Omelia nella XIX domenica del Tempo Ordinario

Carpegna (PU), 9 agosto 2020

1Re 19,9.11-13
Sal 84
Rm 9,1-5
Mt 14,22-33

Ci sono diverse scene in questo Vangelo. Ad ognuna potremmo trovare un titolo.
Prima scena: la solitudine orante di Gesù. Gesù, dopo che la folla ha mangiato (il prodigio della moltiplicazione dei pani e dei pesci aveva suscitato una tale euforia che volevano farlo re, al posto di Erode), manda via i discepoli indicando loro la barca. Perché Gesù vuole allontanare i discepoli più intimi? Perché non si sbaglino, perché sono ancora fragili e potrebbero lasciarsi ubriacare dall’euforia derivante dal miracolo e cedere alla tentazione del messianismo trionfalistico che Gesù non vuole. «Prendete la barca e andate all’altra riva»: li manda dall’altra parte del lago, in territorio siro-fenicio, territorio dei pagani. Poi, Gesù stesso congeda la folla, si sottrae e va sulla montagna, solo, a pregare. L’evangelista Matteo non ci dice nulla di quella preghiera; sappiamo però che, qualche pagina prima, Gesù ha insegnato a pregare: «Padre Nostro, che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà…». Gesù passa tutta la notte a parlare con il Padre (fino alle quattro o alle cinque del mattino), per sintonizzare la sua anima sulla volontà del Padre. Nel capitolo 16 del Vangelo di Matteo ci sarà la grande svolta: Gesù va verso Gerusalemme e sa bene cosa succederà. Altro che una folla che lo osanna, altro che trionfi…
Seconda scena: il grande tema della fede. I discepoli vedono Gesù. San Marco, che racconta lo stesso episodio con altri particolari, dice che Gesù «li sorpassò». Matteo, invece, dice: «Camminava sull’acqua». Il camminare sull’acqua (per i pochi presenti che c’erano, nella semioscurità delle prime luci dell’alba) era una prova dell’origine divina di Gesù. I discepoli hanno di fronte il Messia o, come dice Matteo in vari passaggi, il «Dio con noi» (Mt 1,23; Mt 28,20; cfr. Mt 18,20). Nella letteratura biblica e rabbinica il mare, favoloso, profondo, misterioso, pieno di animali stravaganti, è visto come l’avversario di Dio, la creatura che si ribella. Gesù cammina sull’acqua: è il Signore! È un piccolo miracolo quello che sta per accadere, un miracolo quasi “inutile”, a tu per tu, che Gesù fa nella semioscurità.
Ci chiediamo: perché Pietro chiede anche lui di camminare sull’acqua? C’è chi pensa che Pietro voglia partecipare ad una esperienza straordinaria. Pietro è un po’ come la folla della moltiplicazione dei pani e dei pesci e pensa: «Gesù sta facendo una cosa straordinaria, anch’io voglio camminare dietro a Gesù. Voglio essere nei primi posti nel suo corteo». Qualcun altro dice che Pietro voglia dimostrare il suo coraggio. Pietro ha un carattere impetuoso: «Signore, comanda che io venga a te sull’acqua». In effetti, per un po’ cammina sull’acqua. Pensate ai “sì esistenziali” che abbiamo detto al Signore; ad esempio nel matrimonio: quel giorno non sapevate che cosa sarebbero stati gli anni del cammino insieme, ma avete detto “sì” con fiducia ed è stato, talvolta, un camminare sull’acqua, sia per problemi economici, sia per problemi di carattere educativo con i figli, oppure per problemi di natura affettiva, di intesa, di coniugalità e può essere successo di pensare di non farcela a camminare su quelle acque. Il Signore è colui che ci tende la mano. Facciamo una zoomata sulla mano forte del Signore.
Terza scena: una liturgia improvvisata su una barca. Quelli che sono sulla barca riconoscono Gesù, il Signore, e prostratisi lo adorano e fanno la grande professione di fede: «Davvero tu sei il Figlio di Dio». Si prostrano come i magi: «Prostrati lo adorarono» (Mt 2,11); oppure come le donne nella mattina della risurrezione: «Prostratesi lo adorarono, abbracciati i suoi piedi» cfr. Mt 28,9); come gli apostoli sul monte dell’Ascensione: «Quando lo videro, gli si prostrarono innanzi; alcuni però dubitavano» (Mt 28,17). Il dubbio ci accompagna sempre; la fede non è altro che un dubbio superato. «Davvero tu sei il Figlio di Dio». Pietro lo dirà a Cesarea di Filippo quando Gesù fa l’inchiesta: «Chi sono io per voi?» (Lc 9,18). E lui dirà: «Tu sei il Figlio di Dio» (Lc 18,20). Questa risposta la darà anche il centurione romano ai piedi della croce: «Veramente quest’uomo era Figlio di Dio!» (Mc 15,39).
Buona settimana con queste immagini nei cuori.

