Catechesi per catechisti ed educatori

Convegno liturgico-pastorale

C’è grande attesa per il convegno liturgico-pastorale sul Battesimo che l’Ufficio Liturgico della Diocesi di San Marino-Montefeltro ha organizzato come momento di formazione per operatori pastorali, ministri e catechisti, ma che è aperto anche a tutti coloro che vogliono approfondire questo sacramento. L’importante appuntamento, intitolato La nascita dell’uomo nuovo e fortemente voluto dal Vescovo Andrea Turazzi, si terrà domenica 27 ottobre presso Casa San Giuseppe a Valdragone, nella Repubblica di San Marino. Il convegno si aprirà alle ore 9:30 e vedrà alternarsi importanti relatori che approfondiranno il tema del Battesimo da vari punti di vista: don Luigi Girardi, Preside dell’Istituto di Liturgia Pastorale Santa Giustina di Padova, si occuperà dell’evoluzione storica del rito e del suo linguaggio simbolico; Suor M. Cristina Cruciani, liturgista e redattrice della Rivista “La vita in Cristo e nella Chiesa”, analizzerà questo sacramento quale sorgente di vita nuova; mentre don Marcello Zammarchi, docente dell’Istituto Superiore di Scienze Religiose “A. Marvelli”, illustrerà come la comunità cristiana deve prepararsi per celebrarlo adeguatamente nel contesto odierno. La giornata sarà arricchita anche da due momenti celebrativi presieduti dal Vescovo Andrea: la celebrazione eucaristica alle 12,30 ed il Vespro solenne alle 17,45 che concluderà i lavori. Nel suo messaggio di invito mons. Turazzi ha sottolineato come il Convegno “rivolto a tutti ma senza rinunciare ad un percorso di qualità e di spessore … ci accompagnerà nell’esperienza formidabile del Battesimo per riscoprirne la bellezza e il dinamismo”. All’evento sono invitati quindi, oltre agli “addetti ai lavori”, anche tutti i fedeli sensibili alla dimensione liturgica della fede.

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Omelia durante la celebrazione del Mandato agli operatori pastorali

Pennabilli (Cattedrale), 22 settembre 2019

(da registrazione)

