Giornata del Mandato

Omelia nella XXIII domenica del Tempo Ordinario

Pennabilli (RN), Monastero Agostiniane, 5 settembre 2021

Celebrazione conclusiva della Summer School
“Il giardino. I giovani, il pianeta, il futuro”

Is 35,4-7
Sal 145
Gc 2,1-5
Mc 7,31-37

Una sorpresa: la pagina evangelica di oggi dà un colpo d’ala al nostro lavoro di questi giorni. È tornata di frequente la consapevolezza che tutto è connesso e che l’uomo è sempre più cosciente di questo. Anche le scienze umane confermano questa radicale vocazione dell’essere.

L’evangelista Marco ci riferisce la guarigione che Gesù opera ad un sordomuto. L’anonimo personaggio evangelico è muto perché non sente. Questo è significativo di come noi umani funzioniamo: elaboriamo tutto ciò che sentiamo, tutto ciò di cui siamo nutriti e tutto ciò che ci accade. Parliamo perché ascoltiamo. Viviamo perché siamo in relazione. Se non siamo capaci di ascoltare come il sordomuto, non riusciamo a “dire bene” o a “dire cose belle” (come lascia intendere l’aggettivo greco). La nostra stessa vita è parola. Ma non è mai perfetta. Il nostro modo di essere, il nostro stile, il nostro stare con gli altri, parla. Siamo su questa terra per parlare (comunicare). Le prime grida di un bambino dicono la sua voglia di esprimersi, una voglia che continua tutta la vita. Noi tutti vorremmo esprimerci al meglio, ma spesso non vi riusciamo. A volte le frustrazioni più grandi derivano dal non essere stati capaci di dire il nostro desiderio più profondo e più vero.
Il sordomuto è metafora dell’uomo “incompleto”, una creatura di Dio che porta una ferita: non riesce ad ascoltare e a parlare, condizione che non lo fa essere in relazione. Di fronte a quest’uomo “incompleto” Gesù si presenta come colui che porta a compimento la creazione.
Non è un caso se il Vangelo di oggi inizia con l’indicazione di un territorio pagano. Marco vuol farci capire che Gesù non è solo il Messia di Israele, ma è Messia per tutta l’umanità: il suo messaggio è per tutti. È appunto in questo territorio che gli conducono il sordomuto. Quel sordomuto è emblema di tutti noi. Anche a noi accade di non riuscire ad ascoltare profondamente. Così viene presentata a Gesù la nostra condizione. Che cosa viene chiesto a Gesù? Di imporre le mani al sordomuto: chiedono un gesto che esprima contatto, contatto fisico. Dopo anni di Covid abbiamo imparato quanto questo sia decisivo e rischioso. Capiamo meglio le usanze in Israele: il contatto fisico diventa contagio; chi tocca un essere impuro, malato, disabile, contrae, in qualche modo, la sua impurità. Gesù, allora, diventa “contagiato”, coinvolto, “sordomuto”. Gesù diventa la malattia di coloro che guarisce, fino a questo punto si spinge la sua empatia. Tra le righe Marco allude al sordomuto per eccellenza: il Crocifisso. La croce è il silenzio di colui che non riesce più a parlare, il silenzio di un Dio, il silenzio di colui che attraversa fino in fondo l’incomunicabilità umana. Gesù muore per rendere di nuovo al sordomuto la capacità di relazione.

