Omelia nella celebrazione con la Comunità Terapeutica APG23 a Maiolo

Omelia nella V domenica di Quaresima
Maiolo, 6 aprile 2019

Is 43,16-21
Sal 125
Fil 3,8-14
Gv 8,1-11

Abbiamo iniziato la Quaresima con l’imposizione delle Ceneri. Il celebrante, in quella circostanza, pronuncia una parola molto severa: «Memento homo quia pulvis es et in pulverem reverteris (Ricordati, o uomo, che devi morire perché sei polvere)». Quando si incomincia la Quaresima così, capita di andare un po’ in crisi… Il tempo della Quaresima assomiglia a quello in cui la crisalide deve morire e spaccarsi perché venga fuori la farfalla coloratissima della vita nuova. C’è bisogno di un travaglio, di un tempo di penitenza, di conversione, di cambio di sistema di vita, di sacrificio. Vorrei dire, adesso, un’altra parola, che conclude la Quaresima e vorrei riempisse di gioia questo luogo dove ci troviamo a pregare: «Ricordati: risorgerai!». Quando vado alla Grotta Rossa o nelle Case della Papa Giovanni XXIII mi sembra che questa parola non sia solo un augurio, un modo di dire, perché veramente c’è gente che risorge, che cambia vita, e anche se ci sono infermità che sembrano non arrivare ad una soluzione, c’è tutto un popolo, una rete di persone da cui ti senti portato in alto: è la risurrezione. Ma ce ne sarà un’altra, quella che ci darà Gesù alla fine della vita, che sarà il massimo dello splendore. Prepariamoci alla risurrezione. C’è un versetto negli scritti di San Giovanni in cui l’evangelista dice: «Noi passiamo da morte a vita quando amiamo i fratelli» (cfr. 1Gv 3,14). A volte basta poco per amare, ma bisogna che si sblocchi il cuore. C’è il gesto grande di una mamma che dà la vita al suo bimbo, c’è il momento di intimità di due sposi, c’è la compagnia fra due amici, c’è un sacerdote che dice la Messa… A volte basta anche molto meno: uno sguardo, un sorriso, il portare insieme un carico pesante…
Nella pagina di Vangelo di oggi ho sottolineato alcuni verbi (esprimono l’azione che fa o che subisce il soggetto). Il primo: Gesù scrive col dito per terra. C’è una donna colta «in flagrante» che viene portata davanti a Gesù. Gesù sembra imbarazzato, ma non per la donna che gli sta di fronte: non vuole incrociare gli sguardi che accusano e giudicano. Allora si mette a scrivere con un dito per terra (Gesù sapeva leggere e scrivere!). Nel libro del profeta Geremia si dice che Dio scrive sulla polvere il nome di coloro che si allontanano da lui. Alcuni esegeti dicono che Gesù stesse scrivendo alcuni peccati dei presenti.
Il secondo verbo che sottolineo è: di nuovo Gesù si china. In quel gesto Gesù si fa piccino (quelli dietro non lo vedono) e responsabilizza i presenti: «Chi è senza peccato scagli la prima pietra (la pena capitale per quel peccato era la lapidazione)». Chinandosi Gesù sembra dire: «Non giudicate per non essere giudicati». Allora le pietre cadono dalle mani degli accusatori.
Il terzo: Gesù si alza… Gesù è rimasto da solo con la peccatrice. Si alza come si fa davanti ad una persona attesa, importante, a cui si deve rispetto. Cosa vede Gesù nei suoi occhi? Probabilmente la paura, la vergogna, ma soprattutto la speranza. Quella donna, guardata da Gesù in quel modo, sta per risorgere. Gesù le parla. Fino a questo punto del racconto nessuno ha parlato alla donna: l’hanno tirata in ballo, l’hanno portata in piazza, l’hanno sottoposta a quel giudizio. Ma Gesù le parla e dice due cose: «Va’… », come a dire: «Sei libera, continua il cammino della vita, non disperare, perché tu non sei il tuo peccato. Hai sbagliato, ma puoi ricominciare una nuova vita». «Va’… » è il verbo della missione. Quante volte Gesù l’adopera! Poi gli dice: «Non peccare più». Quanti insegnamenti per noi che siamo portati a giudicare gli altri… Come dicevano gli antichi, noi abbiamo sulle spalle due sacchi: uno davanti e uno dietro. In quella dietro di noi ci sono i nostri sbagli, che non vediamo mai. Invece, il sacco che abbiamo davanti è quello degli altri, sempre sotto i nostri occhi. Gesù, responsabilizzandoci, dice: «Vedi un po’ di risorgere anche tu, te ne offro l’opportunità».
«Ricordati: risorgerai! Anzi, sei già risorto».