Omelia nella XIX domenica del Tempo Ordinario

Maciano (RN), 8 agosto 2020

Festa di San Luigi Gonzaga e di San Pasquale Bailonne

1Re 19,9.11-13
Sal 84
Rm 9,1-5
Mt 14,22-33

Il commento al Vangelo è una cosa seria, non si deve partire con una battuta ma, data la confidenza, permettetemi di cominciare con un proverbio ferrarese, di cui faccio la traduzione: «Te ne accorgerai nel friggere!». Si dice così alla persona che intraprende qualcosa di impegnativo e difficile con troppa disinvoltura: «Ti accorgerai cammin facendo che l’avventura nella quale ti sei imbarcato è tutt’altro che semplice».
Pietro cammina sulle acque dietro a Gesù. È bello che Pietro voglia tener dietro a Gesù. Chi può criticarlo? Fa dei passi camminando sul mare. Penso anche al singolare sentiero dei genitori, quando hanno deciso di sposarsi; non sapevano che cosa sarebbe stato scritto su quel rotolo che giorno dopo giorno sono andati svolgendo. L’amore era grande e hanno deciso di fondare una famiglia. Ma quante prove! Penso a chi riceve la cattedra per insegnare: parte con tanto entusiasmo, poi vengono i momenti di difficoltà, in cui gli alunni non ascoltano e non si impegnano, ecc. Anche un vescovo, dopo esser stato chiamato, dice: «Signore, comanda che io venga a te camminando sul mare», senza sapere che cosa voglia dire fare il vescovo…
La prima preghiera che esce dal cuore di Pietro è indubbiamente molto bella: «Signore, che io cammini dietro di te anche sull’acqua». Nel linguaggio biblico il mare è la creatura descritta come avversaria di Dio, è luogo misterioso abitato dai mostri marini, dal Leviatan. Gesù sull’acqua ci cammina. «Camminare sul mare» significa credere che la potenza di Dio è più grande degli spiriti che vi sono presenti e accettare che la fede può tutto e nulla impossibile per chi crede (cfr. Mt 17,20). L’evangelista Matteo sottolinea molto questo aspetto per dire che Gesù è il Signore. La Sacra Scrittura, in vari punti dice: «Dio domina le acque del mare» (cfr. Am 5,8; Sal 65,8; 89,10; 135,6; Is 51,15; Ez 27,4; tutta l’epopea dell’esodo è vittoria di Dio sul mare: cfr. Sal 77,20). Allora, la preghiera di Pietro: «Comandami, Signore, di venire a te camminando sul mare» significa tutta la sua adesione e tutta la sua fede in Gesù Signore.