Chiedono a Gesù di imporre le mani al sordomuto. Gesù fa molto di più: «Accogliendolo in disparte», lontano dalla folla, gli «caccia le dita negli orecchi». Quell’uomo non parla perché non è stato mai accolto. Il verbo “accogliere” è molto importante: esprime ciò di cui quell’uomo aveva più bisogno. È una necessità che abbiamo tutti…
L’accoglie in disparte: lo toglie dalla folla e dalla rete paralizzante e assordante delle false relazioni. Sono le relazioni sbagliate che ci rendono sordi e poi incapaci di dire, di essere noi stessi; tante volte viviamo relazioni che ci imprigionano.
Tutti abbiamo bisogno di essere presi da parte da Gesù, tolti dal nostro tessuto paralizzante. Questo è la preghiera! Tutti i giorni abbiamo bisogno della preghiera e di questa esperienza: essere accolti nell’intimità da Gesù. «Tu – dice Gesù – sei solo mio; non devi rendere conto agli altri; non devi dimostrare niente a nessuno. Tu sei solo mio e sei prezioso per me, talmente importante che io darò la vita per te, pur di restituirti alla pienezza delle tue relazioni».
Gesù gli cacciò le dita negli orecchi (gesto imbarazzante!). Veramente qualcosa di molto intimo. Ed è questa esperienza di intimità con il Signore che apre la possibilità di ascoltare. La fede non è una teoria, non è una dimostrazione dell’esistenza di Dio, non un elenco di divieti… La fede è questo incontro intimo che guarisce nel profondo.
Con la saliva gli toccò la lingua (così il testo greco: «sputò toccandogli la lingua»). La saliva che cos’è? La saliva è la secrezione dell’intimità ed è ciò che cambia di valore a seconda della relazione che si ha con una persona. Il bacio che cos’è se non uno scambiarsi la saliva? Gli innamorati amano quello scambio di liquido intimo che è il bacio. Ma se invece la saliva è di un estraneo dà fastidio. Fra Gesù e il sordomuto c’è qualcosa come un bacio. Non ha nessuna valenza erotica, ma ha tutto il significato dell’intimità che guarisce. Allora si scioglie la lingua e il sordomuto, col cuore guarito, può parlare.
Effatà è parola in aramaico (la citazione dall’aramaico rende l’evento più vicino, come per dire al lettore: «Sta succedendo adesso a te») che significa «apriti». Prendiamo questo imperativo di Gesù come programma di vita: essere attivi nel costruire relazioni autentiche, dare importanza ad ogni persona, mettersi in ascolto profondo fino a sentirsi coinvolti. I rapporti veri sono il dono più bello che possiamo fare e ricevere.

Omelia nella Festa di San Marino

San Marino Città (RSM), Basilica del Santo Marino, 3 settembre 2021

Sir 14,20-15.4
Sal 47
At 2,42-48
Mt 5,13-16

Eccellenze, Autorità civili e militari,
carissimi tutti,
ogni anno ci viene riproposta una pagina stupenda del libro del Siracide. Protagonista è l’uomo che cerca la sapienza. Si potrebbe dire che parla del santo Marino e di ciascuno di noi: chi non cerca la sapienza? Questo cercatore viene descritto nell’atto di inseguirla in tutti i modi: come un segugio che si apposta sui sentieri, spia, sta ad ascoltare, tende l’orecchio… Sorpresa! Ad un certo punto, è la sapienza che gli va incontro. La sapienza viene descritta con i tratti di una madre, perché è premurosa, ha la dedizione di una vergine sposa. La cerchiamo davvero ogni giorno come la cerca il protagonista di questa pagina, come l’ha cercata san Marino? Nella preghiera iniziale abbiamo chiesto di crescere nella consapevolezza di essere continuatori della sua opera.

Abbiamo bisogno di sapienza. Le vie che dobbiamo percorrere sono tutte in salita e piuttosto ardue. Emergono fatti che non sono che la punta di un iceberg. Metto davanti al nostro santo Marino e, attraverso lui, al Signore qualcuna delle problematiche che oggi ci mettono alla prova.

