Congresso Eucaristico Nazionale

Congresso Eucaristico Nazionale

CONGRESSO EUCARISTICO NAZIONALE

Dal 22 al 25 settembre 2022 si terrà a Matera il Congresso Eucaristico Nazionale.
Si segnala la ricchezza dei materiali necessari e utili per la preparazione e l’eventuale partecipazione al Congresso (compresi materiali per la “pastorale della Prima Comunione”) sul sito nazionale: www.congressoeucaristico.it

Il delegato diocesano per il Congresso è don Jhon Blandon, incaricato del Collegamento Nazionale Santuari.

Omelia nella IV domenica di Quaresima

Mercatino Conca (PU), 27 marzo 2022

Gs 5,9-12
Sal 33
2Cor 5,17-21

1.
Alcune premesse. La prima: leggiamo questo brano del Vangelo come fosse la prima volta. Invochiamo lo Spirito Santo perché ci apra alla meraviglia, allo stupore, alla contemplazione. Un’altra premessa necessaria: consideriamo il titolo della parabola. Ho trovato almeno sei titoli diversi: la parabola del figlioul prodigo (il titolo più comune), la parabola del figlio perduto, la parabola del figlio ritrovato, la parabola dei due figli… Quello che mi piace di più è “la parabola del padre misericordioso”, ma sarebbe più completo dire “la parabola del padre e dei due figli”, perché dà ragione all’insieme narrativo ed inizia proprio così: «Un uomo aveva due figli…».
Vedremo che ci sono due modi diversi di relazionarsi con il padre. Altra premessa: interessante è ciò che precede il racconto della parabola, quando Luca sottolinea: «Poiché molti peccatori, pubblicani, andavano da Gesù, allora lui raccontò questa parabola…». È bello vedere che da Gesù andavano queste persone: come vorrei – parlo a nome di tanti miei fratelli sacerdoti – che anche le persone apparentemente più “lontane” fossero attratte da noi e dalle nostre comunità.
In questa parabola echeggiano sicuramente le parole stesse di Gesù; lo si deduce dalle espressioni tipicamente aramaiche. La stesura è di Luca, è coerente con la sua teologia, ma rivela tutto il modo di essere di Gesù, che avvicina i peccatori, sta con loro, li accoglie, offre perdono e che, per questo, viene criticato. Si può dire che la parabola costituisca il cuore della teologia lucana: amore eccedente del Padre, amore smisuratamente misericordioso verso di noi peccatori e grazia… all’ultimo minuto! (cfr. Lc 23,42-43).

2.
Ci vengono domande prima di addentrarci nei particolari. Prima di tutto, come mai questo padre lascia partire un figlio all’arrembaggio? Perché lo accoglie senza essere sicuro del suo pentimento? Perché lo festeggia se non lo merita? Molti si trovano in difficoltà su questa parabola e pensano: «Non è giusto! Non sono d’accordo!». Le parabole sono state scritte appositamente per far scattare nel lettore un’impennata, un contrasto, una presa di posizione, una meraviglia… La parabola è un genere letterario, didattico, per suscitare domande.

3.
Andiamo ora ad incontrare il fratello minore che, ad un certo punto, ha voluto la parte di eredità che gli spettava ed è partito per un territorio lontanissimo. L’eredità si dà alla fine della vita: per il figlio minore il padre è, in un certo qual modo, cancellato. Nella Palestina ai tempi di Gesù c’erano circa 500 mila abitanti, mentre 4 milioni di ebrei si trovavano fuori. La parabola si collega perfettamente all’ambiente palestinese del tempo di Gesù.