Mentre Pietro fa dei passi sull’acqua, Gesù è davanti a lui, gli ha spalancato le braccia dicendo: «Non aver paura, vieni!». Vorrei dire ai fidanzati che intraprendono il cammino verso il matrimonio, vorrei dire a chi ha una piccola impresa e adesso è in un momento di difficoltà, le stesse parole di Gesù: «Fidati, buttati!». Permettete questa metafora: più si pedala nonostante il buio, più la dinamo fa luce. Se si sta fermi per paura del buio, non si va avanti e si resta nel buio.
Dopo i primi passi verso Gesù, Pietro prende coscienza che sotto di sé ha l’abisso. È come quando si prende coscienza che davanti a sé c’è un impegno smisurato e il futuro presenta il conto… Si pensa di non potercela fare. Vengono lo spavento, la paura, l’incertezza, il dubbio. Pietro ci è maestro perché, presa coscienza della sua fragilità, intona un’altra preghiera a distanza di un minuto dalla precedente: tra le due c’è un abisso! «Signore, salvami!»: una preghiera autentica, che sgorga dal cuore. È una preghiera che tutti noi possiamo fare. Se in mezzo a noi c’è qualcuno che si è messo in cammino e si rende conto della difficoltà ed è nel momento in cui sprofonda, sappia che noi preghiamo per lui, perché non tema, perché abbia coraggio. Gesù è lì davanti a lui.
Il brano di Vangelo si conclude con un solenne atto di adorazione sulla barca. Alcuni si chiedono: «Come mai, se sono partiti verso sera, al tramonto, alla quarta veglia nella notte sono ancora sul lago? Non ci vuole così tanto tempo per andare all’altra riva del lago di Tiberiade». Evidentemente il vento era molto forte, c’era una grande burrasca. In quella situazione i discepoli passano dalla paura al coraggio, dal dubbio alla certezza, dalla disperazione alla lode: «Veramente tu sei Figlio di Dio!».
Domenica scorsa abbiamo letto di un grande miracolo compiuto da Gesù, uno dei più grandi: ha moltiplicato pani e pesci per cinquemila persone. Un miracolo utilissimo. Tant’è vero che – se stiamo al Vangelo di Giovanni – vogliono farlo re. Ma Gesù si ritira in disparte. Non cerca la fama, non si ritira neppure per mettersi al sicuro allorché lo informano che Giovanni era stato decapitato (Mt 14,12-13). Gesù non fa il miracolo per ingraziarsi la gente, ma soltanto per misericordia, per amore di quelle persone. Il secondo miracolo, quello che fa nella semioscurità delle prime ore dell’alba (o delle ultime della notte), per un amico, è un miracolo “inutile”, un miracolo fatto per motivi di cuore, per l’amicizia che ha per Pietro, perché non vada a fondo. Eppure, questo secondo miracolo mi è molto caro e mi illumina. «Signore Gesù, salvami!». E lui mi dice: «Non avere paura». Ho bisogno che me lo dica!