Carissimi,
è un momento molto bello, di famiglia, e la prima parola che mi viene spontanea, la stessa che ho detto l’anno scorso, è: «Grazie!». Grazie, a nome di tutte le comunità e a nome di tutta la Diocesi. Ognuno di voi si impegna, lavora, soffre, vive il sacerdozio regale, la profezia, la regalità.
C’è una parola che è tornata spesso l’anno scorso, una parola che ha suscitato stupore: il dire che noi abbiamo scoperto la risurrezione nella morte. Apparentemente è lapalissiano dire “risurrezione nella morte”: se c’è risurrezione, bisogna che ci sia prima la morte. Ma non è in questo senso che dobbiamo intendere l’espressione e neanche in senso masochistico, intimistico: siccome siamo in situazione di prova, di morte, allora ci consoliamo con questa speranza. No, la risurrezione è un messaggio di liberazione, di luce, di salvezza.
Dove trovare la risurrezione, potenza di Dio? La troviamo annidata dentro le situazioni di fallimento, di fragilità, di morte. Situazioni che sembrano montagne impossibili da spostare. La fede sposta le montagne; la fede nella risurrezione ci fa vivere il fallimento, la fragilità, la prova con una grande speranza. Mi diceva una persona che lavora alla Congregazione per la dottrina della fede che fra i temi candidati per il prossimo Sinodo ci sarà quello della vita eterna. Considerare la vita eterna non significa sminuire l’impegno sulla terra, ma noi siamo quelli che credono nella risurrezione, ultraterrena ma presente già nella nostra vita; siamo quelli che osano immaginare di “spostare montagne”. Gesù ha detto che basterebbe la fede di un granellino di senape per spostarle. Beninteso, non dobbiamo spostare il monte Carpegna, ma le montagne dentro di noi e attorno a noi (nella società).
Ricordo un vecchio “spiritual” (i blues composti dagli schiavi che lavoravano nelle piantagioni di cotone) che dice più o meno così: «Dove hai trovato quella veste bianca tu che sei sempre sporco, impolverato, sudato? Questa veste bianca l’ho trovata alle porte dell’inferno». C’è risurrezione nella morte! Questo è il kerygma. Lo dico con le parole semplici, incisive, puntuali, brevi di papa Francesco: «Dio ti ama immensamente. È vivo. È vicino. Ti libera. Ti salva». Questo kerygma è stato anzitutto sillabato da Gesù. Gesù si è trovato davanti una montagna insuperabile che era la sua Passione. Ha pregato di essere liberato (cfr. Ebr 5,7). La Scrittura dice che fu liberato… Ma come? È morto! È stato liberato perché ha saputo vivere da figlio quella prova: ha spostato la montagna, è risorto. E Gesù dice a noi, a nostra volta, di fare questo annuncio. Un tempo si diceva “con le parole e con le opere”. San Francesco preferiva dire: «Qualche volta anche con le parole».
La nostra situazione è stata raffigurata molto bene con un’immagine, il dipinto di Caravaggio: “Paolo caduto da cavallo”. Ecco la nostra Chiesa. Essendo caduta da cavallo, ha le ossa rotte. Ne ho parlato con Sveva, la nostra eremita, che mi ha detto ironicamente: «Avrebbe dovuto fare a meno di andare a cavallo!». Fuori di metafora: una Chiesa che va a cavallo, tronfia e dominatrice, terrena, diventata talvolta potenza, può cadere facilmente. Nel dipinto di Caravaggio, Paolo è dipinto con le mani in alto, gli occhi socchiusi, che si intravvedono appena: è nell’atteggiamento dell’umiltà, che fa presagire tutto quello che l’apostolo farà. San Paolo ha tutt’altro che le ossa rotte. Così penso la Chiesa, al di là degli incidenti di percorso. Il Papa ha aperto il percorso delle sue catechesi parlando delle potenze di questo mondo che si sbriciolano. Ma la Chiesa guarda Gesù.
Mi preme sottolineare che kerygma e Battesimo non sono in sovrapposizione e non sono due realtà giustapposte. Il kerygma sfocia quasi automaticamente, per sua natura, nel sacramento del Battesimo. E il sacramento è annuncio. Dunque, non viviamo un altro tema rispetto all’anno scorso. C’è una continuità intrinseca. Il Battesimo non fa altro che sancire, manifestare, la nostra configurazione al Figlio.
Nel prefazio della S. Messa (la preghiera che introduce il canto del Santo), oggi, abbiamo ascoltato queste parole: «Così hai amato in noi ciò che tu amavi nel Figlio». C’è una sorta di scambio: quando il Padre guarda ciascuno di noi, riconosce nientemeno che Gesù, perché siamo entrati nella Trinità nel Figlio. È un modo di esprimersi figurato, imperfetto, analogico, ma è così. Il Padre vede Gesù in ciascuno di noi. Per questo Gesù ha potuto dire: «Anche un bicchier d’acqua dato al più piccolo dei fratelli è stato dato a me» (cfr. Mt 10,42). Ciò è accaduto per l’incarnazione.
Come hanno detto gli amici che hanno presentato il Programma pastorale, il Battesimo va fatto “funzionare”: una parola non appropriata, ma che fa capire bene. Ancora meglio usare le parole di Gesù: «Non si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa» (Mt 5,15). Inoltre, invito a ricorrere alla grazia del Battesimo. Quando abbiamo davanti difficoltà o decisioni che non sappiamo prendere, occorre ricordarci del Battesimo. Bisogna riscoprirlo. Ma c’è anche una dimensione comunitaria. Qui riuniti siamo un popolo di battezzati, che annunciano di essere figli di Dio.

Concludo con alcuni avvisi “pratici”.

  1. Ci diamo tutti appuntamento alla vigilia di Pentecoste, sabato 30 maggio, per un momento di verifica. È giusto avere la possibilità di esprimersi, anche di rivolgere critiche, purchè siano costruttive (nel quaderno del Programma pastorale troverete una decina di pagine con la sintesi di tutto quello che è stato detto nell’assemblea diocesana del giugno scorso).
  2. Una grande novità, per non tenere “in folle” il nostro motore, è un modo nuovo di parlare della formazione degli adulti. Abbiamo usato il termine “laboratori della fede” (anche se già ci sono in molte parti della Diocesi) per dare l’idea che non dev’essere una lezione cattedratica, ma un’esperienza di comunità da creare, plasmare o rinnovare. Ringrazio l’Ufficio Catechistico Diocesano che ha preparato delle schede di lavoro, un piccolo strumento contenente una preghiera d’inizio, alcune note del Catechismo della Chiesa Cattolica sul Battesimo, spunti di riflessione e un impegno pratico per il mese.
  3. Concludo dicendo che dovete voler bene, apprezzare, gli Uffici Pastorali. Non si tratta solo di distribuire e affiggere manifesti, pur necessari perché abbiamo bisogno di comunicare. Ringrazio tutti gli Uffici Pastorali per il loro puntuale e generoso servizio.

