Omelia nella XXVIII domenica del Tempo Ordinario

Carpegna, 14 ottobre 2018

Sap 7,7-11
Sal 89
Eb 4,12-13
Mc 10,17-30

  • Messa di chiusura della Visita Pastorale nella parrocchia di Carpegna
  • (da registrazione)

    Un tale va ad incontrare Gesù. Chi è? Che nome ha? Il mio, il tuo: quel tale è il prototipo di un possibile discepolo. È in cerca di buoni maestri e ha adocchiato Gesù: «Ecco un buon maestro!». Attacca bottone, magari un po’ imbarazzato all’inizio, con lui. «Maestro buono, che cosa devo fare per avere una vita eccellente?». Una volta si diceva “vita eterna” per dire l’eccellenza. Sapremo dopo, nel contesto, che quel tale è un giovane, ricco e aristocratico moralmente. Ci sorprende la risposta di Gesù. Gesù è un rabbi particolare, infatti sembra smarcarsi. Lui non è un “buon maestro”, un maestro di accademia; anzi, non ha da proporre nessuna dottrina particolare, nessuna filosofia sua, nessun insegnamento suo, se non quello del Padre, Dio. È a lui, alla sua misericordia, al suo amore che deve guardare questo cercatore di buoni maestri. Attenzione, Gesù non dice di essere cattivo o mediocre e tanto meno peccatore; dice che lui è soltanto segno, manifestazione e irradiazione di un Altro. Per Gesù quello che conta è accogliere la manifestazione definitiva della bontà perdonante di Dio. La vita eccellente – la vita eterna come diciamo noi – abbraccia tutto: presente, passato e futuro. Invece noi quando diciamo “vita eterna” pensiamo all’al di là, ma è riduttivo. La vita eccellente è una eredità, ti tocca, per concessione, per grazia. E come tale va raccolta, fatta fruttificare, custodita. Il Decalogo, i dieci comandamenti, servivano proprio a questo. Era il modo concreto col quale l’antico popolo di Israele accoglieva il dono dell’Alleanza, dono di un’amicizia e di una vita eccedente.

    Cosa dice quel tale a Gesù? Ognuno di voi potrebbe rispondere così: «Io ho osservato tutti i comandamenti fin da bambino» (cfr. Mc 10,20). Gesù crede alla sincerità di quel ragazzo e non considera affatto la sua risposta come orgogliosa o esibizionista, tant’è che lo invita alla sequela. Attenzione però, la sequela, il discepolato non sono volontarismo, non consistono nell’essere a tutti i costi il primo della classe, un eroe immacolato, un’asceta incorruttibile, una sorta di Lancillotto (cavaliere senza macchia). Il discepolo è colui che accoglie Gesù, perché in Gesù è comparso l’orizzonte, nella storia grande come nella nostra piccola storia, la regalità di Dio, l’amore di Dio: la vita eccedente. Farsi discepolo è concentrarsi sulla persona di Gesù. Va bene una vita irreprensibile, ma non basta. Occorre semplicemente Altro; siamo in un altro ordine di cose. Occorre seguire Gesù, fare strada con Gesù, abbandonare senza rimpianto tutto ciò che dis-trae da lui.
    Che cosa devo fare per avere. Notate i verbi: sono molto autoreferenziali. Sfogliamo il Vangelo, andiamo verso la fine e troviamo “il discepolo”: è un disgraziato, un ladrone, crocifisso con Gesù. Quali sono i verbi che coniuga? «Gesù, ricordati di me quando sarai nel tuo regno» (Lc 23,42).

    Torniamo a quel tale, a me e a ciascuno di voi. «Gesù, fissatolo, lo amò» (Mc 10,21). Ecco, cari amici di Carpegna, che cosa è venuto a fare il vescovo tra voi. È venuto semplicemente a dirvi, a ricordarvi, che Gesù guarda ciascuno di voi con immensa tenerezza. Credetemi!
    Il pastore è venuto a Carpegna per questo. Ho sentito tanta accoglienza, cordialità, affetto, al di là della mia persona. Vi ringrazio. Ho incontrato una comunità ospitale, pur con i suoi problemi e i suoi diverbi. L’ospitalità è la vocazione naturale di Carpegna, con i suoi terrazzi naturali spalancati e baciati dal sole. Poi ho trovato una comunità solidale. Ho visto impegno per gli altri, per chi è in difficoltà; non alludo solo alla Protezione Civile, ma a tante iniziative di cui ho sentito parlare, alla Casa “Paradiso” per gli anziani. Da qui lo slogan che vi vorrei lanciare. Sarebbe bello che in ogni casa di Carpegna ci fosse questa frase: «La mia casa è aperta al sole, agli amici, a Dio». Così ho sentito stando tra voi, girando su e giù per questi terrazzi naturali, accompagnato dal vostro giovane parroco. Penso ai saluti cordiali del mattino al bar e per le vie del paese, quasi un ricamo. Penso alla cura per l’infanzia, per i ragazzi, alle scuole, all’oratorio, agli Scout, ai genitori che hanno trascorso una serata di laboratorio con me. Ad un gruppo di loro ho chiesto di scrivere il decalogo dell’educatore. L’idea mi è venuta vedendo le pietre disegnate dai catechisti con i dieci comandamenti. Sono uscite delle affermazioni bellissime, tra le quali mi ha sorpreso questa: «Si educa col sorriso». Ovviamente, dietro al sorriso c’è tutto un pensiero, una pedagogia. Un altro gruppo di genitori ha scritto ironicamente i capitoli per un manuale del perfetto diseducatore, in cui sono stati autodenunciati gli atteggiamenti sbagliati (a volte si fanno degli errori quando si educa). Un altro ha scritto una lettera aperta ad un ipotetico Paolo, un preadolescente.