Omelia nella XVIII domenica del Tempo Ordinario

Scavolino (RN), 2 agosto 2020

Is 55,1-3
Sal 144
Rm 8,35.37-39
Mt 14,13-21

Consideriamo attentamente la location del prodigio della moltiplicazione dei pani. Se ricordate, qualche domenica fa, leggevamo che Gesù salì su una barca e parlò da quel luogo instabile alla folla, che invece voleva avere i piedi ben piantati per terra. La barca che è adagiata sulle onde dice tutta la difficoltà, ma anche tutta la fiducia che è necessaria alla scelta evangelica. Anche noi, a volte evitiamo la fatica di credere; vogliamo stare ben piantati nelle nostre sicurezze. Qui cambia la location: questa volta è Gesù che scende, mette i piedi a terra, ma è per una condivisione, per farsi prossimo, perché c’è tanta folla che ha fame, che ha bisogno. Spesso sentiamo l’invito ad essere “in uscita”, a frequentare le periferie. Non si tratta tanto delle periferie intese in senso locale, ma di un decentrarsi, un uscire da noi, un andare fiduciosamente verso l’altro per accoglierlo, “farci uno” con lui, per ascoltarlo, per aiutarlo: siamo fratelli.
In questo brano si vedono due mentalità a confronto. La mentalità del gruppo degli apostoli i quali dicono: «Signore, questa gente non se ne va spontaneamente, congedala; qui non è possibile dar da mangiare a tutta questa gente. C’è solo erba». L’altra mentalità, quella di Gesù, invece è: «Date voi loro da mangiare, mettete insieme quel poco che avete e vedrete che è possibile». Allora vengono portati i cinque pani e i due pesci. È così che dobbiamo interpretare il Padre Nostro. Noi diciamo: «Padre… Dacci oggi il nostro pane quotidiano», ma qui Gesù dice: «Date voi il pane quotidiano».
Gesù passa dal lago, dal deserto, a questo tappeto verde e lì il prodigio viene raccontato dall’evangelista Matteo con espressioni che ci fanno pensare immediatamente al Pane trasformato e al Pane che trasforma: allusione abbastanza esplicita all’Eucaristia. A tutti noi sarebbe piaciuto essere fra quei cinquemila, assistere al prodigio e magari trattenere anche un pezzo di pane per noi come ricordo, come souvenir: è il pane della moltiplicazione!
In realtà è molto più bello, insieme ai discepoli di Emmaus, dire: «Gesù resta con noi» (Lc 24,29) e nutrirci di Lui che rimane nel dono di quel pane spezzato. Gesù, più che restare nei nostri tabernacoli dorati, vuole che quei tabernacoli si aprano, vuole che gustiamo il suo Pane, la sua Eucaristia.
Questo miracolo – è narrato sei volte nei Vangeli – ne comprende altri: Gesù sa moltiplicare i miracoli! Per esempio, il primo miracolo è che non è vero che la gente non ascolta, che non ha voglia di sentire i maestri, anzi non se ne va, vuole ascoltare. Il Vangelo, la Parola di Gesù, la Persona di Gesù era ed è attrattiva, crea ascolto, attenzione. Un altro miracolo è che ci sia qualcuno che effettivamente i cinque pani e i due pesci li cede. Nel racconto di Giovanni è un ragazzo che condivide la merenda che si era portato da casa e la mette a disposizione, mentre l’apostolo Andrea dice: «Che cos’è questo per tanta gente?» (Gv 6,9). Terzo miracolo: quel poco che viene messo a disposizione sfama, perché condiviso con cinquemila persone; serve a Gesù per fare il tanto, ma quel poco ci vuole. Gesù invita a metterci nei panni di chi ha fame, di chi è nella necessità; ci chiede di decentrarci, di uscire da noi stessi e di vivere nella carità, solo allora siamo suoi discepoli. Un altro miracolo nel miracolo sono le ceste di avanzi raccolte. Noi andiamo a Lui con le nostre ceste vuote e torniamo con ceste ricolme.
Proviamo ad avere presente questa pagina di Vangelo, ripensiamola ripetutamente, e proviamo a viverla: vedremo miracoli!