Grazie per il vostro ascolto e per la vostra partecipazione.
Buona preghiera e buona continuazione

Omelia XXIV domenica del Tempo Ordinario

Pietramaura, 15 settembre 2019

(da registrazione)

Es 32,7-11.13-14
Sal 50
1Tm 1,12-17
Lc 15,1-32

C’è tutta una Diocesi, la nostra, che non è soltanto in afflizione per il ridimensionamento delle forze, ma accoglie con tanta gioia e con un senso di novità il grande annuncio: «Il Signore ci ama immensamente, è vivo, è accanto a noi per aiutarci». Queste parole sono il kerygma, l’annuncio iniziale. L’anno scorso ne abbiamo parlato molto in Diocesi; lo abbiamo paragonato al Big Bang dell’inizio del cosmo. Il Big Bang della nostra fede è proprio questo: Gesù è risorto ed è la prova che Dio ci ama immensamente. Un fatto che recupera la nostra vita.
Quest’anno dobbiamo fare un passaggio ulteriore. Il kerygma non è una frase sparata nel cielo delle nostre anime, ma è una realtà. Dov’è che la possiamo toccare, accarezzare? Nel santo Battesimo. Per la stragrande maggioranza di noi il Battesimo è un ricordo lontanissimo; magari ne è rimasta solo una fotografia ingiallita o una catenina; qualcuno ricorda il padrino o la madrina, e il prete che l’ha battezzato. Nei registri della parrocchia sono riportati i nomi dell’anagrafe ecclesiastica, ma per molti non è nulla di più. Quest’anno dobbiamo impegnarci al massimo per recuperare la bellezza, la vitalità del Battesimo che è in noi, come un germe che deve crescere, svilupparsi.
Qual è la prima verità del Battesimo? Il Battesimo fa diventare figli di Dio. Tutte le religioni dicono che gli uomini sono figli di Dio, perché Dio è il creatore e noi siamo la sua creatura. Noi cristiani parliamo di adozione filiale, dove il termine adozione è ancora povero, pallido, perché dà l’idea di qualcosa di giuridico: abbiamo deciso che tu, nonostante sia nato da altri, d’ora in poi sia figlio di questa coppia. L’adozione filiale, invece, è la nostra partecipazione alla vita di Dio; dunque, una cosa grandiosa.
Durante quest’anno penseremo spesso che siamo diventati figli nel Figlio. Questa formula vuol dire che, quando Dio Padre vede ciascuno di noi, vede Gesù. Questo è vero anche in senso alternato. Quando il Padre abbraccia il Figlio Gesù, in Gesù vede ciascuno di noi. Questo vale per tutti.
Tutto il cap. 15 del Vangelo di Luca è una fotografia che Gesù ha fatto del Padre, il Padre misericordioso che guarda da lontano che il figlio ritorni. Il figlio torna, non per amore ma per fame. Al padre basta un incipiente atto di amore. Se il figlio cammina, il padre corre. Se il figlio muove i primi passi verso, il padre è già lì. Allora è festa.
Gesù dice: «C’è più gioia in cielo per un peccatore che si converte di novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione». Pensate, noi portiamo gioia al paradiso; sarebbe come dire che portiamo luce al sole, una contraddizione in termini.
Viviamo questa settimana pregustando la bellezza del Battesimo, che è la vocazione ad essere figli nel Figlio. Domenica prossima gli operatori pastorali, i catechisti, gli insegnanti di religione, i volontari Caritas, tutti i cristiani, sono invitati in Cattedrale a Pennabilli alle ore 16 per la Giornata del Mandato. Il Vescovo conferisce l’incarico a tutti, assicurando loro che li accompagna la grazia del Signore. In quel contesto verrà annunciato e spiegato il Programma pastorale per il nuovo anno. Noi cerchiamo di correre, ma non come uno che non ha meta (cfr. 1Cor 9,26). La meta l’abbiamo. Quest’anno è riappropriarci del nostro Battesimo. Così sia.

Omelia in occasione dell’Ordinazione presbiterale di don Luca Bernardi

Pennabilli (Cattedrale), 14 settembre 2019

(da registrazione)