4.
Il figlio più giovane è finito “custode ai maiali”. Si tratta di un dettaglio importante nella parabola: per gli ebrei il maiale è un animale impuro. È evidente che il figlio minore è emigrato, è andato in un posto lontano, fuori dal territorio di Israele perché qui i maiali erano banditi. Aveva trovato un ripiego, ma si ritrova con la sua disillusione. Era partito per cercare la felicità e pensava di trovarla, di gustarla fino in fondo, ma si è accorto che il fondo era vuoto e si è trovato solo. Vorrebbe nutrirsi delle carrube che mangiano i maiali, ma nessuno gliene dà. Il testo dice crudamente: «Voleva riempirsi la pancia delle carrube che mangiavano i maiali». Ma come dice un proverbio rabbinico: «Quando uno mangia carrube, incomincia la conversione». Ebbene, ad un certo punto, quel figlio “prodigo”, cioè spendaccione (che non ha badato a spese quando si è divertito, confondendo la gioia con il divertimento) rientra in se stesso, comincia a considerare la sua situazione e gli viene il desiderio di tornare a casa. Ma non è ancora conversione! Ha mangiato le carrube, che sono il principio della conversione, ma ancora non è convertito, perché lui ha fame e cerca pane; è servo, ma vorrebbe almeno ricevere il trattamento che hanno i servi di suo padre e allora decide di ritornare. In cuor suo prepara il discorso per il ritorno a casa: «Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te, so che non ho nessun diritto, se mi vuoi riprendere mettimi tra i tuoi servi». E con questi pensieri si incammina verso casa.

5.
La scena si sposta sulla fattoria dove quel padre ha organizzato un’azienda formidabile. Il figlio maggiore è ancora al lavoro nei campi, ma quando torna a casa sente la musica, le danze, la festa, e si chiede che cosa sia accaduto. Quando impara che è tornato il figlio minore, scapestrato, che se n’era voluto andare per i fatti suoi, che si è speso tutta la sua parte di eredità, si rifiuta di entrare. Non è d’accordo. Non riesce ad entrare nella logica del padre. Rimane fermo, bloccato. Il padre deve uscire, lo deve pregare: «Figlio, tutto ciò che è mio è tuo e anche questo fratello consideralo tuo, mettiti con me ad accoglierlo». Il figlio maggiore non aderisce a quell’invito, anzi protesta. Ciò smaschera com’è il suo rapporto con il padre, un rapporto non da figlio, ma da servo: «Ti ho servito per tanti anni, sono stato sempre fedele, non mi sono mai preso tempo per me, non mi hai mai dato nemmeno un capretto per far festa con i miei amici». «E tuo figlio – da notare che non dice “mio fratello” – che ha consumato tutto gozzovigliando e divertendosi… Non è giusto!». Anche noi restiamo, talvolta, nell’atteggiamento del figlio maggiore. Un certo modo di essere cristiani è più distante dallo Spirito di Gesù di quanto lo sia lo spirito di quelli che noi chiamiamo “i lontani”.

6.
Il padre viene rappresentato come un signore entusiasta, vivace, persino giovanile: «Su, presto, facciamo festa» (cfr. v. 23). Da notare come il termine gioia con i suoi derivati appaia per ben nove volte! Il padre organizza una festa con tanta musica, dove si balla e c’è un buon menù; soprattutto lo troviamo “sbilanciato”, totalmente rivolto verso i suoi figli, addirittura li prega. Accoglie il figlio minore, lo fa sentire atteso. L’aveva visto da lontano, evidentemente lo “covava” dentro di lui; gli corre incontro, quando è vicino lo abbraccia, lo bacia, quindi abbandona la sua compostezza orientale e non lascia al figlio recitare le sue scuse; subito lo introduce nella casa e gli fa una triplice consegna: gli dà “il vestito di prima” oppure “il vestito più bello” (si può tradurre nell’uno o nell’altro modo: qui il vestito è simbolo della sua dignità); gli mette l’anello al dito con il sigillo per reintrodurlo nei diritti che aveva perso, secondo i codici di allora; gli mette i sandali ai piedi, perché non deve considerarsi servo, ma figlio (i servi erano scalzi).  Ci piace immensamente questo padre, anche per come parla col figlio maggiore: «Tutto quello che è ho è tuo, vai incontro a questo tuo fratello».
Qualcuno si è chiesto come mai in questa casa non ci sono donne, non c’è l’elemento femminile. La risposta l’ha data Giovanni Paolo II che vede nel verbo che descrive la commozione del padre il movimento tipico delle viscere materne (cfr. Giovanni Paolo II, Dives in misericordia, nota 52).
Se ci fosse stata una donna, una mamma, nella parabola forse quei due figli avrebbero avuto relazioni diverse, ma è proprio nel padre che dobbiamo vedere questo elemento materno (cfr. Is 49,14-15).
La conclusione è che l’autentica esperienza cristiana consiste nel sentirsi amati. È quello che auguro a ciascuno, in prossimità della Pasqua.