Omelia nella Solennità di San Leo

San Leo, 1° agosto 2019

Gn 12,1-4
Sal 16
Fil 4,4-9
Mt 7,21-27

«Al mondo c’è una sola tristezza: quella di non essere santi» (Léon Bloy). E la santità che cos’è in fondo? Corrispondere alla grazia battesimale. Lasciamoci sorprendere dalla bellezza di questa vocazione. Diceva san Paolo ai cristiani di Corinto: «Non vi sono tra voi molti sapienti, non molti potenti, non molti nobili…» (1Cor 1,26). Eppure, il Signore ha chiamato proprio voi. Nel giorno di san Leone torna questo invito. I santi sono nella Chiesa energie rigeneratrici. E per essere santi non è necessario che gli altri lo sappiano. Comunque «ci sono molti più santi che nicchie…» (Honoré de Balzac).
Sono davanti ad un’assemblea di cristiani consacrati nel Battesimo. Si dirà che la santità è un dono di Dio, che non va scambiata con lo sforzo ascetico, con il self made man, con il perbenismo delle anime probe, simili a ciottoli ben levigati e rotondi nel torrente, che non danno fastidio a nessuno. È vero, la santità è ben altro… Quello che dispiace è che siamo sordi ai richiami del maestro interiore che ci chiama alla santità, al quale talvolta rispondiamo come gli Ateniesi a san Paolo all’areopago: «Su questo argomento ti sentiremo un’altra volta» (At 17,32).
L’abbondanza della Parola di Dio ci travolge, ma non le diamo la possibilità di filtrare attraverso la crosta che abbiamo sull’anima e non ci lasciamo inzuppare, non le permettiamo di essere fradici di lei. Succede, a partire da me, a partire da noi presbiteri, d’essere più preoccupati di servire la Parola di Dio con parole forbite, oppure di servirci della Parola di Dio per sdoganare le nostre idee. E che dire dell’altro grande dono per la nostra santità che è l’Eucaristia, il miracolo quotidiano, sacrificio e mensa, presenza personale del Signore con la sostanza del suo vero corpo, sangue, anima e divinità. Devo riconoscere che a noi presbiteri succede di passar sopra – è soltanto un piccolo particolare – anche a quel breve momento di silenzio nel “post Communio”, che è così vivamente raccomandato dalla liturgia, momento personale, che non toglie nulla allo spirito di comunità, al contrario: un popolo intero che cade nel più profondo raccoglimento crea un silenzio assordante. Nel colloquio personale con Colui che si dà a noi siamo messi davanti alla nostra verità e, senza umiliarci, ci rende umili e fa salire dal cuore la nostalgia della santità. Eucaristia e vita eucaristica. C’è una critica pungente di un filosofo rivolta ai virtuosi: «Ve ne sono di tali che amano gli atteggiamenti, pensano che la virtù sia un atteggiamento; le loro ginocchia si piegano e le loro mani si congiungono, ma il loro cuore non ne sa nulla» (Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra). Critica terribile! Mi inginocchio, congiungo le mani, dico, canto… Ma che ne sa il mio cuore di quello che sto dicendo? Mi rivolgo, anzitutto, a voi laici che in virtù del Battesimo siete chiamati alla santità: che nessuno ne dubiti! Quante volte abbiamo ricordato l’universale chiamata alla santità come ce la suggerisce il Concilio Vaticano II. Un capitolo intero della Lumen Gentium è dedicato a questo. Ognuno di noi battezzati consideri se stesso “membra della redenzione”. La redenzione passa attraverso ciascuno di noi. Paolo arriva a dire: «Completo nella mia carne ciò che manca dei patimenti di Cristo» (Col 1,24). Ognuno si pensi chiamato.