Ger 1,4-9
Sal 95
Ebr 5,1-10
Gv 21, 15-17

«Ich bin catholischer priester»: sono le parole esatte che san Massimiliano Kolbe scandì davanti al comandante delle S.S., quando si offrì per prendere il posto di un altro nel bunker della morte ad Auschwitz. Una parola che si è andata ad infrangere una seconda volta davanti allo stupore massiccio e incredulo del comandante: «Ich bin catholischer priester» (io sono un prete cattolico); parole pronunciate con fierezza, parole pronunciate per amore. Fierezza e amore.
La fierezza della fede non è arroganza, ma gioia di appartenere a Gesù Cristo; bellezza di una scelta e di una missione che riempiono il cuore. Sii fiero di essere un prete cattolico, don Luca, ultimo di una schiera di preti che hanno educato, servito, amato questa terra. Oggi, più che in altre epoche, esser prete appare un’avventura – quasi un’imprudenza, secondo qualcuno – pensando alla tua giovane età e alla durezza dei tempi. Ma c’è stata una bella preparazione: la tua famiglia, Ferrara e questi ultimi anni di studio e di tirocinio. Poi, c’è la gioia del popolo di Dio. Anche questo è un segno. C’è, soprattutto, il sigillo del Signore che ti ha chiamato e, come al profeta Geremia, dice a te: «Prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo, prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato… Non dire: “Sono giovane, ma va da coloro a cui ti manderò”» (Ger 1,5.7).
Questa sera diventi un prete della Chiesa cattolica. Non allontanartene mai. Sia sempre salda la tua unità con il Sommo Pontefice e con il Vescovo, in comunione con i tuoi fratelli presbiteri, a servizio di questa Chiesa, forse tra le più piccole, ma a pieno titolo sposa del Signore.
«Io sono un prete cattolico»: parole pronunciate per amore. Quello del Signore Gesù. Qui non si parla tanto della virtù della carità, pur tanto bella e necessaria, ma del fatto che tu, attraverso il sacramento, sei fatto carità. Starei quasi per dire “nonostante te”, senza negare la tua libertà e la tua collaborazione alla grazia.
Ce ne parla la Lettera agli Ebrei. Un accenno. Il sacerdozio di Cristo, a differenza di quello di Aronne (Antico Testamento), conosce un movimento discendente, quasi un piano inclinato. I Padri parlavano di condiscendenza. Contempliamo, anzitutto, il “sì eterno” del Verbo nell’unità col Padre («Ecco, io vengo per fare la tua volontà» cfr. Sal 39,8), l’incarnazione, la vita nascosta a Nazaret, la familiarità con la gente, il cammino rigato di sudore e di polvere verso Gerusalemme, la Passione, il dolore innocente; infine, il dono totale di sé sulla croce («Tutto è compiuto» Gv 19,30). Gesù, sospeso fra cielo e terra, diviene altare, vittima e sacerdote. Sacrificio cruento. «Padre, liberami da quest’ora – aveva detto Gesù –, aggiungendo poi, «ma è per quest’ora che sono venuto» (Gv 12,27). Non tutto è compiuto: resta per noi, incantati e stupefatti da tanta condiscendenza, da considerare l’estrema offerta: in virtù della risurrezione il suo donarsi, il suo perdersi, il suo cedersi nel Pane eucaristico. Noi adoriamo la sua presenza nel dono di quel pane spezzato e di quel vino versato. Oltre, la nostra meditazione non saprebbe spingersi. A quali altre profondità rintracciare la kenosis – l’umiliazione condiscendente – del Verbo fatto uomo, del Figlio obbediente, del Risorto che si fa pane di vita. Diremmo: siamo al capolinea! Più in basso di così non poteva spingersi, fattosi grumo di materia, farina impastata con l’acqua.
C’è una sorpresa: Gesù, in una eccedenza ineffabile di carità, cede la sua stessa capacità di cedersi, dona la sua stessa capacità di donarsi, perde la sua stessa capacità di perdersi. A chi la cede? A chi la dona? In chi la perde? Nel prete. In te, don Luca, che questa sera pronuncerai efficacemente le sue parole: «Questo è il mio corpo dato per voi…». La carità di Cristo è perduta in te. O meglio, tu sei costituito carità in Lui: bellezza incredibile del sacerdozio cattolico.