Le migrazioni: non sono un fatto emergenziale, ma un fenomeno di strutturale mobilità umana legata a vari fattori che ostacolano il diritto di vivere nella propria terra; un fenomeno destinato a ridefinire l’aspetto politico, identitario, culturale. Quale soluzione? La si può trovare solamente insieme, facendo appello alla coscienza internazionale. L’interdipendenza – ci ricorda papa Francesco – ci obbliga a vedere il pianeta come patria e casa comune e l’umanità come un popolo. Ce lo ricorda il Vangelo appena proclamato: siamo chiamati ad essere luce per sconfiggere le ombre di un mondo che tende a chiudersi. Preghiamo per le sofferenze e il dolore del popolo afghano; siamo col fiato sospeso in attesa dei prossimi sviluppi: situazione complessa per l’intreccio di tribù ed etnie diverse, condizionata dalla nuova ricchezza delle terre rare e dalla coltivazione e i traffici di droga.

Un’altra emergenza: siamo ancora coinvolti nella pandemia da Covid-19. 4 milioni di decessi, 200 milioni di contagi. I numeri sono approssimativi… se pensiamo a tanti paesi dove i calcoli sono impossibili. In Africa solo l’1% della popolazione è vaccinato. Non è che un esempio. Siamo sulla stessa barca. C’è una cultura da conquistare giorno per giorno per arrivare al “noi”.

Ci sono, poi, problematiche che affiorano nella società – a San Marino, in Italia e nel mondo – gravi interrogativi di carattere etico-antropologico, quali aborto, eutanasia e nuove frontiere sperimentali sull’uomo. È l’essere umano che è in gioco e il rapporto-alleanza che Dio ha stabilito con lui.
Ci sono cattolici impegnati sul fronte sociale, sui diritti umani e sui grandi temi dell’ecologia. Alcuni cattolici accentuano l’attenzione alla salvaguardia dei valori etici non negoziabili; talvolta sembra che tra le due prospettive affiori un solco. Agli uni e agli altri sento il dovere di ribadire come il Vangelo dell’amore di Dio per l’uomo, il Vangelo della dignità della persona e il Vangelo della vita sono un unico e indivisibile Vangelo. Non ci si può considerare cattolici e non riconoscere che la vita umana è sacra perché, fin dal suo inizio, comporta l’azione creatrice di Dio e rimane per sempre in una relazione speciale con il Creatore, suo unico fine. Solo Dio è il Signore della vita, dal suo inizio alla sua fine naturale. «Prima di formarti – dice la Sacra Scrittura – nel grembo materno ti conoscevo, prima che tu uscissi alla luce ti avevo consacrato» (Ger 1,5): l’esistenza di ogni individuo, fin dalle sue origini, è nel disegno di Dio e non ne uscirà mai, perché la vita va oltre, è per sempre.
Sono davanti ad un’assemblea del santo popolo di Dio che deve essere rassicurato su questi temi alla luce della Parola del Signore. Per il credente, come per il non credente, ci sono altrettanti argomenti di ragione che portano a non ammettere che anche un solo momento del meraviglioso processo della vita possa essere lasciato in balia dell’arbitrio dell’uomo.

