Maciano, 26 ottobre 2019
(da registrazione)
25° anniversario di ordinazione presbiterale
di don Maurizio Farneti
Sir 35,15-17.20-22
Sal 33
2Tm 4,6-8.16-18
Lc 18,9-14
Gesù ci racconta una parabola per chiarire la situazione di alcuni, che sono convinti d’esser giusti e disprezzano gli altri. Dunque, la domanda che ciascuno dovrebbe rivolgersi è: «Come sto davanti a Dio?». Gesù, come un abile cameraman, fa una “zoomata” su due personaggi, due uomini che salgono al tempio per la preghiera (il tempio di Gerusalemme, il luogo – dice la Bibbia – dove Dio ha scelto di far abitare il suo nome). Il tempio era luogo privilegiato per l’incontro con Dio, come lo sono oggi le nostre chiese.
Ogni volta che salgo al tempio, cioè alla chiesa, mi rivolgo al Signore dicendo: «Salgo per te? O sono forse vittima dell’abitudine? In chiesa parlo, mi distraggo, penso ad altro?». In chiesa si viene per prendere posto sotto la coperta della preghiera, una coperta sempre troppo corta: o ci si scoprono i piedi (fuori di metafora, si han tante cose da fare) o ci si scoprono le spalle.
In quale dei due protagonisti ci rivediamo?
Il fariseo, eretto, prega in se stesso, si prega addosso. Il centro della sua preghiera non è il Signore, ma lui. Si avvicina a Dio per attirare l’attenzione di Dio su di sé, per farsi ammirare. Il fariseo ha condotto e conduce una vita onesta, osserva le leggi, non smette nella preghiera di elencare tutte le sue opere, sembra uno che intona un solenne “Te Deum”. Parla molto il fariseo, ma unicamente di se stesso. Non si preoccupa di ascoltare il Signore, è soddisfatto di sé, non ha bisogno del Signore. E così se ne torna a casa tale e quale era uscito. Non c’è rinnovamento nella sua vita spirituale. In chiesa ha portato solo la sua vanità.
L’altro personaggio, il pubblicano, si tiene a distanza. Sa che non ha nulla da offrire al Signore. Riconosce i suoi sbagli. Il suo atteggiamento esprime la sua fede. Anche se non osa alzare gli occhi al Cielo, Dio gli è vicino e il suo cuore è rivolto a Dio, non verso se stesso. La sua preghiera, trapuntata di pochissime parole, manifesta la consapevolezza del suo stato ed esprime la sua fiducia nella bontà del Signore. «Mio Dio, abbi pietà del peccatore che sono» (cfr. Lc 18,13). Risultato: è diventato un altro uomo. È un altro uomo, effettivamente, quello che esce dal tempio. Torna a casa sua “aggiustato”, cioè reso giusto, da Dio. È diventato suo amico, ridiventato figlio.
Diciamo grazie al Signore, perché attraverso questi due personaggi ci insegna la vera preghiera e attira la nostra attenzione verso la sua presenza, che è più importante del nostro “io” così ingombrante. «Signore, tu sei nelle nostre chiese, ci inviti e ci attendi, prepari per noi la tavola della tua Parola e quella del tuo pane, l’Eucaristia, che ci mostra il tuo amore senza condizioni, il tuo cuore sempre spalancato verso chi si avvicina a te».
«Questa sera, Signore, ci riempi di gioia per il dono di un tuo sacerdote tra noi, don Maurizio. È tuo e lo dai a noi come segno della tua premura di buon pastore».
Don Maurizio ricorda, insieme con noi, venticinque anni di ministero; ministero tra i giovani, per tanti anni, e poi in diverse comunità, con tante responsabilità diocesane, e qui, ora, in mezzo a noi. Mi sembra di trovare nei venticinque anni del ministero di don Maurizio, come un filo d’oro che li congiunge. È il pensiero ricorrente di considerarsi un discepolo al quale Gesù ha affidato il suo stesso donarsi, fino a percepire il brivido della Passione. Il prete – penso che don Maurizio condivida con me questa esperienza – è la persona più ricca che ci sia sulla terra: risana, benedice, perdona, consacra, ed è la persona più povera, perché pronuncia parole non sue, programma e forze gli vengono da oltre.
Ci sono stati giorni – prego il Signore che non abbiano a tornare – nei quali don Maurizio ha fatto l’esperienza di essere senza forze, senza possibilità di fare e di dire, senza possibilità di fare progetti. In quei momenti, anche a me è toccato di essere aiutato da una meditazione di musica di una grande maestro del Seicento, Dietrich Buxtehude. Contemplando le piaghe del Cristo Crocifisso, questo autore affida al Coro, prostrato ai piedi di Gesù inchiodati alla croce, il versetto di Isaia che dice: «Ecco, i piedi che evangelizzano, piedi inchiodati». Dunque, la vita del prete non è l’attivismo del propagandista, ma la dedizione dell’innamorato.
Il mio augurio a don Maurizio, con tutto il cuore: «Ad multos annos (così per tanti anni ancora)»!