V. delle Grazie, 16 ottobre 2022

Es 17,8-13
Sal 120
2Tm 3,14-4,2
Lc 18,1-8

Per due settimane avremo come tematica e come proposta di vita la cura della preghiera. Gesù, nel bel mezzo di un discorso escatologico (discorso sulle “cose ultime”, là dove arriva il disegno di Dio), inserisce una catechesi sulla preghiera: «Dovete pregare sempre senza stancarvi». Poi fa un discorso che può essere interpretato secondo due prospettive, una più ampia e una più intima, personale. La prima prospettiva è la seguente. I cristiani dicono: «Il Signore è venuto! È la parusia: con Gesù Risorto tutto è compiuto, ma non ancora completamente manifestato. Il Signore ritornerà». Sono già passati tanti anni – forse cinquant’anni quando Luca scrive – ma il ritorno di Gesù, lo splendore della sua regalità, ancora non si vede. Molti discepoli cominciano a stancarsi, a perdere la tensione verso Gesù. Anche le loro preghiere, un tempo fervorose, si “spengono” pian piano. Sono in difficoltà a causa del “ritardo del Signore”. Allora Luca racconta una parabola di Gesù che viene a proposito. I protagonisti sono due: un giudice di iniquità, che non ascolta, non prende sul serio le cause dei poveri, e una vedova che insiste per ottenere giustizia (Luca parla spesso delle vedove nel suo Vangelo). La bellezza dell’azione della vedova è che non molla, non lascia nulla di intentato, fino al punto che il giudice dice tra sé: «Questa vedova mi sta estenuando; non m’importa nulla di lei, ho già i miei clienti che pagano bene… ma se non le do retta mi fa un occhio nero (questa la traduzione letterale dal greco)». Con questa parabola è come se Gesù dicesse: «Siete una comunità affannata, che subisce le persecuzioni, con tanti problemi, vi potrebbe succedere di perdere l’entusiasmo. Invece, dovete avere fiducia, perché se un giudice di iniquità ha esaudito la povera vedova, figuriamoci se Dio non vi viene incontro e non lo fa prontamente». Il messaggio è per quella situazione, ma anche per noi oggi; anche noi viviamo situazioni di limite e di prova, sia a livello mondiale che nazionale, sia anche nell’esperienza di Chiesa: non dobbiamo perdere l’entusiasmo. Gesù vede, ascolta, sa. Se ascolta il giudice di iniquità, figuriamoci se non ascolta Lui!
Il secondo messaggio, più personale, di Gesù, tiene conto del contesto escatologico, in cui Dio è giudice, ma non un giudice di iniquità. Gesù vuole, se ce ne fosse bisogno, scalzare questa idea di Dio che tante volte abbiamo dentro di noi, l’idea di un Dio-giudice che non ascolta, che è più propenso verso chi è ricco piuttosto che alla povera vedova, un Dio severo, lontano, che si disinteressa al nostro grido. Qualche volta questo è il nostro pensiero su Dio, forse per l’educazione ricevuta. La condizione della vedova è anche la nostra: siamo tutti, in qualche modo, nella vedovanza. La vedova è una che ha perso la ragione della sua vita, la bellezza della sua esistenza. Allora Gesù dice: «Ricordatevi bene che io non sono quel giudice che forse immaginate; al contrario io vado di corsa verso di voi per soccorrervi; vi sono vicino». Torna il grande discorso della preghiera: «Non stancatevi di pregare, pregate sempre senza cessare…». Ciò sembra in contraddizione col Vangelo di Matteo in cui è scritto: «Non sprecate parole quando pregate, non fate come i pagani…» (cfr. Mt 6,7). Gesù intende dire che la preghiera continua è vivere alla sua presenza. Abbiamo la grazia di poter vivere questa dimensione della preghiera praticando “la Parola di vita”. Abbiamo bisogno di alfabetizzarci con la Parola, anche prendendo una frase alla volta: «Ogni scrittura è divinamente ispirata» (2Tm 3,16), è Dio che parla.
Concludo con un racconto dei padri del deserto. Un discepolo va dal maestro di preghiera e gli chiede: «Insegnami a pregare. Come faccio per raggiungere il vero raccoglimento?». Il maestro risponde: «Vedi queste montagne. Dove si raccolgono le acque? Giù in valle, nel profondo. Quindi ti dico di andare in profondità». Il discepolo obietta che ha saputo di un suo compagno che ha posto la stessa domanda e il maestro gli ha risposto che doveva salire sul monte, andare in alto, nella solitudine e negli spazi infiniti. «Allora devo andare in profondità o in alto?», replica il discepolo. Il maestro lo guarda e dice: «C’è un luogo dove la profondità e l’altezza si combinano? È il momento presente». Nel momento presente vai in profondità e c’è il raccoglimento totale; nello stesso tempo il momento presente è la vetta; è proprio lì, nel momento presente, che devi essere una cosa sola col tuo Signore: vivere il Vangelo nel momento presente.