Considerare, discernere e agire su questi temi di società è parte essenziale della fede cristiana e nostra “identità umana”. Si tratta di dare un’anima al sociale. Il nostro impegno non può essere ridotto a pratiche formalmente funzionali. L’indice di sviluppo oggi non si valuta solo dall’economia, ma soprattutto dal rispetto dei diritti umani, dal rispetto dell’altro: il diverso, il fragile, il nascituro…
Permettetemi di riprendere l’appello che ho pronunciato alla città di San Leo nella festa del Patrono. Mi riferisco all’attuale situazione pastorale delle nostre comunità: «Dobbiamo riprendere con rinnovato entusiasmo le attività pastorali dopo le chiusure e le restrizioni. Le nostre chiese, pur con le necessarie precauzioni, ora sono spalancate. Altrettanto le sale di comunità per gli incontri e la catechesi. Invito tutti, ragazzi, giovani e adulti, a riaccostarsi alla vita pastorale ordinaria. Ora è il tempo di riprendere la vita consueta, senza buttare via quello che c’è stato di bello, nonostante tutto, come i collegamenti online, le liturgie domestiche in famiglia e tra famiglie… L’incontro e la relazione sono sostanza dell’esperienza cristiana, non sono un dettaglio. Vedo l’esitazione di alcuni e la dispersione di tanti. Metto in conto anche la pigrizia e il disamore. Qualcuno si aspettava uno slancio di fede e un accrescimento di fervore in tempo di pandemia. Un’ingenuità? La pandemia, invece, ha evidenziato i segni profondi della secolarizzazione, ha smascherato l’abitudine e l’andazzo. Ebbene, ritorniamo. Dalla dispersione all’unità: essere popolo di Dio. Chi ha fede più solida aiuti i più deboli, i genitori accompagnino i figli al rientro, le associazioni mostrino la vitalità e l’audacia del loro carisma. Questo momento storico assomiglia al ritorno del popolo di Israele dopo l’esilio. L’invito al ritorno fu descritto con accenti lirici dal secondo Isaia (cfr. Is 40). Ma i profeti post-esilici, molto realisticamente, non hanno risparmiato parole severe a chi si è attardato, o peggio, adattato nel contesto dell’esilio. Il profeta Aggeo se la prende per quanti, pur rientrati nei confini, pensano ai loro affari o trascurano la casa di Dio (cfr. Ag 1,2-7). Ripartiamo. Riprendiamo. Ricominciamo. Non è questione di numeri, ma di qualità, di fervore!
A tutti rilancio le parole evangeliche: «Voi siete il sale della terra; ma se il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si potrà rendere salato? […] Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città collocata sopra un monte».
La Repubblica di San Marino, che ha una tradizione millenaria, può essere «casa costruita sulla roccia», sui valori del Vangelo: cura dei più deboli, amore-amicizia nella reciprocità, visione dell’uomo come realtà capace di amare, di ricominciare, di perdonare, di accogliere i più deboli, con l’apertura ai valori dello Spirito: onestà, verità, fiducia…
Marino, uomo santo, che vuoi l’uguaglianza, la libertà, nello spirito della fraternità per tutti: prega per noi.

Omelia alla Veglia dei giovani per San Marino

San Marino Città (RSM), chiesa dei Santi Pietro, Marino e Leone, 2 settembre 2021

Sir 14,20-15.4
Sal 47
At 2,42-48
Mt 5,13-16

Se dico: “vocazione”, a voi che cosa viene in mente?
Molti penseranno subito alla vocazione religiosa: fare la suora o il sacerdote. Altri penseranno alla vocazione al matrimonio e alla famiglia. In certi casi è una vocazione anche essere single. Si dice vocazione anche quando una persona ha un talento artistico o musicale.
Stasera vorrei dirvi che c’è una vocazione, cioè una chiamata, che viene prima, prima di ogni altra, prima che sia riconosciuto il talento, prima che sia deciso lo stato di vita: una vocazione basilare, talmente importante che la si dà per scontata, quasi non ci si pensa, non se ne parla, eppure è la più bella delle vocazioni, la più imprevedibile delle chiamate e la più bella. Spesso comincia in un modo e poi va a finire in un altro, un po’ come le figure di un caleidoscopio; un movimento brusco distrugge il disegno che appariva prima, ma ne forma subito un altro, ancora più fantasioso. Se dovessi dirla in termini scolastici: non è una chiamata a fare il dettato, semmai a fare il tema.