Cari laici, non siete solo oggetto delle nostre cure pastorali, ma partecipi della missione. Arrivate molto più in là di quanto non arriviamo noi presbiteri. Il Concilio sottolinea perfino come i ragazzi siano apostoli dei ragazzi (cfr. AA 12). Questa è la corresponsabilità dei laici, chiamati all’apostolicam actuositatem (azione cattolica). Fatevi avanti, non sottraetevi agli inviti dei vostri parroci, mettetevi a disposizione, continuate ad aiutarci, anzitutto col vostro esempio. Ci siete davvero maestri con la vostra fedeltà alla vita. Non lo dico per compiacenza. Dico ai miei sacerdoti: quando sbuffiamo per la stanchezza, pensiamo alle mamme che non hanno mai un momento di quiete per sé; quando ci lamentiamo per la strada da fare per arrivare in centro diocesi, pensiamo ai parrocchiani che ogni giorno fanno chilometri per andare al lavoro, d’estate e d’inverno… Chiedo a san Leone che non manchi il dono della santità dei laici a tutta la Chiesa. Ribadisco, per noi sacerdoti, l’utilità e la necessità di ascoltare i laici; anzitutto dare loro tutta la nostra considerazione, ma non “per gentile concessione”. È inaudito che vi siano parrocchie nelle quali i Consigli, pastorale e degli affari economici, sono soltanto sulla carta. Inaudito che da parte del presbitero non ci siano fiducia e affidamento di compiti ai laici, nella catechesi, nella liturgia, nella carità, nel canto, ecc. Particolarmente odioso è l’atteggiamento di poca considerazione verso le donne, a volte persino di esclusione. Dico ai laici: «Aiutate la comunità, assumendovi la principale delle vostre responsabilità che è l’animazione delle realtà temporali, in primis la cultura e la politica».
Tornerò presto su alcune preoccupazioni e denunce espresse dal Presidente dei Vescovi italiani, il Cardinale Bassetti, sulla questione della omotransfobia. Mentre siamo spaesati dal virus, mentre siamo in spiaggia o sui sentieri alpini, le commissioni parlamentari preparano e discutono leggi che non possiamo accettare.
Ve lo dice l’ultimo dei vescovi della Chiesa cattolica, però rivestito dell’autorità apostolica: ho ricevuto tanto dai laici, donne e uomini. Talvolta uso l’espressione – consentitemela, anche se è un po’ audace – sono stato generato dalle mie comunità come sacerdote, senza nulla togliere all’imposizione delle mani nel sacramento dell’Ordine. Che sofferenza sapere di sacerdoti che non sanno trattare con i laici, «che la fanno da padroni nella Casa di Dio» (cfr. 1Pt 5,3), che non si lasciano mettere in crisi, non si lasciano aiutare e, quando è necessario, correggere. È un lavoro: sento che lo devo fare per primo su me stesso e lo raccomando ai miei fratelli presbiteri. La santità è un tesoro, un tesoro in vasi di creta, il vaso della nostra fragile umanità (cfr. 2Cor 4,7). Che il Signore continui a metterci accanto sorelle e fratelli che ci dicano la verità e ci aiutino a migliorare e che noi riusciamo ad accogliere tutto questo senza permalosità, senza puntigli, senza meschinità, ma con fiducia e con cuore aperto. Non è solo utile e necessario, ma bello: è l’esperienza della nostra fraternità. Siamo pieni di speranza. Quando la Chiesa sembra dare segni di stanchezza, una segreta germinazione le prepara nuove primavere di santità. Malgrado tutti gli ostacoli che noi frapponiamo, i santi rinasceranno sempre! Così sia!

