Giornata dell’Università Cattolica

DOMENICA 4 OTTOBRE SI CELEBRA IN DIOCESI
LA GIORNATA PER L’UNIVERSITA’ CATTOLICA

Da quasi un secolo la “Giornata per l’Università Cattolica” è un appuntamento volto a creare attenzione, stima profonda, sostegno reale verso l’Ateneo del Sacro Cuore. Un sistema istruttivo complesso: composto da cinque campus distribuiti su tutto il territorio nazionale, una fitta trama di rapporti internazionali e un’offerta formativa ricca e articolata. È questo il modo in cui l’Università Cattolica offre, anno dopo anno, il suo contributo alla formazione delle nuove generazioni ed al loro inserimento professionale, alla crescita del tessuto socio-economico del Paese ed all’avanzamento della ricerca scientifica.

La Giornata Universitaria, promossa dall’Istituto Toniolo (Ente Fondatore dell’Un. Cattolica), è un’occasione di approfondimento circa la natura e lo scopo dell’Università, i valori originali che guidano le scelte di ogni giorno.

È un atto di fiducia nei giovani: da tempo il Toniolo e la Cattolica sostengono con numerose iniziative la formazione, il diritto allo studio, i percorsi di eccellenza, le esperienze internazionali di migliaia di studenti.

Il tema della 96ª Giornata per l’Università Cattolica è: “Alleati per il futuro”. Guardare al futuro è un’esigenza fondamentale per chiunque voglia dare compimento alle attese dell’umanità. Ma per pensare e costruire il futuro bisogna partire dai giovani e investire su di loro. Per questo il futuro si declina sempre con l’educazione e sarà tanto più positivo quanto più solido e qualificato sarà l’investimento educativo. “Alleati per il futuro” significa collaborare assieme per sviluppare una visione antropologica integrale in grado di contrastare i processi di frammentazione e disgregazione che insidiano il cammino degli uomini del nostro tempo a livello individuale, familiare e sociale.

I giovani guardano con fiducia ai luoghi dell’educazione e del sapere. Cercano maestri che sappiano aiutarli a maturare dal punto di vista umano, professionale, culturale e spirituale per diventare protagonisti del futuro. Servono volti e ambienti dove poter scoprire e coltivare i talenti per farli fruttare e metterli a servizio del bene comune.

È questa la missione di un Ateneo che da sempre, fedele alla geniale intuizione del fondatore p. Agostino Gemelli e dei suoi collaboratori, vuole offrire ai giovani studenti le migliori condizioni per assimilare e custodire il patrimonio di conoscenze accumulate nel corso dei secoli, declinandole nel contempo con i nuovi contributi della scienza e della cultura al fine di raggiungere sintesi sempre più appropriate e corrispondenti alla dignità e alle più alte aspirazioni dell’animo umano.

La Delegazione Diocesana dell’Ass. Amici dell’Un. Cattolica

Discorso all’Assemblea diocesana unitaria del Mandato

San Marino Città (RSM), chiesa dei Santi Pietro, Marino e Leone, 27 settembre 2020

La chiesa risuona ancora dei canti di una comunità in festa ed è ancora profumata dalla fragranza del Sacro Crisma della Prima Messa e dell’Ordinazione sacerdotale di un nostro giovane, don Mattia Benedettini, prete e prete salesiano. Diciamo grazie al Signore per il dono di questo giovane che è cresciuto qui, nell’oratorio, e invochiamo senza stancarci il dono di tante vocazioni di speciale consacrazione. Ieri una ragazza, suor Rita Letizia, a Sant’Agata Feltria ha fatto la sua professione semplice. Preghiamo anche per lei.
Tiro alcune conclusioni per questo straordinario pomeriggio, “festa del rientro”, “celebrazione del Mandato” a voi, operatori pastorali, e “lancio del nuovo Programma diocesano”. Lo faccio attraverso tre figure.
La prima. Vi succede di giocare a carte? In un certo senso oggi proviamo l’emozione della “ridistribuzione delle carte”, che rende il gioco più interessante, stimola le capacità, apre a nuove possibilità. Fuori di metafora: se ci è chiesto un “sì” nella fede, questo è sempre generativo.
La seconda immagine è presa dal libro del Qoelet. Si parla di una corda che è solida perché intrecciata a tre capi (cfr. Eccl 4,12). Se fosse uno solo si spezzerebbe, ma tre insieme sono più resistenti: “Funiculus triplex”.
Ci tengo a rimarcare la concatenazione dei passaggi pastorali, perché stiamo sviluppando un’unica esperienza: l’incontro con Gesù Risorto (il Big Bang della nostra fede), l’innesto in questo mistero attraverso il sacramento del Battesimo e l’irresistibile esigenza di comunicarlo a tutti, la missione. Si sbaglia se si dice che quest’anno facciamo la campagna della missionarietà. No, siamo sempre a quella mattina del giorno di Pasqua o, se volete, al giorno della Pentecoste. C’è tutta una vita che, illuminata dalla Pasqua, può trasformarsi e far luce. Una testimonianza trasparente, contestuale, innovatrice per il nostro territorio, per la nostra città. Dunque, la missione non è un altro tema, ma approfondimento ulteriore della dinamica pasquale.
Terza immagine: il quaderno che vi verrà dato tra poco. Lo sviluppo del Programma pastorale tocca ciascuna delle nostre parrocchie. Si è parlato anche di “sinfonia” (Bach ha fatto dei corali ad otto voci, tutte intonate). Tutte le parrocchie, tutti i gruppi, tutti i movimenti, tutto quello che è diocesano, dev’essere intonato a questa proposta. Ogni realtà la applica, la interpreta, la realizza in base alle proprie esigenze e alle proprie risorse.
Oggi non avete parlato, siete stati solo ascoltatori, ma il 22 maggio 2021, vigilia di Pentecoste, ci scambieremo i doni, le esperienze dell’anno. Ci racconteremo come avremo saputo essere, con fantasia e creatività, speranza in un mondo ferito. Buon cammino!