Qual è allora questa chiamata così formidabile, bella, basilare? È la prima chiamata, la chiamata alla vita, ad essere vivi. Domattina provate: spalancate la finestra, guardate fuori, entrate in relazione con le persone che incontrate… È la vita. La vita è molteplicità di relazioni, di rapporti, di connessioni.
Chi ti ha rivolto questa chiamata?
Penserete subito, giustamente: il papà e la mamma. Nella stragrande maggioranza dei casi si nasce perché desiderati, attesi, invocati: si è stati chiamati da un atto d’amore, con tutto quello che ne segue. Ognuno ha tante relazioni, tanti contatti con gli altri, persino con una comunità. Il nostro nome è scritto all’anagrafe: non è ovvio; è bello sapere che facciamo parte di un popolo, di una comunità, che siamo registrati in essa come soggetti con diritti e doveri.
Se andiamo più in profondità possiamo dire: sono nato io, ma avrebbe potuto nascere mio fratello. Perché proprio quello spermatozoo, fra tanti che avrebbero potuto raggiungere il bersaglio, si è unito a quell’ovulo?
Qui emerge un’altra parola importante: la libertà. Ognuno di noi potrebbe pensare di essere vivo “per caso”, ma nella libertà possiamo riconoscere che c’è un progetto su ciascuno, che non può essere il caso a spiegare le vicende della vita.
In qualche viaggio tra le nostre montagne, tra un paese e l’altro, qualche volta mi è capitato di provare un po’ di scoraggiamento: perché ho accettato di fare il vescovo? In qualche momento di turbamento mi ha aiutato pensare a voi, a dei “voi” molto concreti, a persone che non avrei mai incontrato e invece sono diventate “mie”, persone care, uniche per me. Dare una risposta positiva, dire “sì”, è sempre creativo! Ognuno può risolversi e dire: è tutto un caso, oppure affidare la propria vita ad un “tu”. Quando penso ai giovani, a voi in particolare, vedo in voi una manifestazione della bellezza della vita. I giovani hanno il senso dell’avventura (cioè del futuro) fino ad essere spericolati, perché desiderano assaporare ogni cosa della vita; così nell’amore agli sport estremi, alla velocità, alla musica a tutto volume; anche nelle esperienze di droga e alcol, certamente sbagliatissime, vedo il desiderio di andare negli abissi della vita, sperimentando tutto fino in fondo. Come dice un cantante, Irama, nella canzone “Giovani”: «I giovani sono ladri di pelle d’oca». Queste emozioni fortissime, da un certo punto di vista, smascherano un innato desiderio di vita.
Lasciatemi dire che non c’è niente di più “spericolato”, di più emozionante, di più originale che seguire Gesù, nella libertà. Lui che ti ha chiamato ti dice che la vita è ancora più bella se impari a decentrarti, se vivi “fuori” di te, cioè se apri la finestra, come dicevo all’inizio: una metafora per dire il desiderio di “spazi infiniti”. Ci aspettano tante sorprese. Pensate a san Marino, un dalmata che, secondo la tradizione, fugge dalle persecuzioni, sbarca a Rimini, lavora come scalpellino; conoscendo la sua personalità gli chiedono di salire sui monti, dove c’è tanta gente che non ha mai sentito parlare di Gesù e tutta la sua vita è come un caleidoscopio, ma non per caso: c’è un disegno. Oggi, dopo 1700 anni, siamo qui a parlare di lui, ad ispirarci al suo programma. Quando penso che non sono in balia del caso, ma che uno mi ha voluto e mi ha chiamato attraverso i miei genitori, ho la chiave per capire i giorni di nebbia, di buio: so che nulla è “a caso”.
Ho imparato molto da uno dei miei fratelli. Anni fa, il 15 maggio, avrebbe dovuto partire come missionario per il Giappone. Era destinato alla città di Osaka. Quindici giorni prima ha avuto un incidente stradale ed è rimasto paralizzato. Da allora vive su una carrozzella. Potremmo pensare che la sua vita sia un fallimento. No. Lui è convinto che la sua vita è una risposta ad una Persona, il Signore Gesù, e a tante persone che chiedono amicizia, compagnia e aiuto. Ha ripreso a fare il missionario, è andato in Congo con la sua carrozzina. Tantissime volte da solo, senza accompagnatori. Ha vissuto tante esperienze, tanta vita! Non ha mai pensato che la sua vita fosse in balia del caso.
Vivere è rispondere. Immagino la vita come un rotolo sigillato: non sai quello che è scritto dentro. Lo ricevi nelle tue mani con coraggio. Sai in chi poni la tua fiducia (cfr. 2Tm 1,12) e tutto si colora!
Come possiamo vivere bene la nostra vita?
Vi affido tre parole che cominciano per “R”. Prima parola: ritmo. Ci sono tanti passi diversi nella nostra vita, come in una danza. È importante vivere la pluralità, aprirsi a nuove esperienze, senza tirarsi mai indietro. Ritmo vuol dire anche che c’è un giusto tempo per ogni cosa e si può passare da un’azione all’altra con una certa disinvoltura, abbattendo la pigrizia. Papa Francesco invita i giovani a non “balconare”, cioè a non guardare la vita dal balcone, ma a buttarcisi dentro, facendosi coinvolgere. Seconda parola: regola. Per vivere bene occorre anche una misura, che esprime la nostra libertà. Ad esempio, invece di bere una bottiglia intera di birra, potrebbe essere più salutare berne metà, come esercizio di libertà; così come siamo liberi di decidere di conservare il nostro corpo e la nostra fantasia nella purezza: poter dominare le pulsioni, che sono anch’esse vita, ci fa essere veramente liberi. Se ad un ruscello metti argini diventa torrente e fiume. Terza parola: rito. Ogni cosa che facciamo ha una sua sacralità. Tutto è prezioso, perché tutto è vita: apparecchiare la tavola, scrivere un progetto, parlare con un amico, giocare una partita… Tutto è sacro. Tutto è da vivere con solennità. Ogni attimo è prezioso. Non si può vivere di ricordi del passato: il passato non è più. Del futuro non sappiamo niente. Il momento presente è come un’ostrica che contiene una perla.
Chiedo a san Marino, nostro patrono e fondatore della Repubblica che porta il suo nome, che ci aiuti a vivere queste tre “R”: ritmo, regola, rito.