Da qui conseguenze, responsabilità, programmi di vita… Il prete è l’approssimazione più grande che si possa attuare quaggiù, sulla terra, della presenza visibile del Cristo.
«Scelto fra gli uomini… Costituito per gli uomini nelle cose che riguardano Dio» (cfr. Ebr 5,1). «Nessuno può attribuirsi questo onore, se non chi è chiamato da Dio» (cfr. Ebr 5,4).
Egli, il Cristo, «offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a Dio che poteva salvarlo dalla morte e, per il pieno abbandono in lui, venne esaudito» (cfr. Ebr 5,7). In che modo si compì l’esaudimento di quella preghiera «con forti grida e lacrime», se poi è morto sulla croce? In questo fu esaudito: nel poter vivere da figlio quella prova e divenire causa di salvezza. E ora? «Un corpo mi hai dato» (Ebr 10,5), dice il Verbo entrando nel mondo. Non angeli vengono mandati, ma uomini di carne per compiere la missione. Ha scelto uomini, ha scelto te, don Luca, e ti ha scelto insieme al nostro presbiterio, con il nostro popolo. Applichiamoci a far entrare in questa carità tutta la nostra persona: anzitutto un prete uomo.
Ci sono preti che sembra non abbiamo mai avuto una vita d’uomo. Non sanno pesare le difficoltà di un laico, di un padre di famiglia o di una madre con il loro vero peso umano. Sembrano, alcuni preti, non percepire veramente, realmente, dolorosamente, che cosa sia una vita di uomo o di donna.
Quando dei laici cristiani incontrano finalmente un prete-uomo che li capisce, che sa entrare nella loro vita, nelle loro difficoltà, non ne perdono più il ricordo. Ad una condizione: che non sminuisca la propria identità, che non diventi semplice compagno, ma resti padre.
Il nostro popolo ha ugualmente bisogno che il prete-uomo viva di una vita divina. Pur vivendo tra la gente – come suol dirsi: «con l’odore delle pecore» (Papa Francesco) – deve in qualche modo rimanerne al di fuori. Ecco alcuni segni che fanno percepire la presenza divina che è in lui, la carità che è effusa. Un elenco rapidissimo, alcune pennellate.
La preghiera. Ahimè, forse hai visto in noi, preti “di molte preghiere”, ma di poca preghiera.
La gioia. Quante volte ti siamo apparsi affaccendati, angosciati, tirati come la pelle di un tamburo, quasi che il lavoro nella vigna del Signore fosse insopportabile.
La forza. Il prete vero è colui che tiene, che tiene botta! Sensibile, vibrante, a volte intimorito, mai però demolito (non cullare mai pensieri rinunciatari o dimissionari; missionari sì, ma non dimissionari).
La libertà. La gente vuole il prete libero da ogni formalismo, liberato soprattutto da ogni pregiudizio.
La discrezione. Dev’essere colui che tace; non mi riferisco al segreto di Confessione, è ovvio, ma alla riservatezza (si perde la fiducia in chi ci fa troppe confidenze o si perde nel chiacchiericcio). Ben altra cosa sono la condivisione e la comunione d’anima.
Caro don Luca, hai appena iniziata la tua formazione – anche se hai già fatto sei anni di Seminario – ora continuala sul campo: viceparroco a Dogana, nel Centro Diocesano Vocazioni, tra i giovani e nell’AGESCS. Lasciati prendere da quella “legge di gravità” che ti trascina istintivamente verso i più poveri, i più fragili, i più piccoli. Cresci nel sentire con la Chiesa: non parlare mai con leggerezza della Chiesa, come se fossi uno di fuori. Fa’ che il tuo cuore risponda sempre col trasporto di oggi alla domanda che il Risorto ti rivolge: «Luca, mi ami più di costoro? […] Mi ami? […] Mi vuoi bene? Allora… Pasci!». Così sia.