Omelia nell’Ordinazione presbiterale di don Mattia Benedettini sdb

San Marino Città (RSM), chiesa dei Santi Pietro, Marino e Leone, 26 settembre 2020

Ger 1,4-9
Sal 97
2Cor 4,1-2.5-7
Gv 15,9-17

Un saluto affettuoso a tutti, soprattutto alla signora Alba, mamma di Mattia, che ho conosciuta quando abbiamo pregato insieme a papà Cesare.
Saluto la famiglia Salesiana. È bello che sia presente così numerosa.
Solo la Parola di Dio può spiegarci compiutamente ciò che qui e adesso sta per accadere, sia su di noi – perché lo Spirito scenderà su questa Chiesa – sia su di te, caro don Mattia. Anche uno sguardo soltanto terreno resta affascinato: qui c’è una bellezza che diventa splendore. È un fatto.
Avete sentito la breve biografia di Mattia che è stata appena letta. Caro Mattia, Dio è entrato nella tua vita non come un’idea, un’emozione o una filosofia. È vero, importanti sono stati l’oratorio, gli amici, le frequentazioni (ti immagino quand’eri liceale qui a San Marino)… Posso dire che è stata un’irruzione inattesa, a tratti anche sfidante, da parte di una Persona che ti ha messo in movimento e ha infranto lo scorrere di una giovinezza come tante. Quanti gruppi, quanti amici, quanti maestri… Non posso non ricordare il tuo primo parroco, don Pino, e la tua maestra della Scuola d’infanzia, suor Maria, qui presenti.
Una voce si è fatta sentire: «Prima di formarti nel grembo di tua madre ti conoscevo e ti ho stabilito profeta» (cfr. Ger 1,5). Come Geremia non hai potuto trattenere la sorpresa. «Ahimè, Signore Dio, io non so parlare, perché sono giovane» (Ger 1,6). Una reazione che non è una sottrazione per ignavia, ma consapevolezza della propria inadeguatezza. Poi, la replica del Signore: «Ecco, ti metto le mie parole sulla bocca» (Ger 1,9). Così dicendo il Signore stende la mano su di te, accarezza le tue labbra. Notate la concretezza…
Tra poco ci saranno l’imposizione delle mani e gli abbracci, anche se, per la circostanza, solo col cuore. La tua vocazione, come ogni altra vocazione, è una prova dell’esistenza di Dio!
Abbiamo attualizzato il racconto della vocazione del profeta Geremia, caratterizzato da una straordinaria semplicità. Il profeta racconta come Dio l’ha chiamato, come egli abbia provato a resistere e come Dio l’ha vinto e rassicurato. Più avanti Geremia dirà: «Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre, mi hai fatto forza e hai prevalso» (Ger 20,7). Il Signore ha confermato la chiamata e assicurato la sua prossimità e protezione. Uno schema classico, si direbbe. Però un’avventura personalissima e sempre nuova, unica, la tua, Mattia.
Ecco, messaggero di Dio, porterai esclusivamente la Parola di Dio, non le tue opinioni o le tue parole. Il tempo che verrà è come un rotolo di pergamena sigillato. Chi può leggere quello che contiene scritto?
Noi preghiamo e ti siamo vicini perché tu possa dire con totale fiducia: «Ecco, Signore, io vengo», senza aver disteso quel rotolo. «In capite libri, de me scriptum est, ecce venio» (Sal 39,8): sono le parole che l’autore della Lettera agli Ebrei mette sulle labbra del Verbo che si incarna. Allora farai esperienza di una forza insospettata… Ma da dove vengono questo coraggio, questa libertà, questa energia (cfr. Mc 6,1-6)?
Nel contempo farai esperienza della fragilità, spaesante talvolta. Sarai forte perché il Signore stesso agirà e parlerà attraverso di te, sarai fragile per il tuo limite e per la percezione di essere, talvolta, inascoltato e incapace di scalfire l’indifferenza di tanti.
Un caro amico prete, mi scrisse: «Ho l’impressione di essere un “vu’ cumprà”. Non interessa a nessuno quello che ho da dire». Ma non è così: c’è molta sete di infinito, molto desiderio di verità e di ricerca di Dio. Il Signore metterà in moto le tue risorse, sconosciute forse persino a te, trasformerà la tua debolezza in tenacia incrollabile. «Noi – scrive l’apostolo Paolo – non predichiamo noi stessi, ma Gesù Cristo, il Signore». E aggiunge: «Quanto a noi, siamo i vostri servitori per amore di Gesù» (2Cor 4,5). Ecco, servo per amore. Un giorno mi hai confidato una sintesi del carisma e della pedagogia di don Bosco a proposito dei cuori che, a volte, sembrano impenetrabili, i cuori degli adulti, ma anche quelli dei giovani. La frase è questa: «Essere instancabili cercatori del punto accessibile al bene che c’è in ogni giovane, in ogni persona». Davvero ogni cuore racchiude nel profondo, come dentro ad una oscura miniera, quella luce che il Creatore fa brillare all’inizio di ogni esistenza. Come ci ha ricordato san Paolo nella Seconda Lettura: «Dio disse: “Rifulga la luce dalle tenebre”» (2Cor 4,6). Che ognuno, attraversato “il punto accessibile”, possa scoprire questa luce e la sua dignità di figlio a somiglianza di Cristo. Introdurre a questa esperienza è l’appassionante “mestiere” del prete, del prete salesiano. Paolo adopera l’immagine del “vaso di creta”, che rende bene l’idea della fragilità dello strumento che il Signore ha scelto. La creta è un materiale non particolarmente prezioso, ma nasconde un tesoro.
Dunque, è grande la chiamata, grande il progetto, grande la promessa. «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» (Gv 15,16): questa è la chiamata. «Nessuno ha un amore più grande di questo, dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13): questo è il progetto. «Non vi chiamo più servi, ma amici, perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,11): questa è la promessa.
Siamo in una di quelle pagine evangeliche in cui è custodita l’essenza del cristianesimo, le cose determinanti della fede. Le rileggo: «Come il Padre ha amato me, io ho amato voi. Rimanete nel mio amore» (Gv 15,9). «La strada c’è, ci siete già dentro, allora restate, non andatevene, non fuggite via – sembra dire Gesù – rimanete in questo amore».
Spesso succede di resistere e persino di difenderci dall’amore. Abbiamo il ricordo di tante ferite, illusioni; ci aspettiamo tradimenti, ma Gesù propone la sua pedagogia: «Amatevi gli uni gli altri» (Gv 15,12). Non semplicemente «amate», ma «amatevi gli uni gli altri», nella reciprocità, nella comunione di cui la comunità è la concretizzazione. Con la parola che fa la differenza cristiana: «Come io vi ho amato». Come Cristo che lava i piedi, che non manda via nessuno, che va in cerca dell’ultima delle sue pecorelle. E perché rimanere in questa logica? Per essere nella gioia! Dio è un Dio felice, perché parla nella sua gioia; si rivela come un Dio gioioso che vuol far crescere dei figli felici, che amano con cuore libero e forte, e di questo provino piacere, gustandone la bellezza. Così sia.