Roverino CUP Diocesi

La “Roverino Diocesi Cup” è ormai diventata un appuntamento fisso ed è segnata col cerchietto rosso da parte di tutti i giovani del nostro territorio, che non vedono l’ora di passare un pomeriggio di festa ed amicizia, senza però rinunciare a quel sano agonismo necessario ogni volta che si partecipa a questo evento, con tutte le squadre che puntano a portarsi a casa l’agognata coppa da mettere in bella mostra nella propria saletta parrocchiale.

Quest’anno la data prescelta dalla Pastorale Giovanile, che cura l’organizzazione della giornata, è il 16 ottobre e dopo che l’anno scorso la competizione si è tenuta in Repubblica (per la precisione a Murata, nella sede dei Salesiani) quest’anno sarà nella Valmarecchia, al “Torricella Stadium”. Per chi non avesse mai sentito parlare di Roverino, è un gioco nel quale i componenti di una squadra hanno l’obiettivo di passarsi una corda chiusa a cerchio e lanciarla affinché si infili in un bastone, tenuto in mano da un compagno posizionato nell’area situata alla fine del campo avversario. Ovviamente, al termine del tempo stabilito chi ha più punti vince la partita.

Le sfide sono molto sentite, dato che si “accende” molto campanilismo grazie al fatto che ogni Parrocchia può schierare la propria squadra (anche di più per quelle realtà che hanno al proprio interno più gruppi giovanili: ad esempio Novafeltria si presenta solitamente con la squadra dell’Azione Cattolica e quella degli Scout). La competizione rende frizzante la giornata tra incontri all’ultimo lancio e spareggi finali. Il tutto si conclude con la consegna del roverino d’oro al giocatore che più si è distinto durante le partite.

Come in tutti gli incontri organizzati dalla Pastorale Giovanile al centro però c’è la voglia di incontrarsi, di divertirsi insieme e riconoscersi fratelli nella fede, abbattendo la distanza geografica e le diversità date dal gruppo di appartenenza: quale modo migliore se non giocando insieme?!

Anche quest’anno non esitate a creare la vostra squadra, indossare una maglietta colorata per distinguervi e dare il via al gioco, in ogni caso la merenda è assicurata!

Simon Pietro Tura

Nel X anniversario di don Agostino Gasperoni

Il 12 marzo 2012 don Agostino Gasperoni entrava nel definitivo di Dio, dopo un lungo percorso di malattia vissuto con fede e speranza. Presbitero della Chiesa di San Marino-Montefeltro, parroco della parrocchia di Santa Maria Maddalena e docente di Sacra Scrittura presso l’Istituto Teologico Marchigiano e l’ISSR “A. Marvelli”, ha acceso un debito grande di riconoscenza presso la nostra comunità accademica-formativa.

Tra i suoi primi fondatori e sostenitori, ha ricoperto presso l’Istituto “A. Marvelli” anche ruoli direttivi per diversi anni, diventando una delle “colonne” portanti della sua architettura. Per oltre trent’anni don Agostino ha servito con impareggiabile dedizione e fedele premura questo piccolo “vivaio” della formazione teologica e spirituale delle nostre Chiese. È stato davvero decisivo ed esemplare il contributo da lui offerto alla crescita della conoscenza biblica, in termini scientifici e nondimeno nella sua declinazione pastorale e spirituale, come pure all’educazione del rapporto con la Parola di Dio dentro la vita della Chiesa. Egli ha consegnato a diverse generazioni di laici, diaconi, seminaristi e religiosi, un rigoroso criterio metodologico di studio della Bibbia, insieme all’amore, la passione e l’arte della relazione ecclesiale e personale di amicizia in Cristo mediante la sacra Scrittura. Nel corso degli anni, molti di noi hanno gustato la bellezza e la faticosa dolcezza dell’incontro con il Dio biblico e con la storia della salvezza grazie soprattutto alla competenza e alla passione di questo nostro maestro e fedele amico, umile, esigente e amorevole, che riusciva a tenere insieme in modo armonico fermezza e dolcezza, rigore interpretativo e premurosa attenzione alla persona.