Convegno delle Famiglie

Comunicato stampa – Vicinanza ai fratelli dell’Afghanistan

Vicinanza ai fratelli dell’Afghanistan

Le drammatiche immagini di un paese imprigionato nella paura e nel terrore pongono interrogativi e invitano alla solidarietà umana e spirituale.
All’Angelus della scorsa domenica, Papa Francesco ha chiesto a tutta la Chiesa e ad ogni persona di buona volontà di pregare con Lui il Dio della Pace “affinchè cessi il frastuono delle armi e le soluzioni possano essere trovate al tavolo del Dialogo”.
Tutto il mondo segue con apprensione gli avvenimenti che stanno segnando l’Afghanistan. Dopo una guerra di vent’anni, dai costi umani ed economici incalcolabili, il ritiro delle forze armate statunitensi lascia il Paese in un tragico baratro. Saranno i più deboli a pagare un prezzo altissimo.
La Caritas della Diocesi di San Marino-Montefeltro, insieme a Caritas Italiana, segue ogni drammatico momento e si impegna fin da ora a contribuire con aiuti umanitari, attraverso l’appoggio di Caritas Internationalis già attiva per l’accoglienza profughi dalle primissime ore.
Nell’esprimere profonda preoccupazione per tutta la popolazione afgana e in particolare per le donne ed i bambini assicuriamo l’interessamento attivo affinché, in accordo con le amministrazioni locali italiane e sammarinesi, si possa dare un concreto contributo ad accogliere famiglie di profughi provenienti da quelle terre. In particolare, attraverso la Caritas Vicariale di San Marino si è disponibili a collaborare con le istituzioni della Serenissima Repubblica, affinché ci sia una fattiva accoglienza all’interno del territorio sammarinese. Anche per il territorio italiano della Diocesi si stanno cercando possibilità di accoglienza.
Chiediamo anche, attraverso la rete solidale delle famiglie, Chiese Domestiche, la volontà di farsi carico dell’accoglienza stessa, unitamente alla preghiera chiesta ed auspicata dal Santo Padre Papa Francesco.

Per ulteriori informazioni caritas@diocesi-sanmarino-montefeltro.it

Il Direttore
Caritas Diocesi San Marino-Montefeltro

Luca Foscoli