Ordinazione presbiterale don Mattia Benedettini

Intervento al Collegio plenario dei Docenti dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose interdiocesano “A. Marvelli”

Rimini (RN), 14 settembre 2020

Cari Docenti,
sono contento di essere qui con voi per dirvi la mia gratitudine per quello che state facendo per la Chiesa e in particolare per le nostre Diocesi di Rimini e San Marino-Montefeltro.
Un saluto affettuoso a mons. Francesco Lambiasi e al direttore dell’Istituto, prof. Natalino Valentini, col quale sono spesso in contatto, facendomi partecipe della vita dell’Istituto. Ritengo che la fatica che facciamo per sostenere e incrementare la riflessione sulla fede e il servizio formativo alle nostre comunità sia di fondamentale importanza. A volte siamo tanto presi dal fare, dal rincorrere scadenze che rischiano di rubarci l’essenziale. Mi rendo conto, sempre più, come sia importante e decisivo privilegiare questa apertura e intelligenza davanti al mistero del Signore.
Mi presento: sono originario di Ferrara; ho lavorato molto nella pastorale dei ragazzi; per vent’anni sono stato direttore spirituale nel Seminario diocesano e, infine, parroco alla periferia della città. Mi sento un po’ vostro collega perché ho fatto per alcuni anni lezione all’Istituto di Scienze Religiose di Ferrara (insegnavo Catechetica e Teologia spirituale).

Attraverso quattro immagini vorrei dirvi quello che sto vivendo come vescovo di San Marino-Montefeltro. Parto dal positivo: mi trovo in una Chiesa raggiante, anche se ha sofferenze, dubbi e tensioni. È raggiante perché gode della presenza di Gesù Risorto. È una Chiesa grembo perché molto impegnata nell’iniziazione cristiana e nell’aggancio a quel vasto popolo che accompagna i bambini e i ragazzi ai sacramenti (a volte, purtroppo, poco apprezzato). È una Chiesa che va riscoprendo sempre di più i laici (nonostante qualche resistenza o ritardo). Ciò a causa del venir meno di tante forze “clericali”, ma soprattutto per convincimento, sulla base del Battesimo e dell’universale chiamata alla santità e all’apostolato.
L’ultimo fotogramma col quale descrivo la Chiesa di San Marino-Montefeltro, è quello di una Chiesa inquieta. Ho partecipato all’applauso fragoroso quando, a Firenze, in Santa Croce, Papa Francesco ha detto: «Mi piace una Chiesa Italiana inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti. Desidero una Chiesa lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza» (Papa Francesco, Discorso al Convegno ecclesiale della Chiesa Italiana, Firenze, 10 novembre 2015). Dunque, una Chiesa inquieta perché vive le tensioni di oggi: incertezze, ansie, cedimenti alla mentalità secolarizzata, calo di presenze, scandali… Ma c’è anche un’accezione positiva nell’aggettivo “inquieto” applicato alla Chiesa: una Chiesa protesa a tutti, nella costante ricerca del dialogo; una Chiesa che è come una madre che non si dà pace per i suoi figli; una Chiesa che cerca senza sosta, si libera da schemi e sa mettersi in questione. Certo, l’equilibrio non è semplice. Si può trovare l’equilibrio camminando piano sul filo, ma c’è anche chi lo trova girando più forte come il giroscopio.
Sento la responsabilità di vescovo afferente a questo Istituto Superiore di Scienze Religiose. Dico grazie a voi professori e a tutto il personale per il servizio che svolgete e di cui gode la mia Diocesi. Penso ai 35 docenti di Religione Cattolica che si sono formati qui ed hanno un rapporto costante con voi; ai diaconi (9 già ordinati) e ai candidati diaconi che si preparano al ministero in questo Istituto. Voi garantite un appoggio competente a diversi Uffici Pastorali e siete disponibili a sostenere corsi di Sacra Scrittura nelle zone periferiche della Diocesi. Penso ai seminari nei quali ci aiutate ad affrontare problematiche e temi di attualità. Vi penso come una comunità “laboratorio”: offrite il sapere della teologia, della patristica, della storia, ma fate anche ricerca. Non posso non esprimere il mio compiacimento per la rivista scientifica che l’Istituto pubblica.