Omelia nella S. Messa con la consacrazione al Cuore Immacolato di Maria della Russia e dell’Ucraina

Pennabilli (RN), Cattedrale, 25 marzo 2022

Is 7,10-14; 8,10
Sal 39
Eb 10,4-10
Lc 1,26-38

Ho ricevuto tempo fa questo messaggio: «Buonasera Eccellenza, sono un parrocchiano di Vicomero. Chiedo, insieme ad alcune persone di Parma, di inviare a Papa Francesco il seguente comunicato: “Oggetto: guerra in Ucraina. Chiediamo al Santo Padre di scomunicare chi vuole la guerra in Ucraina e uccide anche bambini, come Erode”. Ringrazio e porgo distinti saluti», 11 marzo 2022. Di fronte a tale messaggio sono rimasto perplesso, senza parole. Di lì a poco, il Santo Padre, Papa Francesco, lancia tutta la Chiesa in una grande e coraggiosa preghiera di consacrazione della Russia e dell’Ucraina al Cuore Immacolato di Maria.
La guerra è situazione che tocca tutti, non solo i paesi coinvolti. A quanto sappiamo, si tratta di un paese che invade prepotentemente e ingiustamente un altro e l’invaso fa resistenza con tutte le forze e tutte le armi possibili. Argomento scivoloso: comunque se ne parli si rischia di fare qualche sbaglio…
Mi soffermo sul contrasto, forse è soltanto un dettaglio in questa tragedia immane: da una parte un gruppo di cristiani che chiedono la scomunica e dall’altra il Papa che risponde con l’invito ad un atto di consacrazione e di affidamento per l’uno e per l’altro paese.
In questi giorni si sono sentite parole durissime contro il popolo russo, eppure questo è un grande popolo: un popolo che abita un territorio immenso, di steppe sterminate, con una decina di fusi orari che lo abbracciano; un popolo che ha accolto il cristianesimo da mille anni ed ha avuto e ha grandi santi, grandi maestri spirituali; un popolo che ha molto sofferto lungo i secoli, subendo il totalitarismo e la persecuzione comunista, “un’idea cristiana impazzita”, direbbe don Luigi Giussani; un popolo che ha donato all’umanità grandi artisti, poeti, scienziati.
Chi voleva proporre al Papa la scomunica pensava, in verità, non tanto al popolo russo, ma a chi vuole la guerra e uccide anche i bambini, come Erode.
Il Papa guarda questa guerra come Abramo che, davanti alle due città inique, Sodoma e Gomorra, prega: «Davvero sterminerai il giusto con l’empio? Forse vi sono cinquanta giusti nella città: davvero li vuoi sopprimere? E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano?». «Lungi da te – continua il testo biblico – il far morire il giusto con l’empio, così che il giusto sia trattato come l’empio; lungi da te! Forse il giudice di tutta la terra non praticherà la giustizia?». Rispose il Signore: «Se a Sòdoma troverò cinquanta giusti nell’ambito della città, per riguardo a loro perdonerò a tutta la città». Abramo riprese e disse: «Vedi come ardisco parlare al mio Signore, io che sono polvere e cenere… Forse ai cinquanta giusti ne mancheranno cinque; per questi cinque distruggerai tutta la città?». Rispose: «Non la distruggerò, se ve ne trovo quarantacinque». Abramo riprese ancora a parlargli e disse: «Forse là se ne troveranno quaranta». Rispose: «Non lo farò, per riguardo a quei quaranta». Riprese: «Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora: forse là se ne troveranno trenta». Rispose: «Non lo farò, se ve ne troverò trenta». Riprese: «Vedi come ardisco parlare al mio Signore! Forse là se ne troveranno venti». Rispose: «Non la distruggerò per riguardo a quei venti». Rispose: «Non la distruggerò per riguardo a quei venti».  