In occasione del decimo anniversario della morte di un così caro amico e collega, il nostro ISSR interdiocesano “A. Marvelli” vuole riconvocare la figura di don Agostino Gasperoni, fedele seguace della amatissima Parola “spezzata”, secondo questo duplice versante – teologico/accademico e teologale/pastorale. Nel luogo costituito dalla sua esistenza intera essa si è infatti data come premurosa seminagione e condivisione, in una dedizione senza limiti, con generosità e gratuità senza calcolo e misura, neppure di tempo. Desideriamo dunque onorare con sentimenti di gratitudine il debito verso lui contratto facendo quello che la Scrittura ci comanda: ricordare e narrare.

Si svolgerà pertanto

Nella memoria di Lui
don Agostino Gasperoni – uomo biblico
mercoledì 26 ottobre 2022ore 18
Maria Annunziata della Scolca (S. Fortunato)

Programma:

  • ore 18,00: Celebrazione eucaristica presieduta da Mons. Andrea Turazzi, Vescovo di S. Marino-Montefeltro e Vice-moderatore dell’ISSR.
  • a seguire (ore 19,00 circa): la memoria dell’uomo biblico Agostino Gasperoni, secondo un duplice versante formativo – accademico, grazie al profilo tracciato dal prof. Luca Spegne (ISSR “A. Marvelli” e STM); spirituale, secondo il ricordo di Elisabetta Manuzzi (Caritas Rimini).
  • Momento conviviale (ore 20.15 circa): un buffet offerto a tutti i convenuti, presso i locali del Seminario Vescovile.

Per informazioni ed opportuna prenotazione contattare la segreteria organizzativa dell’ISSR: 0541.751367, segreteria@isrmarvelli.it.

“Leone, il santo dalmata. Storia, memoria e culto”

E’ stata pubblicata di recente una monografia di Studi montefeltrani dal titolo: “Leone, il santo dalmata. Storia, memoria e culto” a cura del prof. Roberto Monacchi.
Sabato 29 ottobre alle ore 15:30, nella Cattedrale di San Leo, si terrà la presentazione del volume.
Saranno presenti gli autori con la moderatrice Cristina Ravara Montebelli. Saluto del Vescovo Andrea Turazzi.
È una nuova e opportuna occasione per approfondire la conoscenza del Santo Patrono della nostra Diocesi.
Siamo tutti invitati

Iscrizioni all’Istituto di Scienze Religiose “A.Marvelli”

Sono gli ultimi giorni utili per iscriversi all’Istituto Superiore di Scienze Religiose “A. Marvelli” (Istituto Teologico delle Diocesi di Rimini/San Marino-Montefeltro).
È una grande opportunità in vista di una Laurea spendibile non solo nell’insegnamento di Religione Cattolica nelle scuole italiane e sammarinesi, ma in altri ambiti (giornalismo, turismo religioso, consulenza etica, ecc.).
Per molti, al di là del riconoscimento accademico, è un percorso che qualifica la propria formazione teologica anche in vista di un servizio pastorale tanto necessario nell’oggi della nostra Chiesa.
Anche quest’anno è consentita la presenza online in quasi tutte le discipline: non una scorciatoia, ma un aiuto per chi è molto lontano da Rimini e per chi avrà modo di dedicare più tempo allo studio personale.
Propongo. Caldeggio. Raccomando. Questo messaggio è per tutti. Anche per chi è in ricerca e si pone domande.
Per informazioni e dettagli: https://www.issrmarvelli.it/servizi-agli-studenti/iscrizioni/

+ Andrea Turazzi
Vescovo di San Marino-Montefeltro

Offerta formativa

Laurea in Scienze Religiose

Scuola di Alta Formazione in Arte Sacra e Turismo Culturale Religioso

Corso di Alta Formazione in Dialogo interreligioso e Relazioni internazionali

Percorso di Teologia Pastorale

 