«Dio ha posto alcuni come maestri…» (1Cor 12,28): quando avete detto “sì”, avete accolto un vero e proprio ministero. Il ministero del teologo e il Magistero della Chiesa sono realtà che si armonizzano. L’insegnante dell’Istituto è uomo di Chiesa, uomo nella Chiesa, uomo della Chiesa e uomo a servizio della comunità. Egli ama la bellezza della Chiesa.
Cari amici, la Chiesa ha rapito il vostro cuore: è la vostra patria spirituale. Per dirla con l’evangelista Giovanni, la Chiesa è «vostra madre». Dice, infatti, Gesù ai discepoli, a voi teologi: «Ecco mia madre, ecco i miei fratelli» (cfr. Gv 19,27). Nulla di ciò che tocca la Chiesa vi lascia indifferenti o insensibili. Proprio perché uomini della Chiesa siete coinvolti nel suo oggi. Ma ne amate anche il passato, ne meditate la storia, ne venerate e ne esplorate la Tradizione e questo non per un vezzo, e neppure perché disprezzate o sottovalutate la Chiesa nel nostro tempo, al contrario. E se il teologo ama ricordare col pensiero i tempi della Chiesa nascente, lo fa perché – come dice sant’Ireneo – in essa riecheggiano ancora le parole di Gesù, il suo sangue scorre ancora caldo. Senza cadere nel mito dell’Età dell’oro… Il teologo, uomo della Chiesa, sa che Cristo è sempre presente, oggi come ieri, per continuare la sua vita, non per ricominciare ad ogni epoca o ad ogni anno pastorale. Non fossilizza la Tradizione, non gli verrebbe mai in mente di richiamarsi, contro l’insegnamento attuale del Magistero, a qualche antico stadio della dottrina o della sua istituzione. Crede che Dio abbia rivelato tutto una volta per sempre, per mezzo del Figlio suo. San Giovanni della Croce, rivolgendosi a Dio dice: «Perché una volta ti manifestavi con segni e sogni, mentre adesso…». Gli viene risposto: «Ma io ho già detto tutto in Gesù Crocifisso (cfr. Giovanni della Croce, Salita al monte Carmelo, libro 2, c. 22)». Bisogna che il teologo sappia concepire e vedere insieme Sacra Scrittura, Tradizione e Magistero.
Sacra Scrittura, Tradizione e Magistero sono quel funiculus triplex che “tiene” perché intreccio di queste tre realtà («…una corda a tre capi non si rompe tanto presto» Eccl. 4,12). La fedeltà del teologo al Magistero non lo dispensa dal dovere di nutrirsi delle Sacre Scritture, della Parola di Dio, il cui studio resterà sempre l’anima della teologia. Non ci si forma alla teologia per un godimento intellettuale o a titolo di curiosità, la stessa con cui si visitano i monumenti. Il teologo è a totale servizio della comunità. Non esita ad impegnarsi per la difesa e per l’onore della sua fede, ma non è estremista, diffida degli eccessi, ci tiene a pensare non solamente con la Chiesa, ma nella Chiesa e questo implica una fedeltà profonda, una partecipazione intima. Si sente figlio, figlio di famiglia nella Chiesa. La fedeltà non si tradurrà mai in durezza, in disprezzo degli altri, in aridità di cuore. L’attaccamento alle verità della fede non sopprime in lui il dono dell’accoglienza. Sa che la Chiesa deve essere un “sì”: chi l’avvicina o la sfiora deve percepirla così.
Voi insegnanti, e tutti i pastori, devono avere una grande cura affinché non ci sia mai un’idea che a poco a poco prenda il posto di Gesù Cristo.
Questo il mio augurio per voi, con tutto il cuore e con immensa gratitudine per quello che fate.

Intervento al Collegio plenario dei Docenti dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose interdiocesano “A. Marvelli”

Rimini (RN), 14 settembre 2020

Cari Docenti,
sono contento di essere qui con voi per dirvi la mia gratitudine per quello che state facendo per la Chiesa e in particolare per le nostre Diocesi di Rimini e San Marino-Montefeltro.
Un saluto affettuoso a mons. Francesco Lambiasi e al direttore dell’Istituto, prof. Natalino Valentini, col quale sono spesso in contatto, facendomi partecipe della vita dell’Istituto. Ritengo che la fatica che facciamo per sostenere e incrementare la riflessione sulla fede e il servizio formativo alle nostre comunità sia di fondamentale importanza. A volte siamo tanto presi dal fare, dal rincorrere scadenze che rischiano di rubarci l’essenziale. Mi rendo conto, sempre più, come sia importante e decisivo privilegiare questa apertura e intelligenza davanti al mistero del Signore.
Mi presento: sono originario di Ferrara; ho lavorato molto nella pastorale dei ragazzi; per vent’anni sono stato direttore spirituale nel Seminario diocesano e, infine, parroco alla periferia della città. Mi sento un po’ vostro collega perché ho fatto per alcuni anni lezione all’Istituto di Scienze Religiose di Ferrara (insegnavo Catechetica e Teologia spirituale).