Omelia nella Solennità di San Leone a Pennabilli

Pennabilli (RN), Cattedrale, 1° agosto 2020

Gn 12, 1-4
Sal 15
Fil 4, 4-9
Mt 7, 21-27

Parlo dalla cattedra. Condivido con voi un certo disagio nelle celebrazioni solenni: le vorremmo più famigliari, ma talvolta è necessaria anche una certa formalità. Le liturgie solenni le dobbiamo vivere con quella che san Giovanni della Croce chiama la “virtù del coro”, la dodicesima stella nella Salita al Monte Carmelo. La “virtù del coro” consiste nello spossessarsi di sé, nel saper mettere da parte anche la propria sensibilità… La santa liturgia prevede questi momenti di particolare solennità, che non distolgono dal raccoglimento, dall’intimità profonda della preghiera. Non si tratta di una cerimonia, è davvero un popolo che incontra il suo Dio, che si mette davanti alla sua maestà.
Rivolgo un saluto particolare ai leontini. Oggi pomeriggio saremo nella cattedrale di San Leo per continuare la lode, il canto e il ringraziamento per il dono grande che san Leone ci ha fatto portando il Vangelo nella nostra terra. Saluto con affetto i pennesi, che sono venuti numerosi.

1.

Oggi la nostra Diocesi è in festa: onora uno dei due santi patroni e fondatori, san Leone, lo scalpellino di Arbe. Il miglior modo di onorare i santi è quello di imitarli (Erasmo da Rotterdam). Oggi noi peccatori abbiamo l’occasione di una grande riscossa nel riproporci la santità.
Per tutti – laici e presbiteri – l’invito è di riconsiderare il sacramento del Battesimo, che ci ha reso figli di Dio, fratelli di Cristo, tempio dello Spirito Santo. Frasi fatte? Dizioni formulari che sanno di catechismo? No. Sono, anzi, la mappa per la nostra preghiera di contemplazione. Basterebbe sostare su ciascuna di queste tre proposizioni, con tutto quel che ne consegue. Tutti noi siamo dei consacrati, tesori e perle di Dio: «Tu sei prezioso ai miei occhi, tu sei degno di stima e io per te svendo anche l’Egitto» (cfr. Is 43,4). Dio dona il Figlio per avere per sè questi tesori e queste perle.

2.

Permettete un caro saluto e una speciale considerazione ai presbiteri chiamati dal Vescovo ad avere un legame particolare con lui e con la cattedrale: i Canonici che, insieme, costituiscono il Capitolo della Cattedrale. Questa mattina viene completato il numero di questo “sacerdotum collegium” (cfr. CIC 503) con un nuovo presbitero, parroco della cattedrale di San Leo, il canonico don Carlo Giuseppe Adesso.

3.

Invito il canonico Carlo Giuseppe e tutto il Collegio canonicale a ripensare i criteri con i quali il Vescovo li investe nuovamente; criteri che sono indicati e che sono ripresi dal Direttorio per il ministero pastorale dei Vescovi (cfr. Congregazione per i Vescovi, Apostolorum successorum, nn. 155, 186, 242).
I Canonici siano esperti nella dottrina, esempio di vita sacerdotale, pastori che svolgono lodevolmente il ministero (cfr. CIC 503, 509 §2). Criteri mai acquisiti una volta per tutte, ma continuamente da maturare, soprattutto per chi è più giovane.
Il Capitolo della Cattedrale, dal Vaticano II in poi, ha acquisito un nuovo volto, se vogliamo meno funzionale e istituzionale: alcune prerogative del Capitolo sono passate ad altri organismi di partecipazione, come il Collegio dei Consultori, il Consiglio presbiterale, a cui il Vescovo è tenuto a ricorrere per ascoltarne il parere.
La natura del canonicato non è da vedersi in una prospettiva di onorificenza e tanto meno di carriera o di titolo da aggiungere al proprio nome, ma è da vedere in un’ottica di servizio. Ne tengano conto i Canonici, ma ne tenga conto anche il Vescovo che deve farsi accompagnare; per lui è un’esigenza necessaria. Il Vescovo è consapevole della sua dignità e del valore dell’imposizione delle mani per cui è diventato portatore della pienezza del sacerdozio. Tuttavia, ha bisogno di aiuto.

4.

Vediamo il servizio che i Canonici devono rendere al Vescovo.
Anzitutto, il servizio alla preghiera del Vescovo per il suo popolo. Mosè teneva le mani e le braccia alzate per l’intercessione e così il popolo avanzava nella conquista. Era pesante per Mosè stare in quella posizione. «Aronne e Cur, uno da una parte e uno dall’altra sostenevano le sue mani, così le sue mani rimasero ferme fino al tramonto del sole» (Es 17,12).  Il Vescovo ha bisogno di voi Canonici in quello che è il suo primo ministero: stare davanti al Signore per la sua Chiesa! Allora vi dico, cari Canonici, pregate con me, venite più spesso in cattedrale con me. Pregate per me.

5.