Omelia nella XXVIII domenica del Tempo Ordinario

Miniera (RN), 9 ottobre 2022

Sante Cresime

2Re 5,14-17
Sal 97
2Tm 2,8-13
Lc 17,11-19

Inizio con alcune premesse che servono alla nostra meditazione. Prima premessa: chi erano i samaritani? I samaritani erano un piccolo popolo all’interno della Palestina, composto di persone “trapiantate”. Durante l’occupazione assira della Palestina – siamo nell’800 a.C. – furono portati via da Gerusalemme il re, i ministri, le persone di cultura e vi furono importati degli stranieri, quasi una colonia. I samaritani erano “meticci”, essendosi uniti con i pochi ebrei rimasti nelle campagne, poi non praticavano il culto a Dio secondo la liturgia del tempio. I samaritani erano ritenuti eretici, pertanto erano disprezzati, odiati…
Seconda premessa. Nel Vangelo di Luca tutti i racconti, le parabole, i miracoli compiuti da Gesù si trovano nei primi otto capitoli; dal capitolo 9 in poi viene raccontato il viaggio che Gesù fa verso Gerusalemme. Gesù non va a Gerusalemme da turista o da pellegrino; è consapevole che là devono compiersi i giorni della sua morte e risurrezione. Alla fine del capitolo 8 si dice che Gesù «indurì la sua faccia» e si incamminò decisamente verso Gerusalemme. Lungo la strada, Gesù ci fa capire, e ha fatto capire ai Dodici e ai discepoli che lo seguivano, che la sua è una strategia di ingresso (anche Gesù aveva una strategia pastorale!). Gesù va per le strade, si ferma nei villaggi e nei piccoli borghi. Non fa come alcuni gruppi spirituali del suo tempo che si ritiravano dalla città e avevano preso dimora nel deserto di Giuda: abitavano nelle grotte, avevano costruito dei monasteri, avevano in programma di fuggire il mondo e aspettavano la Gerusalemme celeste. Si chiamavano Esseni. Al tempo di Gesù c’erano anche gruppi di fervorosi che, in nome di Dio, si armavano per contrastare i pagani, perché l’origine dei mali – dicevano – era la presenza in Palestina dell’Impero Romano. Gesù non apprezza la loro strategia di aggressione.
Il programma di Gesù è un programma di incontro, di vicinanza, di prossimità, dunque di ingresso. Nella pagina evangelica appena proclamata, Gesù, prima di entrare nel villaggio, passa accanto ad un lazzaretto dove vivono dei lebbrosi, emarginati ed esclusi per motivi igienici e religiosi. Da lontano gridano: «Gesù, Maestro, abbi pietà di noi», così come noi preghiamo all’inizio della Messa: «Kyrie, eleison» (sono stati loro i primi a cantare così!). La lebbra era ritenuta una malattia “maledetta”. Un lebbroso è un morto che cammina; la necrosi avanza in tutto il corpo, il volto si sfigura… Gesù li ascolta e si avvicina. Dobbiamo immaginare che quei lebbrosi siamo noi e la nostra umanità di oggi, bisognosi di purificazione. Gesù si ferma, li guarda, li accoglie; fa loro una proposta quasi incomprensibile: «Andate in città e presentatevi ai sacerdoti». Si fidano. Sono ancora ammalati e si mettono in cammino; mentre camminano, succede a loro come ai discepoli di Emmaus: guariscono. Immaginate la loro gioia! Corrono. Cantano. Finalmente possono riabbracciare (un lebbroso non poteva toccare nessuno). Abbiamo provato qualcosa di simile con il Covid… Molti di noi non hanno potuto abbracciare i loro cari ammalati.
Uno dei lebbrosi torna indietro per ringraziare Gesù. Lui che aveva cantato l’atto penitenziale, kyrie eleison, ora intona il Gloria. Il lebbroso interrompe il viaggio verso la città per andare dove lo porta il cuore: da Gesù. Torna sui suoi passi: è il dietrofront dell’amore. Canta per la strada, si butta ai piedi di Gesù, dice grazie per il dono non meritato della guarigione. L’evangelista Luca sottolinea che l’unico che è tornato indietro è un samaritano: emarginato perché lebbroso ed emarginato perché samaritano, però è l’unico che prende questa iniziativa e vuole guardare Gesù negli occhi. Quei nove hanno fede in Gesù – sono guariti! –  ma il decimo ha qualcosa di più: il desiderio di guardare Gesù, di essere in intimità con lui, vuole amarlo.
Dico a ciascuno: «Il Signore aspetta proprio te, perché ti ama immensamente». Vorrei fiorisse nel cuore la preghiera di riconoscenza, anche con parole nostre, anche solo con uno sguardo.
Mettendo in evidenza il samaritano, Luca voleva incoraggiare la missione. Dopo la risurrezione, gli apostoli e i discepoli sono andati in tutto il mondo ad annunciare il Vangelo di Gesù. Anche ai pagani. Luca dice che i pagani possono dare risposte inimmaginabili. È, dunque, uno sguardo ottimista sulla missione. A volte, in parrocchia, capita di perdersi d’animo e di non voler seminare temendo di non raccogliere. Luca incoraggia a spargere la semente dappertutto. A questo racconto darei questo titolo: «Storia di un samaritano riconoscente». Questa settimana invito a ricordare la parola “grazie”, da rivolgere al Signore e alle persone che vivono accanto a noi. Così sia.