Attraverso quattro immagini vorrei dirvi quello che sto vivendo come vescovo di San Marino-Montefeltro. Parto dal positivo: mi trovo in una Chiesa raggiante, anche se ha sofferenze, dubbi e tensioni. È raggiante perché gode della presenza di Gesù Risorto. È una Chiesa grembo perché molto impegnata nell’iniziazione cristiana e nell’aggancio a quel vasto popolo che accompagna i bambini e i ragazzi ai sacramenti (a volte, purtroppo, poco apprezzato). È una Chiesa che va riscoprendo sempre di più i laici (nonostante qualche resistenza o ritardo). Ciò a causa del venir meno di tante forze “clericali”, ma soprattutto per convincimento, sulla base del Battesimo e dell’universale chiamata alla santità e all’apostolato.
L’ultimo fotogramma col quale descrivo la Chiesa di San Marino-Montefeltro, è quello di una Chiesa inquieta. Ho partecipato all’applauso fragoroso quando, a Firenze, in Santa Croce, Papa Francesco ha detto: «Mi piace una Chiesa Italiana inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti. Desidero una Chiesa lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza» (Papa Francesco, Discorso al Convegno ecclesiale della Chiesa Italiana, Firenze, 10 novembre 2015). Dunque, una Chiesa inquieta perché vive le tensioni di oggi: incertezze, ansie, cedimenti alla mentalità secolarizzata, calo di presenze, scandali… Ma c’è anche un’accezione positiva nell’aggettivo “inquieto” applicato alla Chiesa: una Chiesa protesa a tutti, nella costante ricerca del dialogo; una Chiesa che è come una madre che non si dà pace per i suoi figli; una Chiesa che cerca senza sosta, si libera da schemi e sa mettersi in questione. Certo, l’equilibrio non è semplice. Si può trovare l’equilibrio camminando piano sul filo, ma c’è anche chi lo trova girando più forte come il giroscopio.
Sento la responsabilità di vescovo afferente a questo Istituto Superiore di Scienze Religiose. Dico grazie a voi professori e a tutto il personale per il servizio che svolgete e di cui gode la mia Diocesi. Penso ai 35 docenti di Religione Cattolica che si sono formati qui ed hanno un rapporto costante con voi; ai diaconi (9 già ordinati) e ai candidati diaconi che si preparano al ministero in questo Istituto. Voi garantite un appoggio competente a diversi Uffici Pastorali e siete disponibili a sostenere corsi di Sacra Scrittura nelle zone periferiche della Diocesi. Penso ai seminari nei quali ci aiutate ad affrontare problematiche e temi di attualità. Vi penso come una comunità “laboratorio”: offrite il sapere della teologia, della patristica, della storia, ma fate anche ricerca. Non posso non esprimere il mio compiacimento per la rivista scientifica che l’Istituto pubblica.

«Dio ha posto alcuni come maestri…» (1Cor 12,28): quando avete detto “sì”, avete accolto un vero e proprio ministero. Il ministero del teologo e il Magistero della Chiesa sono realtà che si armonizzano. L’insegnante dell’Istituto è uomo di Chiesa, uomo nella Chiesa, uomo della Chiesa e uomo a servizio della comunità. Egli ama la bellezza della Chiesa.
Cari amici, la Chiesa ha rapito il vostro cuore: è la vostra patria spirituale. Per dirla con l’evangelista Giovanni, la Chiesa è «vostra madre». Dice, infatti, Gesù ai discepoli, a voi teologi: «Ecco mia madre, ecco i miei fratelli» (cfr. Gv 19,27). Nulla di ciò che tocca la Chiesa vi lascia indifferenti o insensibili. Proprio perché uomini della Chiesa siete coinvolti nel suo oggi. Ma ne amate anche il passato, ne meditate la storia, ne venerate e ne esplorate la Tradizione e questo non per un vezzo, e neppure perché disprezzate o sottovalutate la Chiesa nel nostro tempo, al contrario. E se il teologo ama ricordare col pensiero i tempi della Chiesa nascente, lo fa perché – come dice sant’Ireneo – in essa riecheggiano ancora le parole di Gesù, il suo sangue scorre ancora caldo. Senza cadere nel mito dell’Età dell’oro… Il teologo, uomo della Chiesa, sa che Cristo è sempre presente, oggi come ieri, per continuare la sua vita, non per ricominciare ad ogni epoca o ad ogni anno pastorale. Non fossilizza la Tradizione, non gli verrebbe mai in mente di richiamarsi, contro l’insegnamento attuale del Magistero, a qualche antico stadio della dottrina o della sua istituzione. Crede che Dio abbia rivelato tutto una volta per sempre, per mezzo del Figlio suo. San Giovanni della Croce, rivolgendosi a Dio dice: «Perché una volta ti manifestavi con segni e sogni, mentre adesso…». Gli viene risposto: «Ma io ho già detto tutto in Gesù Crocifisso (cfr. Giovanni della Croce, Salita al monte Carmelo, libro 2, c. 22)». Bisogna che il teologo sappia concepire e vedere insieme Sacra Scrittura, Tradizione e Magistero.
Sacra Scrittura, Tradizione e Magistero sono quel funiculus triplex che “tiene” perché intreccio di queste tre realtà («…una corda a tre capi non si rompe tanto presto» Eccl. 4,12). La fedeltà del teologo al Magistero non lo dispensa dal dovere di nutrirsi delle Sacre Scritture, della Parola di Dio, il cui studio resterà sempre l’anima della teologia. Non ci si forma alla teologia per un godimento intellettuale o a titolo di curiosità, la stessa con cui si visitano i monumenti. Il teologo è a totale servizio della comunità. Non esita ad impegnarsi per la difesa e per l’onore della sua fede, ma non è estremista, diffida degli eccessi, ci tiene a pensare non solamente con la Chiesa, ma nella Chiesa e questo implica una fedeltà profonda, una partecipazione intima. Si sente figlio, figlio di famiglia nella Chiesa. La fedeltà non si tradurrà mai in durezza, in disprezzo degli altri, in aridità di cuore. L’attaccamento alle verità della fede non sopprime in lui il dono dell’accoglienza. Sa che la Chiesa deve essere un “sì”: chi l’avvicina o la sfiora deve percepirla così.
Voi insegnanti, e tutti i pastori, devono avere una grande cura affinché non ci sia mai un’idea che a poco a poco prenda il posto di Gesù Cristo.
Questo il mio augurio per voi, con tutto il cuore e con immensa gratitudine per quello che fate.