Rispose: «Non la distruggerò per riguardo a quei venti». Riprese: «Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora una volta sola; forse là se ne troveranno dieci». Rispose: «Non la distruggerò per riguardo a quei dieci» (Gn 18,23-32). Dentro una storia di dilagante ambiguità, perfino di cruda empietà, la voce sommessa e tenace della preghiera di Abramo apre una fessura carica di futuro sull’enigma del male che insidia la storia umana. “Forse”: l’intercessione di Abramo è l’apertura della fede. Per ben sei volte Abramo adopera l’antifona “forse” e in quel “forse” c’è tutta la fiducia di Abramo credente, ma anche tutta l’audacia di Abramo amico di Dio. In quel “forse” di Abramo, nella tenacia della sua insistente intercessione c’è il sorriso di chi vede il giorno di Gesù, il solo giusto, grazie al quale l’umanità è salvata dalle sue ingiustizie. Ricordate il Vangelo di Giovanni: «Abramo vostro padre esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e se ne rallegrò» (Gv 8,56). Quel “forse”, reinterpretato alla luce di Gesù, diventa “certezza”: Gesù “Principe della pace”, «colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia» (Ef 2,14).
Papa Francesco ci sta insegnando che il ruolo fondamentale del camminare verso l’unità fraterna lo esplica la preghiera. Stiamo vivendo un passaggio della storia sconvolgente, frutto di violenza e catene di crudele ingiustizia. Di fronte a tanto male che fare? Odiare, vendicarsi, aspettare miracolosamente che Dio intervenga? C’è un’altra via: la via della responsabilità umana per il male che c’è nel mondo. E responsabilità chiede conversione: conversione è l’altro nome della responsabilità. Del resto, è il tema della meditazione di domenica scorsa, III domenica di Quaresima: «Se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo» (Lc 13,3). Noi avevamo sintetizzato così: «Quando senti una campana suonare a morto, non domandarti per chi suona: suona per te». Appello personale alla conversione.
La preghiera è essenzialmente intercessione. Intercedere vuol dire “camminare in mezzo”, tra l’umana avventura, caratterizzata dalla libertà, e Dio. Nella preghiera di intercessione sono inseparabilmente congiunti Dio e l’orante, spalla a spalla. Come Mosè sul monte, a braccia alzate, preghiamo per la vittoria del bene, la realizzazione del progetto che Dio ci ha affidato (cfr. Es 17,8-16).
La prima ad interpretare questo ruolo di intercessione è la Madre di Dio, madre dell’umanità, colei che è sorella e madre. Lei, per divino disegno, è collocata fra l’umanità e Dio: intercede. A lei consegniamo la nostra preghiera. Certo, l’unico mediatore fra Dio e gli uomini è Gesù Cristo (cfr. 1Tm 2,5), ma a lei è stato affidato il ministero materno di intercessione. Pregheremo, al termine della celebrazione in questa giornata dell’Annunciazione, l’atto di consacrazione per la Russia e l’Ucraina, ma nel contempo vogliamo consacrare tutta l’umanità, noi stessi. Figli, con la Madre, per i fratelli!
Una piccola precisazione conclusiva. Cosa si intende con la parola consacrazione? Per noi impossibile non fare riferimento al Battesimo: il sacramento che unisce per sempre a Cristo, che rende il cristiano figlio di Dio, dimora dello Spirito Santo e che infonde in ciascuno che lo riceve la grazia santificante. Ogni altra forma di consacrazione non è che un’esplicitazione di questo. Consacrarsi a Maria significa anzitutto affidarsi, riconoscere il rapporto filiale con lei e chiedere con fiducia aiuto e protezione. Consacrarsi a Maria vuol dire rendere esplicito il desiderio dell’imitazione: imitare Maria dal suo “fiat” nell’Annunciazione al suo stare ritta sotto la croce. Consacrarsi a Maria esprime la volontà di appartenere a lei; un’appartenenza che si manifesta attraverso la conversione del cuore. Il “sì” scaturito dal Cuore Immacolato di Maria aprì le porte della storia al principe della pace. Confidiamo che ancora, per mezzo del suo cuore, la pace alla fine vincerà.