Omelia nella XXVII domenica del Tempo Ordinario

Ponte Cappuccini (PU), 2 ottobre 2022

Sante Cresime

Ab 1,2-3;2,2-4
Sal 94
2Tm 1,6-8.13-14
Lc 17,5-10

Le prime due letture appena proclamate preparano alla lettura del Vangelo: pongono la domanda fondamentale che riguarda il più giovane fra noi fino al più grande: che cos’è la fede? Serve la fede? È necessaria per la vita? Emergono tre pensieri.

  1. Il primo pensiero è una provocazione: cos’ha a che fare la fede con i problemi enormi e le sofferenze grandi che ci troviamo a vivere? La Prima Lettura è di Abacuc, un antico profeta. Da lui parte un grido di dolore, una vera e propria imprecazione verso Dio. È un santo in collera con Dio, in difficoltà con la sua fede perché Gerusalemme è stata distrutta e le popolazioni attorno a Gerusalemme sono annientate. Abacuc dice testualmente: «Signore, imploro aiuto e non mi ascolti; a te alzo il grido “Violenza!” e tu non salvi? Perché mi fai vedere l’iniquità e resti spettatore dell’oppressione?». Che coraggio! Prendere Dio per il collo e dire: «Che fai?». È una provocazione per la fede. Ai ragazzi che stanno per ricevere la Cresima ho confidato, durante un incontro, che ho avuto periodi della vita, uno in particolare, in cui sono stato in difficoltà con la mia fede. «Dove sei Signore? Cosa fai? Signore, resti spettatore?», mi chiedevo. La fede è interpellata dai nostri dubbi. Pensate che dovrei dirvi solo certezze? No, vi dico la domanda perché mobilita la mente e il cuore. Bisognerebbe che andassimo a casa tutti con la domanda (se uno si pone la domanda vuol dire che prende sul serio la fede, e che la fede per lui non è solo una cerimonia…).
  2. Il secondo pensiero: la fede va custodita, perché la si può perdere, oppure la si può tenere talmente sotto la cenere che pian piano si spegne. Allora bisogna soffiare sulle braci e, appena riappare una fiammella, mettere alcuni tizzoni di legna. Racconto un’esperienza. Quando studiavo all’università a Bologna, avevo un professore che era molto apprezzato in Italia (era un opinionista del Corriere della Sera, cattolico). Questo professore venne chiamato dal Presidente del Consiglio per una consulenza; era, infatti, un famoso economista. Al termine della riunione il professore si alzò in piedi, salutò e, mentre era sulla porta, il Presidente lo richiamò e gli disse: «Se lei sapesse come la invidio…». Non era per l’età (il professore era molto giovane) o perché era un grande economista, ma per la fede che avrebbe voluto avere anche lui. Un altro episodio. Nel capitolo XXIII dei Promessi Sposi l’Innominato è sconvolto nel vedere la forza e il coraggio di Lucia Mondella, la ragazzina insidiata da don Rodrigo. È tormentato e si fa tante domande sulla fede. Dopo una notte insonne sente suonare le campane (abitava nel suo castello) e vede tanta gente che arriva alla chiesetta del paese. Quel giorno c’è il Cardinale di Milano; allora va, vorrebbe parlare con lui. Rompe ogni indugio, chiede il colloquio. Il segretario dissuade il Cardinale dall’incontrare l’Innominato, spiegando che è un delinquente. Invece, il Cardinale gli va incontro e lo abbraccia. L’Innominato si ritrae… Il Cardinale gli dice: «Ero io che avrei dovuto venire da te, invece tu sei venuto da me; ero io che avrei dovuto portarti la pace di Dio». Allora l’Innominato sbotta: «Dio, Dio, se lo vedessi, se lo sentissi!». Il Cardinale replica: «Dio è quel tormento che ti lascia inquieto, che ti mette in cammino…». L’Innominato si sente capito e amato e si converte.