Omelia nella XXIV domenica del Tempo Ordinario

Monte Cerignone (PU), 13 settembre 2020

Festa del Beato Domenico Spadafora
Apertura del V Centenario della morte del Beato Domenico Spadafora

Sir 27,33-28,9
Sal 102
Rm 14,7-9
Mt 18,21-35

In questa celebrazione che apre il centenario del Beato Domenico festeggiamo il perdono e la tenerezza del Signore.
L’anno centenario del beato Domenico Spadafora è anche anno giubilare, anno nel quale viene dispensato con abbondanza il perdono di Dio con l’indulgenza concessa dalla Penitenzieria Apostolica.
Dal brano di Vangelo di questa domenica ricavo alcuni punti per la meditazione.
Noi non abbiamo idea della gravità del peccato. Dicevano i padri: «Quanti ponderis sit peccatum (che peso che ha il peccato)». Il peccato contiene ingratitudine, menzogna, cattiveria verso il Signore. Spesso non ce ne rendiamo conto. Ecco perché, se volete sapere che cos’è il peccato, bisogna chiederlo ai santi. Molto spesso vengono raffigurati con in mano il crocifisso, oppure inginocchiati davanti a Gesù Crocifisso. Ma non è per dolorismo: Gesù è risorto, è vivo, e ci ha ottenuto il perdono.
Alla luce di queste considerazioni capisco di più la parabola che Gesù ci racconta… C’era un uomo che aveva un debito enorme (equivaleva al bilancio dello stato di Erode Antipa!). Aveva chiesto al creditore di pagare un poco alla volta. La cifra è iperbolica, per dire quanto grave è il nostro peccato. Dopo esser stato perdonato, quell’uomo incontra un collega che gli deve una piccola somma. La parabola è sempre paradossale, contiene un contrasto perché deve far pensare, è performativa, costringe a prendere posizione. Viene da chiedersi come sia possibile questa esagerazione, questa divaricazione fra i due debiti e le due reazioni. Perché quell’uomo a cui tanto è stato perdonato non ha perdonato a sua volta? Mi sono dato una risposta: colui che aveva quel debito infinito non si è reso conto del perdono ricevuto ed è rimasto nel suo senso di colpa. Una cosa è il senso del peccato, un’altra è il senso di colpa. Chi non crede che è stato perdonato, non perdona. Il debito che contraiamo col nostro peccato è troppo grande, non possiamo restituirlo. Ma il cuore di Dio è capace di questa impresa: il perdono totale!
Entreremo presto in un anno giubilare, un anno in cui il perdono, l’indulgenza, viene largheggiata. Viviamo il perdono, accogliamo questo grande dono e facciamoci convinti che davvero siamo perdonati. Abbiamo bisogno del perdono. Solo allora riusciremo, a nostra volta, ad essere magnanimi, a saper perdonare.
Quand’ero parroco mi capitava spesso di invitare i fedeli alla Confessione. Un parrocchiano mi bloccò dicendo: «Ma siamo così peccatori? Per chi ci ha preso?». Rispondevo che li incoraggiavo perché ricevere il perdono del Signore è un’esperienza dolcissima, di grande tenerezza, anche se non avevano compiuto peccati gravi. La carezza del Signore rincuora e fa sentire la bellezza del suo amore per noi. Allora è meno difficile perdonare: il perdono è una cosa divina, non umana.
Gesù cita indirettamente il canto di Lamec: «Sette volte sarà vendicato Caino, ma settanta volte sette Lamec» (Gen 4,24), così cambia la cifra della vendetta nella cifra del perdono: perdonare sempre!
In internet ho letto di una tecnica giapponese di restauro dei vasi, si chiama kintsugi. In realtà, è una filosofia: quando si rompe un vaso, esso viene aggiustato con una pasta mescolata con l’oro. Viene fuori un vaso ancora più bello, venato d’oro, con le crepe luccicanti. Il perdono, quando lo offri, fa più autentico e forte il rapporto. Perdonare non è “mettere una pietra sopra”, o dare un colpo di spugna – la chiarezza è necessaria – ma è dire: «So che tu non sei il tuo errore, il tuo peccato. Il Signore ti vede come capolavoro, come figlio». Se tutti perdoniamo, miglioriamo il mondo.
C’è il caso – a me è capitato a volte – in cui tra lo sbaglio e il perdono c’è un tempo di mezzo, un tempo di sofferenza. Può essere che si avverta l’imbarazzo di chiedere perdono, anche se lo si desidera con tutto il cuore: c’è qualcosa dentro che frena. A volte si teme perfino di peggiorare la situazione e si è intimiditi, forse anche l’altra persona vive la stessa difficoltà. Il tempo frammezzo fra l’offesa e il perdono non va sprecato: è il tempo dell’espiazione in cui si offre il proprio dispiacere per aver fatto quell’errore e matura la conversione. Quel tempo di sofferenza è anche una richiesta al Signore perché la persona offesa riesca a perdonare e possa nascere un nuovo rapporto. D’altronde, anche le perle nascono dal dolore, dalla sofferenza di un’ostrica ferita da un predatore: altro non è, una perla, che una ferita cicatrizzata, una lacrima che diventa rubino!

Saluto alla International Summer School promossa dall’Università degli Studi della Repubblica di San Marino e dall’Istituto Internazionale J. Maritain

“Politica, economia e relazioni internazionali: quale futuro dopo la Pandemia?”