Percorsi di Teologia 11

Giornata del Mandato

Omelia nella Festa della Natività

Santa Maria d’Antico, 8 settembre 2019

(da registrazione)

Ester 8,3-8.16-17
Sal 89
Ap 12,1-2
Lc 14,25-33

Vi saluto tutti con tanta simpatia, in questo nostro appuntamento annuale nel giorno del compleanno della Madonna. Adesso lei è in paradiso, pertanto gli anni non contano più, ma per noi sulla terra è bello ricordare la data della sua nascita, anche se è convenzionale (non si sa esattamente la data di nascita di Maria di Nazaret, la madre di Gesù). Maria è nata in uno dei nostri giorni, è entrata nella nostra storia, è come l’aurora che porta il sole, Gesù.
La liturgia di questa sera ci fa leggere una pagina del libro di Ester, un libro della Bibbia scritto per tempi difficili come i nostri. Ma quando mai i tempi sono stati facili?
Ester, la protagonista, è una ragazza orfana che porta scritta nella sua storia personale la sofferta realtà della diaspora giudaica (l’esilio: Babilonia, attraverso i suoi principi, aveva annientato la città di Gerusalemme e portato via i responsabili, i dirigenti, la nobiltà di Israele; ciò è stato come decapitare il popolo di Israele). La vicenda di Ester si svolge nei sontuosi palazzi del re di Persia e assomiglia – spero che gli esegeti non mi sgridino – alla fiaba di Cenerentola: anche qui c’è un capovolgimento delle sorti. Ester, povera, orfana, piccola, indifesa, ad un certo punto si trova ad essere regina. Come succede questo? In breve: la regina del re Assuero, Vasti, si rifiuta di comparire davanti al re che vuole mostrare al popolo e ai capi la sua bellezza. Una femminista ante litteram, questa regina! «È un oltraggio», gridano i saggi di corte. Non sia mai che la regina si sottragga agli ordini del re! Si deve immediatamente sostituire l’orgogliosa regina. Viene bandito, allora, un concorso di bellezza: la più bella sarà regina al posto di Vasti. Anche la piccola Ester – il suo nome significa “Stella” – viene iscritta dallo zio che l’ha presa a casa sua da quando è rimasta sola e orfana. Il re rimane conquistato dalla sua bellezza e la vuole regina, accanto a lui. Intanto, a corte, un potente ministro del re, Amàn, sta organizzando un programma di sterminio degli Ebrei. Lo zio di Ester riconosce provvidenziale l’elezione della nipote: il Signore vuol servirsi di lei per salvare il suo popolo (anche Mosè era a corte e ci si trovò per caso, perché la mamma non aveva osato stendere la mano sul suo bimbo e l’ha adagiato in un cestello sul fiume Nilo; la figlia del Faraone, visto un cestello che galleggiava sulle acque, l’ha mandato a prendere, dentro vi ha trovato un bimbo, l’ha allevato ed è diventato il liberatore del suo popolo). Ebbene, Ester è come Mosè. Si è trovata, per caso (ma noi sappiamo bene che non esiste il caso, c’è un disegno), al punto giusto nel momento giusto. Per intercessione di Ester il popolo è salvo e lo zio di Ester viene esaltato, mentre il cattivo ministro viene punito. Per i Giudei era spuntata una luce, una stella: ci fu letizia, esultanza, onore. La liturgia di questa sera ci fa vedere, nella provvidenziale intercessione di Ester, il ruolo di Maria presso il Signore, che l’ha voluta come tenerissima madre e regina, accanto a Lui e accanto a noi.
Perché ricorrere a Maria? Perché la Chiesa sottolinea tanto il nostro legame con la Madonna? Per sentimentalismo? Forse che il Signore ha bisogno d’essere convinto? Sarebbe puerile pensarlo. L’Onnipotente vuole piuttosto coinvolgere la creatura nel suo piano d’amore e Maria, in questo piano, ha un posto singolare. La preghiera e il coraggio della piccola Ester sono figura della tenerezza e dell’amore di Maria. Mi viene da dire: non fu così anche alle nozze di Cana? Un avvenimento di paese, una festa di famiglia, un matrimonio. Non c’era più vino, gli sposi erano in imbarazzo. L’evangelista Giovanni, che ci ha tramandato questo racconto, fa sempre una lettura simbolica, più grande di quello che accade contestualmente. Gesù aveva detto: «Donna, non è ancora giunta la mia ora» (Gv 2,4). La Madonna insiste e sposta in avanti – scusate il paragone – “le lancette” dell’ora di Gesù.
Stasera, mentre festeggiamo la natività di Maria, la nostra festa, come gli sposi di Cana di Galilea constatiamo che il vino scarseggia. Il vino della speranza, della salute, il vino dell’amore vengono a mancare. Ci mettiamo nelle mani di Maria. Sappiamo che lei non ci sta che dal più si scenda al meno. Lei vuole che dal meno si vada al più. E allora dice ai servi e a noi: «Fate tutto quello che lui vi dirà» (Gv 2,5). Così sia.

Omelia nella Festa della Natività

Eremo di Carpegna (Santuario Madonna del Faggio), 8 settembre 2019

(da registrazione)