Marcia missionaria

Carità senza confini

Omelia nella celebrazione eucaristica nell’Insediamento dei Capitani Reggenti

San Marino Città (Basilica), 1 aprile 2019

2 Cor 5,18-20
Lc 15,1-3.11-32

Eccellenze, Signori e Signore,
un caloroso saluto a tutti.
La prima parola è “grazie” ai Capitani Reggenti che hanno concluso il loro mandato, contrassegnato da tanto impegno, da una presenza costante fra le componenti della nostra comunità civile, da un’attenta vigilanza e accoglienza (penso alle tante udienze a cui si sono resi disponibili). Sono stati anche un esempio di come si pensa, si vive, si integra la disabilità. Una comunità è matura non solo quando ha attenzione alla disabilità, ma quando in essa la disabilità viene onorata.
Saluto con deferenza i Capitani Reggenti che oggi si assumono la responsabilità di essere riferimento fondamentale, etico, sociale e politico della nostra Repubblica. Auguro che il loro servizio intensifichi quella possibilità di dialogo tanto necessario in questo tempo tra noi e la difesa appassionata dei diritti e dei doveri inderogabili della persona, della famiglia e dell’educazione.
Saluto con profondo affetto ecclesiale il Nunzio, Sua Eccellenza mons. Emil Paul Tscherrig, che ci porta anche fisicamente la vicinanza e l’affetto del Santo Padre. Lo preghiamo di farsi interprete presso papa Francesco del nostro affetto e dell’adesione al suo programma.