Piattaforma Zoom, 10 settembre 2020

Il più cordiale saluto a tutti coloro che partecipano a questa Summer School.
Già la copertina del programma promette l’ampiezza e la profondità del lavoro di questi giorni. Una promessa che verrà sicuramente mantenuta.
Ma vorrei sottolineare la pregnanza anche di questo momento: chi parla e chi ascolta, chi modera e chi interviene, vive un’esperienza profonda, nella misura in cui si mette in gioco.
Mi viene in mente il “graffio” che Nietzsche infligge a chi fa delle cose, anche importanti (le loro ginocchia si piegano, e le loro mani si congiungono in adorazione della virtù), «ma il cuore non ne sa nulla»! (Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, II, Dei virtuosi). Non credo sia il caso nostro, di chi ha lavorato per preparare con sapienza ed acutezza questa Summer School, di chi offre la fatica della preparazione dei temi, di chi entra nella piattaforma attiva-mente. L’incontro, lo studio, sono già un evento: un evento di relazione!
A proposito del tema di questa Summer School, amo riferire un’immagine adoperata da un caro amico che sottolinea come il virus abbia alzato il velo di una realtà che ci avvolge sempre, ma della quale spesso – a meno di essere toccati nella carne – riusciamo a dimenticarci, distratti e impegnati nelle nostre attività. La morte, la malattia, il disagio psichico, la paura, il dubbio, la precarietà, non sono salite da qualche settimana sul treno della nostra vita, ma sono in viaggio con noi da sempre. Solo che talvolta, illudendoci di essere al sicuro negli scomparti business o executive, appoggiando sulle orecchie le cuffie con la musica preferita e visitando il vagone ristorante, fingevamo di non accorgercene. Ora il treno si è fermato, è segnalato un guasto grave, abbiamo dovuto scendere; ora siamo tutti insieme sui binari in attesa che riparta e ci rendiamo conto di essere davvero coinvolti in un unico grande viaggio, senza carrozze di prima o seconda classe, senza trattamenti speciali. Il mondo è proprio un “villaggio globale”, la cui salute ora dipende, paradossalmente, anche dalla “distanza” che riusciamo a tenere con i vicini. Ci è imposto di purificare le relazioni prossime per guadagnare il senso profondo delle relazioni universali.
A proposito di relazioni internazionali, permettete che racconti la mia meraviglia quando partecipai per la prima volta al rito che nella Repubblica di San Marino si ripete ogni sei mesi: l’insediamento dei Capitani Reggenti. Quel giorno la piccola Repubblica, capace di mobilitare tanti rappresentanti, compone e ricompone un bozzetto di umanità futura, riconciliata e unita per la presenza di tanti ambasciatori.
L’epidemia ha costituito anche tra i credenti una sfida, una sfida intima, non senza crisi e lotte, tra il timore di un castigo divino e un appello alla conversione, tra implorazione di aiuto e slancio nella solidarietà, tra una spiritualità individualista ed una spiritualità aperta alla mondialità. Subire il chronos o cogliere il kairòs? Passività o creatività?
Concludo il mio saluto con un breve riferimento al Vangelo. Nella sinagoga c’è un uomo con una mano paralizzata. Gesù lo vede. Forse quell’uomo è lì per chiedere l’elemosina. È rassegnato, chiuso e ripiegato su di sé. In maniera perentoria e quasi militaresca Gesù gli rivolge la parola adoperando tre imperativi: «Alzati… Stai dritto qui nel mezzo… stendi la mano» (cfr. Lc 6,6-11). Si noti come Gesù abbia adoperato imperativi contro la violenza delle forze della natura, contro Satana, contro la febbre… Ma qui gli imperativi sono per colui che è vittima del male, della disabilità, della emarginazione. Il terzo imperativo ricalca pari pari l’imperativo che Dio rivolge a Mosè sulle rive del mar Rosso. Non c’è scampo per Mosè e per il popolo: alle spalle gli egiziani, davanti il mare. Dio dice a Mosè: «Stendi la tua mano» (Es 14,26). Io opero… ma ci vuole tutta la tua parte, il tuo impegno, la tua reazione. Così nel Vangelo c’è un male, c’è il taumaturgo e c’è il miracolato. Non la rassegnazione, ma l’impegno fattivo: «Stendi la mano»!
Mi piace che qui si parli di futuro!

Saluto alla International Summer School promossa dall’Università degli Studi della Repubblica di San Marino e dall’Istituto Internazionale J. Maritain

“Politica, economia e relazioni internazionali: quale futuro dopo la Pandemia?”