Atto di consacrazione per il mondo intero

Carissimi,

continuiamo ad implorare la pace. Venerdì 25 marzo ci uniamo al Santo Padre papa Francesco per l’Atto di Consacrazione al Cuore Immacolato di Maria per il mondo intero e specialmente per la Russia e l’Ucraina. Alla stessa ora, per quanto possibile, ogni sacerdote inviterà i fedeli a questa preghiera di consacrazione.

In Cattedrale, alle ore 9.30, celebrerò la Santa Messa e anticiperò l’Atto di Consacrazione (celebrazione trasmessa sul canale YouTube della Diocesi: https://youtu.be/ZAjqmq-H9Ps), dovendo nel pomeriggio presiedere la professione religiosa della Clarissa suor Chiara Agnese dell’Incarnazione a Valdragone (RSM).

La sera dello stesso giorno, alle ore 21, anche i giovani, riuniti per la Festa del perdono presso il Santuario del Cuore Immacolato di Maria a Valdragone (RSM), si uniranno a questa preghiera.

Allego alla presente comunicazione la lettera inviata dal Santo Padre ai vescovi italiani con il testo dell’Atto di Consacrazione.

Uniti nella vicendevole stima

+ Andrea Turazzi, vescovo

Scarica la lettera del Santo Padre ai Vescovi

Scarica l’Atto di consacrazione

Festa del perdono e #Seguimi

La conclusione dell’inverno sembra coincidere con l’affievolirsi della pandemia e con una ripresa di ogni aspetto della vita. Non si può negare che le ripetute “ondate” di Covid abbiano fiaccato gli animi e spento gli entusiasmi in tanti di noi e in molti giovani. Guardando avanti vediamo che alcuni tempi ed eventi forti ci vengono incontro in modo provvidenziale per “riprendere quota”.

Tra questi, due in particolare: la Quaresima, all’interno della quale vivremo coi giovani la Festa del Perdono venerdì 25 marzo, in occasione delle 24 ore di preghiera per il Signore; la Pasqua che avrà un prolungamento speciale nel giorno di Pasquetta (18 aprile) con l’incontro degli adolescenti con Papa Francesco.

La Festa del Perdono è la celebrazione comunitaria della Riconciliazione. I ragazzi sono invitati dal Vescovo Andrea Turazzi nel Santuario del Cuore Immacolato di Maria (Valdragone, RSM) per una veglia di preghiera dove è possibile accostarsi alla Confessione. La Veglia, quest’anno, sarà incentrata sulla preghiera allo Spirito Santo e sulla meditazione della Sua opera in noi. Saranno a disposizione dei giovani alcuni sacerdoti per celebrare il Sacramento del Perdono come momento forte del cammino quaresimale e come rigenerazione nella vita spirituale e di fede. Chi ne ha fatto esperienza sa che una buona confessione ridà slancio a tutta la nostra vita.

Il secondo evento, l’incontro del Papa con gli adolescenti, è rivolto in particolare ai ragazzi dai 12 ai 17 anni. Esso rientra in un’attenzione particolare che la Pastorale giovanile italiana desidera rivolgere a questa fascia di età. Il motivo di questo interesse è duplice: questi ragazzi sono quelli che con tanta fatica hanno vissuto questi due anni di pandemia e che la cronaca tende a ridurre, ingiustamente, ai fenomeni di violenza delle baby gang. L’altro motivo riguarda il percorso che essi vivono nelle nostre parrocchie che coincide con la fine del catechismo e molto spesso con la conclusione dell’appartenenza ecclesiale. L’incontro di Roma o meglio il pellegrinaggio alla tomba di Pietro, primo e più autorevole annunciatore della Risurrezione di Cristo, è proposto come un segno di cura dei nostri “giovani più giovani”. Verso di essi non c’è solo riguardo ma anche piena fiducia nella loro capacità di essere non solo destinatari ma protagonisti nella vita della Chiesa e della società. Ecco perché anche la Pastorale giovanile della nostra Diocesi di San Marino-Montefeltro si sta muovendo per organizzare questo pellegrinaggio chiamato #Seguimi a servizio dei gruppi parrocchiali che vorranno partecipare. A vivere questa bella esperienza con i ragazzi ci sarà anche il nostro Vescovo Andrea. In questo anno di cammino sinodale desideriamo rimetterci in marcia insieme a tutti i nostri giovani, nella speranza che questi eventi che vivremo ridiano a tutti gioia ed entusiasmo.