Vorrei avervi tutti compagni e alunni ai piedi del Maestro Gesù. Impariamo da Lui l’insegnamento più necessario, più utile e più bello: l’insegnamento su Dio. Infatti, lo scopo della parabola che è stata proclamata poco fa dal diacono, riferitaci dall’evangelista Luca, è di farci cambiare l’opinione che solitamente abbiamo di Dio. Le Sacre Scritture dell’Antico Testamento ci parlano spesso delle alleanze di Dio con l’umanità e quelle parole sono come altrettante note musicali che discendono sul foglio bianco. Nella pienezza dei tempi Gesù viene, distende il rigo musicale e quelle note finalmente diventano leggibili.
Preferisco chiamare questa parabola, solitamente detta “del figliuol prodigo”, la parabola “del Padre misericordioso”, perché tutte le linee narrative portano a lui. Ci sono i due figli coprotagonisti e tante altre comparse.
Facciamo attenzione al figlio più giovane. Se ne va da casa con la sua parte di beni, la sua eredità. In cerca di che cosa? Fondamentalmente in cerca di se stesso e della sua felicità. Il padre lo lascia andare; si direbbe quasi che sia un padre che ama la libertà del figlio, la provoca, la festeggia… e la patisce. Quel figlio insegue la felicità, ma si accorge che le cose sulle quali si è buttato hanno un fondo e che il fondo è vuoto: la sua è un’illusione di felicità da cui si risveglia tra porci, ladro di carrube per vivere!
La sua vicenda è una descrizione del peccato: peccato come discesa, viaggio ed esilio lontano da Dio; la miseria come perdita della gloria dell’uomo come immagine di Dio; la famigliarità coi porci, segno della morte dovuta al peccato. Ma il prodigo rientra in sé. Nel suo soliloquio sembra dimostrare d’aver preso coscienza del suo male. Riecheggiano le parole del profeta Geremia: «Dopo il mio smarrimento, mi sono pentito; dopo essermi ravveduto mi sono battuto l’anca. Mi sono vergognato e ne provo confusione, perché porto l’infamia della mia giovinezza» (Ger 31,18-19).
Il prodigo sa di non avere più diritti. Si augura d’essere trattato come un avventizio. Cerca, in quello che fu suo padre, almeno un buon padrone. Torna, ma torna per fame non per amore. Torna per non morire.
Ora l’attenzione va sulla figura centrale, quella del padre. Il padre fa tutto da solo. Quello del figlio non è vero pentimento, è un pentimento interessato. Al padre basta anche un cenno, un passo, un alzar di sguardo. Perdona non con dichiarazioni, ma con una carezza.
Gustiamo i cinque verbi del perdono paterno: scruta l’orizzonte e vede; corre incontro incurante anche di compromettere la sua compostezza orientale; si commuove: è commozione viscerale, empatia; si getta al collo del figlio, lo bacia.
Segue la consegna di tre simboli. La veste: dignità riconsegnata; l’anello: sigillo dell’autorità che ha come figlio; i sandali, segno dell’uomo libero (lo schiavo cammina scalzo).
E poi c’è la festa.
Il figlio maggiore entra in scena di ritorno dal lavoro. Chissà se ama le cose che fa! C’è contrasto fra il suo cuore infelice e la festa che tracima dalla casa. Si informa. È imbronciato, protesta i suoi meriti. Il genere di perfezione vissuta dal figlio maggiore è fatto di osservanze meticolose, di austerità forzata, di virtù obtorto collo. Questo gli impedisce di entrare nella logica del padre, che è basata sull’amore gratuito. Qui c’è un padre che non è giusto: è di più, è amore incondizionato, eccedente!
Il più giovane si era sbagliato sul padre, il più grande continua a sbagliarsi. Lo pensano più padrone che padre, più autorità che autorevolezza, più spione che uno che ha cura.
Il finale della parabola è aperto. Capirà il figlio maggiore? Entrerà alla festa? Ma soprattutto: noi capiamo quello che abbiamo letto?
Le parole della Seconda Lettera ai Corinzi: «Vi supplichiamo in nome di Cristo, lasciatevi riconciliare» (2Cor 5,18-20) mi riportano ad uno degli episodi più commoventi della Genesi. Narra di Giuseppe, il figlio di Giacobbe, spogliato di tutto, venduto ai mercanti d’Oriente dai fratelli gelosi di lui, fatto prigioniero in Egitto, poi diventato vicerè d’Egitto perché sa interpretare i sogni. Nell’epilogo del racconto lo si vede piangere sette volte (fra i personaggi della Bibbia è quello che piange di più, sette volte in poche righe di racconto). Sono lacrime per lo più di commozione, di gioia e di riconoscenza, per i fratelli ritrovati, per la tenerezza del padre, per l’abbraccio al fratello più piccolo, Beniamino. Il settimo pianto, invece, è di dolore, di delusione, di amarezza. Dopo la morte del padre Giacobbe i suoi fratelli ritornano nella paura perché non credono al perdono di Giuseppe: si sentono allo scoperto, senza protezione.
Giuseppe mi appare come figura di Dio. Non so se Dio piange quando i suoi figli pensano di doversi ancora procacciare il suo favore, quando non capiscono il suo cuore e sembrano non fidarsi di lui, anziché buttarsi nelle sue braccia, abbandonandosi alla confidenza. Dio fa il primo passo; la riconciliazione è già completa; è avvenuta, per così dire, unilateralmente, perché «Dio è più grande del nostro cuore» (1Gv 3,20).