Piattaforma Zoom, 10 settembre 2020

Il più cordiale saluto a tutti coloro che partecipano a questa Summer School.
Già la copertina del programma promette l’ampiezza e la profondità del lavoro di questi giorni. Una promessa che verrà sicuramente mantenuta.
Ma vorrei sottolineare la pregnanza anche di questo momento: chi parla e chi ascolta, chi modera e chi interviene, vive un’esperienza profonda, nella misura in cui si mette in gioco.
Mi viene in mente il “graffio” che Nietzsche infligge a chi fa delle cose, anche importanti (le loro ginocchia si piegano, e le loro mani si congiungono in adorazione della virtù), «ma il cuore non ne sa nulla»! (Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra, II, Dei virtuosi). Non credo sia il caso nostro, di chi ha lavorato per preparare con sapienza ed acutezza questa Summer School, di chi offre la fatica della preparazione dei temi, di chi entra nella piattaforma attiva-mente. L’incontro, lo studio, sono già un evento: un evento di relazione!
A proposito del tema di questa Summer School, amo riferire un’immagine adoperata da un caro amico che sottolinea come il virus abbia alzato il velo di una realtà che ci avvolge sempre, ma della quale spesso – a meno di essere toccati nella carne – riusciamo a dimenticarci, distratti e impegnati nelle nostre attività. La morte, la malattia, il disagio psichico, la paura, il dubbio, la precarietà, non sono salite da qualche settimana sul treno della nostra vita, ma sono in viaggio con noi da sempre. Solo che talvolta, illudendoci di essere al sicuro negli scomparti business o executive, appoggiando sulle orecchie le cuffie con la musica preferita e visitando il vagone ristorante, fingevamo di non accorgercene. Ora il treno si è fermato, è segnalato un guasto grave, abbiamo dovuto scendere; ora siamo tutti insieme sui binari in attesa che riparta e ci rendiamo conto di essere davvero coinvolti in un unico grande viaggio, senza carrozze di prima o seconda classe, senza trattamenti speciali. Il mondo è proprio un “villaggio globale”, la cui salute ora dipende, paradossalmente, anche dalla “distanza” che riusciamo a tenere con i vicini. Ci è imposto di purificare le relazioni prossime per guadagnare il senso profondo delle relazioni universali.
A proposito di relazioni internazionali, permettete che racconti la mia meraviglia quando partecipai per la prima volta al rito che nella Repubblica di San Marino si ripete ogni sei mesi: l’insediamento dei Capitani Reggenti. Quel giorno la piccola Repubblica, capace di mobilitare tanti rappresentanti, compone e ricompone un bozzetto di umanità futura, riconciliata e unita per la presenza di tanti ambasciatori.
L’epidemia ha costituito anche tra i credenti una sfida, una sfida intima, non senza crisi e lotte, tra il timore di un castigo divino e un appello alla conversione, tra implorazione di aiuto e slancio nella solidarietà, tra una spiritualità individualista ed una spiritualità aperta alla mondialità. Subire il chronos o cogliere il kairòs? Passività o creatività?
Concludo il mio saluto con un breve riferimento al Vangelo. Nella sinagoga c’è un uomo con una mano paralizzata. Gesù lo vede. Forse quell’uomo è lì per chiedere l’elemosina. È rassegnato, chiuso e ripiegato su di sé. In maniera perentoria e quasi militaresca Gesù gli rivolge la parola adoperando tre imperativi: «Alzati… Stai dritto qui nel mezzo… stendi la mano» (cfr. Lc 6,6-11). Si noti come Gesù abbia adoperato imperativi contro la violenza delle forze della natura, contro Satana, contro la febbre… Ma qui gli imperativi sono per colui che è vittima del male, della disabilità, della emarginazione. Il terzo imperativo ricalca pari pari l’imperativo che Dio rivolge a Mosè sulle rive del mar Rosso. Non c’è scampo per Mosè e per il popolo: alle spalle gli egiziani, davanti il mare. Dio dice a Mosè: «Stendi la tua mano» (Es 14,26). Io opero… ma ci vuole tutta la tua parte, il tuo impegno, la tua reazione. Così nel Vangelo c’è un male, c’è il taumaturgo e c’è il miracolato. Non la rassegnazione, ma l’impegno fattivo: «Stendi la mano»!
Mi piace che qui si parli di futuro!

Intervento alla Cerimonia di inaugurazione dell’opera commemorativa per l’emergenza Covid-19

Borgo Maggiore (RSM), Ospedale di Stato, 8 settembre 2020

1.

Potremmo dare un significato traslato alla diagnosi che in questi mesi abbiamo sentito fare sui malati di Covid-19: «Polmonite interstiziale: processo infiammatorio del tessuto connettivo che riveste gli alveoli polmonari».
L’alveolo polmonare è il luogo dello scambio di gas respiratori tra l’organismo e l’ambiente che rende possibile la respirazione. Prendiamo gli alveoli come metafora: c’è una trama (una “postura”) che rende possibile lo scambio delle relazioni e quindi la “respirazione spirituale” degli esseri umani nel loro rapporto con gli altri, col mondo. Se non ci sono infezioni, tutto ok. Se ci sono infezioni sono guai! Vale l’equivalenza: ci può essere un rapporto sociale tra noi salubre e ci può essere un rapporto segnato dalla tossicità.
Abbiamo constatato come, in questi giorni dominati “dal dramma del contagio” e “dal contagio del dramma”, ci siano stati due estremi. Da una parte il congedo solitario di una generazione di persone anziane, morte, per così dire, due volte, perché decedute in solitudine, private anche della cerimonia funebre. Dall’altra parte si è constatato come gli esseri umani siano capaci di replicare all’eccesso di male con un eccesso di bene, che si è tradotto nella dedizione e nella cura, spinte fino ad una fedeltà eroica, fino al dono di sé!
Ecco una risorsa di umanità che nessun insulto patologico è riuscito a cancellare: il bene non è un evento solitario, ma è qualcosa che si vive insieme, dove fede e speranza portano alla carità (cfr. Sant’Agostino, De catechizandis Rudibus).

2.

La pandemia ha scavalcato tutte le recinzioni artificiali, mostrando – come ci ha ricordato anche papa Francesco – che siamo davvero «tutti sulla stessa barca» (cfr. Meditazione del Santo Padre, Sagrato della Basilica di San Pietro, 27 marzo 2020) e non possiamo continuare a contenderci qualche centimetro quadrato a poppa o a prua, nella noncuranza per la rotta da tenere in un mare in tempesta.
«Siamo membra gli uni degli altri», direbbe san Paolo, che ricordava ai Corinti: «Vos non estis vestri (voi non vi appartenete)» (cfr. 1Cor 6,19).
La realtà della interdipendenza e della solidarietà può essere minacciata dal virus dell’individualismo. Non si può essere “globali” nella finanza e non nella fraternità, nella circolazione delle merci e non nel riconoscimento della dignità, nel profitto e non nel welfare, nella libertà e non nella giustizia.

3.

C’è un’analogia fra il contagio virale della pandemia e il contagio globale dell’individualismo che trasmette l’attaccamento ai propri egoismi anche negli “alveoli” dove avviene lo scambio tra pubblico e privato, tra noi e gli altri.
Se siamo autonomi lo siamo non per essere soli, ma per condividere spiritualmente la nostra condizione, per ampliare in estensione ed in profondità le nostre capacità relazionali (autonomia e corresponsabilità). Per questo, le sofferenze della pandemia non ci lasciano indifferenti. Ci guardiamo bene dal rispondere all’appello della corresponsabilità con le parole di Caino: «Sono forse il custode di mio fratello?» (Gen 4,9). Tocca a ciascuno di noi allungare le frontiere della responsabilità e liberare le risorse dell’amore fraterno.
Davanti a questa scultura che oggi inauguriamo, personalmente e insieme rinnoviamo il patto della fraternità.