Ecco, vengo a dirvi che quel tormento che sentiamo dentro è proprio Lui che bussa al nostro cuore.

Quando la Bibbia parla del mare, lo pensa come qualcosa di terribile e terrificante, paragonabile al male. Eppure, Gesù dice: «Se aveste fede come un granello di senape (il più piccolo dei semi), voi potreste dire ad un gelso (una pianta presente in Palestina, famosa per le sue radici, ramificate e profonde) “sradicati e vatti a trapiantare nel mare”». Gesù usa questa immagine che è paradossale per dire: «Se tu hai fede, puoi affrontare anche le cose impossibili». Al profeta Abacuc risponderebbe: «Stai tranquillo, abbi pazienza, io ci sono. Non venirmi a chiedere bacchette magiche, ma sono con te nella prova e ti farò resistere».

  1. Il terzo pensiero: la fede va testimoniata. Mi riferisco alla Seconda Lettura. Cari ragazzi, con la Cresima il Signore vi darà uno spirito di forza, non di timidezza. Un mio alunno aveva fatto il proposito, durante il mese di maggio, di dire il Rosario tutti i giorni; una mattina, a scuola, mentre era alla lavagna, tirando fuori il fazzoletto, gli uscì la corona dalla tasca… I compagni iniziarono a deriderlo, ma lui rispose con tranquillità: «Sì, vado in chiesa, non si può?» Dimostrò a tutti di avere personalità, di essere un ragazzo in gamba. Al posto della derisione si guadagnò la stima di tutti. Ma quello che importa è che è stato testimone coraggioso della fede.

Avere fede. Conservare la fede. Testimoniare la fede.