Don Mirco Cesarini,
incaricato diocesano per la pastorale giovanile

Omelia per il Venerdì Bello

Pennabilli (RN), Santuario B.V. delle Grazie, 18 marzo 2022

Prv 8,22-31
Sal 44
Ef 1,3-6.11-12
Lc 1,26-38

Maria, siamo ai tuoi piedi: siamo venuti in pellegrinaggio al tuo Santuario per chiedere la tua intercessione per la pace e per la salute di tante persone. In questo momento sacerdotale anticipiamo l’atto di consacrazione che rinnoveremo come Diocesi il 25 marzo in unità con tutta la Chiesa.

Nel 2006 fra’ Ermes Ronchi dei Servi di Maria ha scritto un bel libro intitolato “Le case di Maria”. Un libro da raccomandare soprattutto alle famiglie e ai gruppi-famiglia.
Ho preso spunto dal titolo per offrire questa meditazione, convinto – non è un’immaginazione – che ciascuno di noi è quel Gesù che Maria fa crescere a Nazaret, che Maria vuole forgiare nel Cenacolo, al quale Maria, accolta dall’apostolo Giovanni, dona una particolare familiarità ad Efeso.
Nazaret, Cenacolo, Efeso!

  1. Nazaret: entriamo!

Siamo immediatamente accolti in una comunità di vergini che, con le loro relazioni, moltiplicano l’amore. Ecco, allora, le premure, la custodia, il servizio di Giuseppe; ecco la disponibilità di Maria a cedere il suo grembo perché il Verbo si faccia carne; ecco Maria che offre la sua maternità per nutrire di sé il bambino Gesù, lo fa crescere, gli dà il suo stesso profilo («tutto sua madre»!).
Maria e Giuseppe, come caldo e luminosissimo arco voltaico, avvolgono Gesù insieme, come coppia: ci sono due annunciazioni, perché Dio vuole il “sì” di Giuseppe e il “sì” di Maria: il “sì” della coppia.
«Non è bene che l’uomo sia solo», è questo che Maria e Giuseppe insegnano a Gesù con la loro testimonianza: la famiglia è benedetta e voluta dal Creatore. «Dal principio…» fu data la grazia per realizzare questo progetto divino. Gesù fa famiglia con i genitori sposi. L’uomo e la donna con le loro caratteristiche coessenziali e complementari costituiscono lo spazio vitale nel quale cresce Gesù. L’episodio dello smarrimento di Gesù al Tempio non smentisce l’esperienza famigliare di Gesù, altro è il significato teologico dell’episodio.
Quel ragazzo dodicenne, a differenza del giovane Samuele (cfr. 1Sam 3), non resta al Tempio. Neppure un giorno di Seminario; il suo Seminario è la casa di Nazaret, con le relazioni che vi crescono attorno. Ci saranno trent’anni di vita nazaretana per Gesù!

Maria e Giuseppe testimoniano a Gesù adolescente il senso profondo della castità nell’amore e della sessualità vissuta in pienezza: per loro Dio è il tutto! Dio riempie il loro cuore, e il cuore, si sa, è il cuore e non palpita senza amore. Maria e Giuseppe appartengono alla corrente spirituale degli anawim, i poveri di Jahvè: i piccoli e i semplici di cui Gesù canterà la beatitudine (cfr. Mt 11,25-27; Mc 3,31-35), i poveri che si lasciano condurre dal volere di Dio.
Una considerazione pratica: oggi più che mai il prete deve crescere in questa atmosfera familiare e spirituale. La sua solitudine – per amore, d’amore – deve costantemente aprirsi alla relazione. Deve imparare a lasciarsi ridimensionare, quando è necessario anche correggere. Quando si è in relazione si fa spazio all’altro, ci si mette in ascolto, ci si dedica, si rinuncia al proprio punto di vista, al proprio puntiglio. È un presupposto indispensabile, questo, per far crescere attorno a sé collaboratori e far sbocciare la parrocchia “famiglia”.
Come sarebbe bello potessero formarsi comunità presbiterali: fosse anche soltanto per ragioni di ménage, meglio ancora per una nuova pastorale e – perché no? – in prospettiva carismatica: «Dove due o più sono uniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 18,20): veri e propri focolari sacerdotali.
Talvolta Nazaret viene dipinta come ideale di vita umile e nascosta, la casa delle virtù (ricordate la meditazione di san Paolo VI quando andò a Nazaret nel 1964). C’è di più: a Nazaret risplende la verità dell’Incarnazione. Nazaret, dove Gesù sta con Maria e Giuseppe, è già missione redentrice in atto. Nazaret proclama, con un silenzio assordante, che il Regno di Dio è presente. Se si togliesse Nazaret dai Vangeli l’enfasi della rivelazione sarebbe tutta e solo sui gesti miracolosi e sui grandi discorsi. Perderemmo parole di Gesù su famiglia, lavoro e relazioni.
Una lezione per il nostro attivismo: tutto il mondo attende il Messia e lui che fa? Scende a Nazaret e vi resta per trent’anni, «subditus illis»!
Lascio a ciascuno la considerazione sullo sviluppo armonico della nostra umanità, di cui Nazaret potrebbe diventare la cifra. Ho più volte constatato come una vita equilibrata, in salute fisica e spirituale, possa rispecchiarsi anche nelle nostre case canoniche.