Il Capitolo della Cattedrale ha un altro servizio: rendersi disponibile ad un esercizio credibile di unità col Vescovo. Direte che è un impegno sacramentale e ontologico per ogni presbitero… Certo, ma i Canonici sono chiamati a farne una esperienza più forte ed un esercizio più costante. Devono essere un segno per tutti i confratelli! Unità affettiva ed effettiva, unità di cuore e di pensiero (il che non significa omologarsi, è l’unità di cui parla san Paolo nella 1Cor), unità esemplare, da intendersi non come entrare nella “cabina di comando” o in un conventicolo di giudizi sugli altri. Se c’è una pagina che più di tutte può accompagnarci in questa esperienza di unità è quella che ci ha lasciato sant’Ignazio di Antiochia, un’immagine che riprende più volte nelle sue lettere: «Il vostro presbiterato ben reputato degno di Dio è molto unito al vescovo – scrive agli Efesini – come le corde alla cetra». «Ciascuno diventi un coro – prosegue – affinché nell’armonia del vostro accordo, prendendo nell’unità il tono di Dio, cantiate ad una voce sola». E aggiunge: «Nessuno si inganni: chi non è presso l’altare (l’altare dove celebra il Vescovo), chi non partecipa alla riunione, è un orgoglioso e si è giudicato. Sta scritto: “Dio resiste agli orgogliosi”. Stiamo attenti a non opporci al vescovo per essere sottomessi a Dio» (Ad Ef IV,1; V,1). Dunque, lievito di unità e lievito di fraternità, per l’intero presbiterio: esperienza reale e consapevolezza di questa missione. Non dice forse il Vangelo che un pizzico di lievito fa fermentare tutta la pasta (cfr. Mt 13,33)?

6.

Un’altra prerogativa ancora. Il sacerdotum collegium è deputato ad essere e a farsi canto. Non alludo alle eventuali prestazioni canore dei Canonici, ma indico un atteggiamento: essere per la lode alla maestà divina. È proprio del Capitolo della Cattedrale – almeno in qualche circostanza – intonare la Liturgia delle Ore, a nome e ad esempio di tutto il popolo di Dio, popolo sacerdotale. Del resto, i Padri non chiamano talvolta il Cristo stesso Canticum Patris?
Ancora sant’Ignazio di Antiochia: «La Chiesa è come un coro: il vescovo presiede i suoi concerti che, simili ai concerti dei Cieli, non tacciono né giorno, né notte (Ad Ef 4,1). Ignazio allude alle assemblee liturgiche, ma nello spirito del grande vescovo, le assemblee liturgiche sono esse stesse il simbolo di un altro concerto, più intimo e più vasto nello stesso tempo, «il concerto della carità unanime nel quale – continua Ignazio – si canta Gesù Cristo». Te per orbem terrárum sancta confitétur Ecclésia!
Ci può essere in qualche nostra reminiscenza seminaristica un ricordo curioso e talvolta lugubre della riunione dei Canonici. Ma quando questo concerto risuona, in verità sprigiona un fascino irresistibile. La Casa di Dio si costruisce cantando: «Cantando aedificatur Ecclesia» (Sant’Agostino, D 27,1). Le pietre vive si adunano, si organizzano, si intonano invitandosi reciprocamente alla gioia: «Congaudentes jubilemus/ harmoniae novum genus/ concordi melodia;/ deponamus vetus onus/ dulcisque resultet sonus/ ex nostra concordia» (antico Inno per la liturgia della Dedicazione della Chiesa citato da Henri de Lubac in Meditazione sulla Chiesa, c. VI, pp. 231-32, Ed. 2014). «Giubiliamo di comune gioia, concordi nella melodia di un nuovo genere di canto; deponiamo il vecchio peso e un dolce suono cantiamo per la nostra concordia».

7.

Allora, traboccando dalla comunità riunita nella cattedrale, la carità si diffonde al di fuori. Essa «vuole cantare con tutta la terra» (Sant’Agostino, D 33, 5). Qui sta la grande forza della testimonianza della Chiesa. Questo è il suo trionfo. Ci sono altre battaglie, altri trionfi… Ma il primo è sicuramente quello di colmare il popolo dell’amore di Dio. Quel trionfo che noi siamo troppo inclini a concepire secondo prospettive umane. È il trionfo che la Chiesa ottiene nello Spirito, quando si abbandona al suo soffio. È la gloria che essa irradia quando appare come la “Donna vestita di sole” (cfr. Ap 12,1).
Santità, canto, bellezza, gioia, missione: realtà tutte collegate e da collegare!
Così sia.