Sap 9,13-18
Sal 89
Ap 12,1-2
Lc 14,25-33

Siamo venuti per fare gli auguri di compleanno alla Madonna. È un modo di dire, perché lei adesso è fuori dal computo degli anni. È nel possesso definitivo della gloria. Tuttavia, ricordiamo la “fortuna” che sia nata in questo mondo.
Nella chiesa di Secchiano, uno dei nostri borghi, è rimasto appena un lembo di un antico affresco nell’abside della chiesa: riporta il volto della Madonna, appena tratteggiato sullo sfondo grigio. I restauri adesso non si fanno mai ricostruendo daccapo, perché si vuole rispettare quello che è rimasto (si fanno restauri conservativi).
Dobbiamo confessare che i contenuti della fede in tanti cristiani di oggi, in noi, sono come il grigio di quell’abside, sono scoloriti. Tanti di noi hanno perso il contatto con la sorgente della fede che sono le Sacre Scritture, ma è rimasta una tenue traccia nell’anima: il volto di Maria. Sono convinto che, partendo dalla Madonna, si possa ricominciare.
Nella Chiesa delle origini la Madonna non ebbe un compito particolare, pari a quello del Battista e degli apostoli. Non fu un araldo ufficiale. Il Vangelo di Marco, che tratta esclusivamente della predicazione pubblica di Gesù, non le dedica se non qualche versetto. Matteo, Luca e Giovanni, invece, scoprono sempre più il suo compito, che non consiste soltanto nella sua consanguineità con Gesù. Maria è coinvolta negli avvenimenti con tutta la sua persona. Dice il Vangelo: «Ha conservato in cuor suo e meditato» (Lc 2,19.51) tutti gli eventi che riguardavano Gesù. Ha creduto, per questo Gesù la proclama “beata”. Ha concepito Gesù nel suo spirito, nel suo cuore, prima ancora che nel suo grembo. Dunque, la venerazione alla Madonna è evangelica (ha a che fare con i Vangeli).
Se fosse con noi qualche fratello protestante vorrei dire: «Non temere per la venerazione alla Madonna che noi cattolici sentiamo così tanto. Non togliamo niente a Gesù, al contrario». Ricordo che per un certo periodo è venuta da me (mi era stata affidata) una ragazza somala; era figlia di un dignitario importante di quella nazione ed era stata una guerrigliera; ora era profuga in Italia. Essendo luterana aveva chiesto che qualcuno le spiegasse un po’ il cattolicesimo. Un giorno mi fece questa domanda: perché il Seminario (il luogo dove ci trovavamo a parlare) è tappezzato di immagini della Madonna? Le dissi più o meno così: «Noi cattolici diamo molta importanza all’incarnazione. Veramente il Signore, il Verbo, si è fatto carne. È nato veramente da una donna, Maria. Questo fa onore a noi della razza umana».
Anche se nei Vangeli non si parla tantissimo di lei, da subito, però, la Madre di Gesù fu venerata dai cristiani. Ci stiamo preparando, come Diocesi, a partire per il pellegrinaggio in Terra Santa. Abiteremo per tre giorni a Nazaret. A Nazaret gli scavi archeologici hanno portato alla luce, sulla soglia di quella che viene ricordata come la casa della Santa Famiglia, le prime parole dell’Ave Maria. Sono pietre quasi contemporanee a Gesù (I secolo): «Kaire Maria», che vuol dire «Salute Maria, Ave Maria», come diciamo noi oggi: le stesse parole dell’angelo dell’annunciazione. I primi cristiani andavano in quella casa, povera, e sentivano già di venerare la Madre di Gesù. Incomincia così la storia che lega inseparabilmente il popolo cristiano con la Madre del Signore.
Fin da allora, la Teologia chiarisce che Maria non è il centro del mistero cristiano (il centro è Gesù), ma è al centro, La centralità di Maria è relativa a Gesù. Ma non vuol dire che è secondaria, come affermano i protestanti. Per comprendere Maria occorre la fede. La sua è maternità divina: quel che è nato in lei è opera dello Spirito Santo. Il Verbo ha preso carne e sangue da lei, nel suo grembo è stato ricamato e poi nutrito col suo latte. Gesù, uomo-Dio, viene da Maria, per questo i cristiani la chiamano la Madonna Madre di Dio. E lo è realmente, fisicamente. La donna che genera un figlio non è soltanto madre del suo corpo, ma di tutta la sua persona. Gesù è una persona divina. Dunque, Maria è madre di Dio.
I mistici cantano Maria come cielo tersissimo e purissimo sul quale il Verbo (la Parola) pronuncia se stesso. Il Verbo si fece carne. Ho trovato una frase molto bella di papa Benedetto XVI in uno dei libri di quando ero studente (e lui teologo), dedicata alla Madonna: «Chi si mette a disposizione di Dio, scompare con lui nella nube, nella modestia e nell’oblio, ma finendo così per partecipare alla sua gloria» (J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, 220). Allora contempliamo in lei la Figlia di Sion e la Serva del Signore, perché riassume tutta la realtà e l’attesa di Israele: «Rallegrati figlia di Sion… il Signore tuo Dio è in mezzo a te» (Sof 3,14-17).
Nella Madre di Dio i cristiani vedono rappresentata la Chiesa; è lei la donna vestita di sole. Il bambino che mette al mondo, Gesù Bambino, è insidiato: è la Chiesa che soffre persecuzioni e mali. La Chiesa è misticamente chiamata a mettere al mondo il Signore con la testimonianza coraggiosa, con la Parola vissuta, con i Sacramenti.
Come Maria, la Chiesa è sposa, una sposa che innalza perennemente una invocazione allo sposo: «Vieni, Signore Gesù» (Ap 22,20). In uno dei più suggestivi affreschi del Nuovo Testamento viene così raffigurata: «Nel cielo apparve poi un segno grandioso: “Una donna vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul capo una corona di dodici stelle. Era incinta e gridava per le doglie e il travaglio del parto”» (Ap 12,1-2).
Un mistico persiano, Abbas Al-Tusi, morto nel 909, ha scritto: «Quando nel giorno della risurrezione saremo chiamati: “Oh uomini!”, la prima ad avanzare nel rango degli uomini sarà Maria, su di lei sia pace. Sarebbe meglio rinunciare a riunirsi, se lei non ci fosse» (Caterina Valdrè, I detti di Rabi’a). Sappiamo bene che lei c’è e siamo contenti di riunirci con lei nel Cielo. Così sia.