  1. Il Cenacolo

Il Cenacolo non è propriamente una “casa di Maria”; è un luogo di passaggio, anzi: trampolino di lancio. Tuttavia, la presenza di Maria, insieme con le altre donne, la rende “casa” (cfr. At 1,14). Il presbitero ha familiarità col Cenacolo: vi entra e vi dimora, vi fa, anzitutto, l’esperienza forte della preghiera.
Diciamo tante preghiere, da soli e insieme ad altri fratelli e sorelle, ma da Maria apprendiamo la preghiera che è indispensabile ascolto e poi, dopo l’ascolto, del generoso “fiat”.
Di solito consideriamo il Cenacolo come il luogo della grande manifestazione dello Spirito Santo. «Si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso un rombo, come di vento che si abbatte gagliardo e riempì tutta la casa […]. Apparvero loro lingue di fuoco […] ed essi furono tutti pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare…» (cfr. At 2,1-4). Maria era presente, ma è già esperta dell’azione dello Spirito fin dal momento del concepimento verginale. Lo Spirito l’ha santificata. In lei l’Ospite divino ha effuso i suoi doni e la sua fragranza. L’ha resa gravida di Gesù, miracolosamente. In un certo modo Maria è presente al formarsi e al nascere della Chiesa. La tiene, per così dire, a Battesimo.
Nell’Annunciazione e nel canto del Magnificat Maria anticipa l’esperienza della Pentecoste: la nube che l’avvolse, lo Spirito che la possiede e le fa compiere grandi cose, la franchezza e la parresia del suo canto, in cui abbraccia, con uno sguardo semplice ed intero, tutto il mistero, “historia salutis”.
Il presbitero è a suo agio nel Cenacolo, lo conduce Maria, la Vergine delle grazie: lì ha ricevuto la consacrazione, per l’imposizione delle mani.
Come è apparso il nostro desiderio di “fare il prete”? Ognuno sa… Grandi desideri sono balenati all’orizzonte dei cuori. Forse da un’esperienza che ha fatto percepire la bellezza della fede, forse da un’esperienza che ha fatto scoprire la gioia di appartenere a Cristo, che ha fatto intuire la possibilità di una umanità realizzata nel dono di sé agli altri e nella costruzione di una comunità cristiana. “Fare il parroco”: parola molto suggestiva per tanti di noi!
Qualche volta, tuttavia, i timori sono stati più forti dei desideri. Non mancano segnali di vite presbiterali lamentose, insoddisfatte e talvolta persino incoerenti. Fanno soffrire la sensazione di spendersi, in fondo, per delle strutture, la constatazione di come la pastorale tradizionale non tenga più, le sorprese del tempo che scorre veloce comprimendo preghiera e riposo. Giusti timori che pongono interrogativi e persino dubbi sulla qualità del proprio celibato e sulle relazioni superficiali e funzionali nella comunità.
Qualche decennio fa la crisi assumeva il carattere eclatante della nave a sirene spiegate, con il clamore dei media. Oggi la crisi assomiglia alla navigazione nascosta del sommergibile sott’acqua! Non si vede…
Ma la crisi è una parola che può indicare qualcosa di positivo, una presa di coscienza, voglia di cambiamento, superamento di ostacoli.
Oggi Maria ci invita a ripartire dal Cenacolo, a ritrovare lei e la compagnia di coloro che lo abitano: gli apostoli, i discepoli e le donne, ma soprattutto Lui, lo Spirito Creatore, Avvocato e Maestro (oggi diremmo “alleato” e “insegnante di sostegno”), e poi le porte spalancate sulla città degli uomini.
Nel Cenacolo gustiamo «quanto è bello che i fratelli vivano insieme», siamo ricondotti al mistero della Pasqua. È la sala grande e addobbata al piano superiore, in cui si gusta l’Eucaristia, in cui si fa memoria della lavanda dei piedi e dell’istituzione del ministero presbiterale. Nel Cenacolo Gesù ha pronunciato i discorsi di addio, ha rivolto al Padre la preghiera sacerdotale ed ha consegnato il comandamento nuovo, suo testamento.
Nel Cenacolo, apparendo a porte chiuse, supera le titubanze di Tommaso e inaugura la missione con i suoi stessi poteri per la remissione dei peccati: «Come il Padre ha mandato me, così io mando voi» (Gv 20,21).
Se paragoniamo la nostra vita presbiterale al battito del cuore, il Cenacolo rappresenta il primo movimento di raccolta, la missione fuori dal Cenacolo il secondo. Il sangue viene richiamato – per così dire – al suo centro e poi inviato ad irrorare ogni parte del corpo: momenti diversi e successivi, ma inseparabili in un organismo vivo.
Maria ci insegna l’omogeneità tra lo stare con Gesù e l’andare tra gli uomini.