Omelia nella XXVII domenica del Tempo Ordinario

Macerata Feltria (PU), 2 ottobre 2022

Sante Cresime

Ab 1,2-3;2,2-4
Sal 94
2Tm 1,6-8.13-14
Lc 17,5-10

Il tema delle tre letture è la fede.
Ho avuto un giovane professore che era un celebre economista, cattolico. In quel periodo in Italia c’era un “governo tecnico” guidato da un “laico”. Il professore ci raccontò in classe che era stato chiamato dal Presidente del Consiglio per le sue competenze. Alla fine del colloquio, mentre si congedava, il Presidente gli confidò la sua invidia: non era per la giovane età del professore, ma per la sua fede. Quante persone ci invidiano questo tesoro!
Voi ragazzi pensate di avere tutta la vita davanti, pensate di essere belli, simpatici, forti, intelligenti… Talvolta, inspiegabilmente, può succedere di sentire una grande malinconia. L’adolescenza è il periodo delle grandi domande, anche sulla fede. A me capitò di non avere il coraggio di confidarmi; non erano argomenti che volevo trattare con i miei genitori e non mi sentivo di parlarne neppure con il mio padre spirituale. Man mano che si va avanti nella vita si fa l’incontro con il dubbio, ci si pone in prima persona davanti alle grandi domande dell’esistenza. Se poi in famiglia capita una disgrazia, ci si chiede il perché della sofferenza e del dolore innocente…
La Prima Lettura che è stata proclamata è un testo del 600 a.C. Il profeta Abacuc critica Dio con un certo coraggio: «Ecco il grido “Violenza” e tu non salvi? Perché mi fai vedere l’iniquità e resti spettatore dell’oppressione?» (Ab 1,2-3). Il profeta va giù pesante con Dio. Tante volte nei Salmi c’è la preghiera dell’uomo che protesta davanti a Dio. Abacuc, che scriveva nel 600 a.C., aveva visto la violenza delle potenze mondiali di allora, che avevano distrutto Gerusalemme, la città santa, e avevano sterminato popolazioni intere.
Cosa risponde Dio ad Abacuc? Lo incoraggia a mantenere la fede, a pazientare con fiducia nelle prove della vita. Oltre alle guerre, ci sono tante altre disgrazie che accadono: terremoti e alluvioni, anche dentro i cuori. La fede soccorre in queste difficoltà. La fede è un dono, ma anche una decisione. È qualcosa che viene trasmesso, dai nostri genitori, dai nonni, dagli antenati. Basti pensare a questa chiesa: qualcuno l’ha costruita pietra su pietra, con arte, perché ha creduto.
Viene il momento in cui la fede è una nostra decisione personale. Siamo davanti a Gesù. Il suo Vangelo è cosa concreta. Gesù ci dice: «Credi? Ti fidi di me?». Rispondiamo: «Sì, Signore. Mi fido di te perché ho visto che quando vivo le parole del Vangelo si realizzano». Agli apostoli che, come noi, dicono: «Signore, aumenta la nostra fede!», Gesù dà una risposta che sembrerebbe insensata, paradossale: «Se aveste fede quanto un granello di senape…», cioè non è una questione di quantità, ma di qualità, «… potreste dire a questo gelso, sradicati e trapiantati nel mare e vi ascolterebbe». Il gelso è una pianta palestinese famosa per le sue radici, che sono articolate e vanno molto in profondità, una pianta difficilmente sradicabile (ci sono gelsi che hanno radici di seicento anni!). Gesù afferma che la fede è capace di sradicare un gelso e addirittura di trapiantarlo nel mare. Alberi trapiantati nel mare non se ne vedono… Gesù usa un’iperbole per dire una cosa forte: la fede è capace di compiere l’impossibile.
La Bibbia parla varie volte di alberi o legni nel mare. Ad esempio, l’arca di Noè, la barca di Gesù e degli apostoli durante la tempesta sul lago, l’albero della croce, piantato per terra, ma in verità radicato in un oceano di dolore, di peccato. Nella fede di Gesù quel legno ha trasformato il mare, che per gli antichi è simbolo delle potenze oscure del male. La croce piantata nella fede ha cambiato la situazione.
Ho conosciuto tanti alberi piantati nel mare, persone concrete. Una carissima amica ha lasciato tutto, è diventata una Piccola Sorella di Gesù e ora si trova ad Hong Kong, dove i cristiani sono pochissimi. Vive in un piccolo appartamento e fa la commessa in un supermercato: non fa altro che tessere relazioni per dire che dietro ad ogni rapporto di amore c’è Gesù. Per il resto della giornata prega. Ho conosciuto una mamma della mia parrocchia, che aveva una figlia gravemente disabile (era completamente immobile, respirava artificialmente, muoveva solo i suoi splendidi occhi). La ragazzina si chiamava Fidelia. Quando andavo a trovarla si sentivano le grida gioiose dei ragazzi che giocavano nel cortile della parrocchia. Ho chiesto alla mamma se la infastidivano quelle grida, pensando a sua figlia che invece era immobile nel letto. Mi rispondeva che era felice della presenza dei ragazzi, era felice della loro felicità! A ripensarci mi commuovo ancora. Quella mamma era come un “albero trapiantato nel mare”.
Cari ragazzi, tra poco si compirà su di voi qualcosa di straordinario. Ho parlato di alberi trapiantati nel mare, ma pensiamo agli apostoli, dodici pescatori, impauriti, che quando hanno ricevuto lo Spirito Santo nella Pentecoste sono diventati inaspettatamente coraggiosi. Il libro degli Atti degli Apostoli dice che erano «plebei illetterati» (At 4,13), ma dopo l’effusione dello Spirito hanno cominciato a testimoniare la loro fede in Gesù e hanno avuto l’audacia di presentarsi all’areopago di Atene…
Nel silenzio dite dentro di voi: «Vieni Spirito Santo. Questa mattina ti dico la mia fiducia, mi affido a te. Ho bisogno di te. È un momento importante della mia vita, devo prendere decisioni, devo fare i conti con i sentimenti che esplodono dentro di me, devo decidere ciò che è male e ciò che è bene. Vieni, Spirito Santo».