Omelia nella XXIII domenica del Tempo Ordinario

Pennabilli (Cattedrale), 8 settembre 2019

(da registrazione)

S. Cresime

Sap 9,13-18
Sal 89
At 21-11
Lc 14,25-33

Riviviamo oggi quello che è accaduto nel Cenacolo. Gli apostoli erano riuniti tutti insieme quel giorno; c’era anche Maria, la mamma di Gesù, in mezzo a loro, e ci fu d’improvviso come un rombo, come un terremoto, accompagnati da un vento gagliardo e da un fuoco. Lo Spirito di Gesù, in quell’occasione, fu una cosa visibile, carismatica, accompagnata da segni esterni, che travolse il gruppo dei Dodici che avevano seguito Gesù.
Oggi è la stessa cosa, anche se non ci sono fenomeni straordinari; ma quel fuoco, quel fragore dentro di noi accadrà tra poco, quando verrete davanti ad uno dei successori degli apostoli, che vi imporrà le mani e vi profumerà la fronte con il sacro crisma: il bacio di Gesù che si imprime su di voi, un patto di eterna fedeltà da parte sua.
Che cosa ci ha detto Gesù questa mattina? Gesù aveva davanti la folla, ma non si lasciava condizionare da essa: cercava piuttosto l’a tu per tu. «Se vuoi, seguimi» (Mt 19,21). Gesù propone di seguirlo, di stare con lui, di stare in familiarità con lui. Chissà in quanti avranno risposto a quell’invito… Gesù si sarebbe accontentato anche soltanto dei Dodici. Dico una cosa paradossale: Gesù si accontenterebbe anche di un cuore solo, ma tutto. «Se vuoi, seguimi, diventami amico».
Ieri – scusate il confronto con un’altra comunità parrocchiale – c’erano 51 ragazzi che ricevevano il sacramento della Cresima; c’era tanta folla, dentro e fuori la chiesa. Mentre dicevo queste cose avevo dentro di me una specie di scetticismo: «Chissà se qualcuno potesse dire a Gesù: “Sì, io ti voglio bene”». «Non ho dubbi», ho pensato. Ecco il mio cuore. Un po’ come disse san Pietro. Non è stata molto edificante la compagnia di Pietro a Gesù, all’inizio, ma gli ha detto con tutto il cuore: «Signore, tu solo hai parole di vita eterna» (Gv 6,68). Quando ho finito di parlare ho pensato: «Signore, se non ci fosse nessuno dei presenti che ti dà il suo cuore, ti do il mio». Poi, nel momento della preghiera del Padre Nostro, in quella chiesa affollatissima, si è creato un clima profondo di intimità che era più clamoroso del chiasso che si avvertiva nella via davanti alla parrocchia. Ho capito che non c’era solo un cuore che diceva il suo “sì” a Gesù, ma ce n’erano tanti. Questo mi ha incoraggiato.
Gesù dice di seguirlo. Detta anche delle condizioni a questa compagnia. Gesù dice che vuole essere amato di più dei propri familiari. Non istituisce una sorta di gara, perché forse sarebbe perdente (amiamo tanto i nostri familiari!); Gesù intendeva dire che il tipo di amore che ci domanda è di natura affettiva; non è come quando si va di fronte ad una lapide a posare una corona di fiori, con una cerimonia ufficiale. Gesù vuole il cuore. Le corde da far vibrare sono le medesime dei nostri rapporti interpersonali affettuosi: vuole che lo amiamo così. Il centro della frase pronunciata da Gesù non è sulle rinunce prima di tutto; il centro è sull’amare di più. Non una sottrazione, semmai un’addizione: amare di più. Cari ragazzi, ad un parroco, come ad un vescovo, viene di fare anche delle raccomandazioni. Ad esempio, se vuoi seguire Gesù, vieni a trovarlo qualche volta durante la settimana. Nel tabernacolo c’è un segno vivo della sua presenza, l’Eucaristia. Non dimenticate, poi, che nell’assemblea domenicale c’è tutto un popolo riunito, un popolo che sente la propria identità e la genera nel più splendente dei modi.
Non posso tralasciare un’ultima raccomandazione. Continuate a trovarvi, a fare gruppo. So che c’è già una proposta insieme alle parrocchie vicine. Sarà in una forma più adatta alla vostra età. Sarà importante incontrarvi insieme a qualche adulto che vi cammina accanto, tenendo sempre il collegamento con colui che vi ama, il Signore Gesù. Così sia.