  1. Efeso

Tutto è cominciato quel Venerdì Santo ai piedi della croce: «Gesù, vedendo la madre e lì accanto il discepolo che egli amava, disse alla madre: “Donna, ecco tuo figlio!”. Poi disse al discepolo: “Ecco tua madre!”. E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa» (Gv 19,26-27).
Un’imponente tradizione ci conferma che Giovanni prese con sé la Madre di Gesù, prima a Gerusalemme poi a Efeso, la città dell’Asia Minore a cui Paolo indirizzò una delle sue Lettere. Maria accanto al presbitero apostolo, fa famiglia con lui.
Prendiamo Maria nella nostra casa. Non è solo devozione, ma è la prossimità che arricchisce il presbitero della dimensione mariana. Ciò che fa di Maria “Maria” ci è donato. La prima espressione di tale dimensione è quella materna: essere accanto, far crescere, ascoltare con empatia, dare nutrimento, dare vita e dare la vita e scomparire in punta di piedi quando è ora. Essere mariani, in concreto: imparare a ricollocarsi nella trama delle relazioni ecclesiali: fratello tra fratelli e sorelle, a scendere dal piedistallo che a volte ci allontana (presi tra gli uomini per essere costituiti per le cose che riguardano Dio, ma non “uomini del sacro”), a vivere il ministero come servizio (a servizio del sacerdozio regale) sul modello della lavanda dei piedi raccontataci da Giovanni (cfr. Gv 13,1-17), ad integrare gli atti del ministero nella vita spirituale, dentro non dopo! Davvero l’esercizio mariano del ministero plasma la vita spirituale del prete. Il Concilio Vaticano II ci insegna che il ministero non solo esige la santità, ma la favorisce; il modello non è di per sé quello del prete-monaco, ma del prete-pastore; insegna al presbitero l’inserimento nella comunità cristiana e non sopra (cfr. Papa Francesco, “pastori con l’odore delle pecore”, “pastore, non pecoraio”). Al prete è affidata la più autorevole delle parole di Gesù: «Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue», ma sono parole che contemplano il timbro corale della comunità, l’Amen. No all’individualismo, ma sempre più in comunione col presbiterio e col vescovo. Triplice il munus – Maria accanto all’apostolo ce lo ricorda –, non sono quello cultuale, ma egualmente quello profetico e quello missionario.
Nazaret, la cura dei rapporti. Il Cenacolo: le ritrovate ragioni della missione. Efeso: il sacerdozio formato mariano. Questo il Signore ci doni per intercessione della Vergine delle Grazie. Così sia.

Via Crucis vivente

Festa del perdono per i giovani

#Seguimi

Pubblichiamo di seguito l’invito da parte dell’équipe diocesana di Pastorale giovanile.

Scarica la lettera-invito