    Case aperte al sole, agli amici e a Dio. Ho visitato tante case che hanno accolto Gesù in persona, l’Eucaristia. C’è in Carpegna un monastero invisibile che trapunta tutto il paese, dove si continua a soffrire – ahimè – ma si prega e, soprattutto, si continua ad amare. Carpegna è un paese sano; l’ho avvertito nella serata passata al municipio. Non solo tolleranza, ma di più, cortesia e amicizia, a tal punto che un vescovo, in un luogo laico, ha potuto pronunciare il nome di Gesù senza difficoltà. Perché quando c’è amicizia ognuno può dare quello che ha incontrato, senza pretesa di comandare o di esibire privilegi.
    Ho visitato anche il Poligono militare. Lì si è parlato della pace e, con le Forze dell’ordine, i Carabinieri Forestali, di educazione.
    In parrocchia, ho visto laici non solo con deleghe («Tu fai così… »), ma per collaborazione e, più ancora, corresponsabilità: la parrocchia ci appartiene. Ci sono diversità di gruppi e di associazioni in spirito di comunione. Il Consiglio pastorale, con la direzione del parroco, deve garantire, insieme alle proposte di devozione (che sono tante), proposte di formazione solida per tutti, anche per quelli che non fanno parte di nessun gruppo. Una formazione per gli adulti, un po’ come viene garantita a tutti i ragazzi indipendentemente che siano Scout o no. In parrocchia occorre immaginare un tipo di formazione che vada al di là delle singole appartenenze. Potrebbe essere di aiuto in questo l’Azione Cattolica, con le sue caratteristiche.

    Torniamo a quel tale, io e ciascuno di voi. Il Vangelo dice che se ne andò via col volto scuro e triste. Si era ripiegato su se stesso. Aveva tutto, ma gli mancava la cosa più necessaria, più utile, più bella: guardare Gesù, incrociare i suoi occhi che lo amavano, occhi pieni di tenerezza.
    Il mio messaggio ai carpignoli è quello di non guardarsi, non perdere tempo, ma guardare a Lui. Allora i vostri volti saranno sempre più raggianti.

    Omelia in occasione delle S. Cresime a Fratte

    Fratte, 7 ottobre 2018

    S. Cresime

    Gen 2,18-24
    Sal 127
    Eb 2,9-11
    Mc 10,2-16

    (da registrazione)

    Cari ragazzi,
    si avvicina il momento della Santa Cresima. Mi rivolgo a voi, ma anche a tutta la comunità, perché quello che accadrà in questa chiesa ha molto a che fare con la Pentecoste, quando lo Spirito di Dio scese sul gruppo dei discepoli di Gesù. Erano discepoli spaventati, discepoli che vedevano come un’impresa smisurata quella di annunciare il Vangelo fino agli estremi confini della terra: erano semplici pescatori. Poi fra loro vi erano litigi, perché si chiedevano: «Chi è il più grande fra noi?» (cfr. Mc 9,33-36).
    La prima cosa che mi viene da dirvi è che dobbiamo aiutarci ad avere fede. A scuola e negli ambienti che frequentate incontrerete persone di cultura diversa, di differenti convinzioni. Un gruppo di studenti delle scuole superiori, che ho incontrato la scorsa settimana in parrocchia, mi ha confidato che nella loro classe tutti i compagni si dichiarano atei. Voi, tra poco, rinnoverete le promesse battesimali. Anche per voi verrà il momento del combattimento, in cui vi chiederete: «Sarà vero quello che il mio parroco mi ha insegnato? Sarà vero quello che i catechisti mi hanno continuamente ripetuto? Sarà vero quello in cui crede la mia famiglia?». Ricorro spesso, quando parlo ai ragazzi, a questa immagine. Se noi potessimo, per assurdo, fare un’intervista ad un bimbo prima che nasca, quando è ancora nel grembo della mamma e chiedergli: «Com’è la tua mamma? Che colore hanno i suoi capelli? E i suoi occhi?». Lui non saprebbe cosa rispondere. Eppure non c’è nessuno di più intimo a quella mamma di lui. Ma lui non la conosce, non la vede, non la sente, se non indirettamente. Così siamo noi. Il Signore Dio è un grande mistero che ci avvolge, è un amore infinito, ma noi ancora non l’abbiamo visto e possiamo solo credere. Se vedessimo, non ci sarebbe bisogno della fede. La fede è fiducia. «Mi lascio cadere in te, Signore, chiedo la forza del tuo Spirito per potermi mantenere fedele». Mi sovviene di paragonare la fede anche ad una rete nella quale ci si può lanciare, una rete che ci sorregge, nella quale siamo sicuri che verremo custoditi, non cadremo per terra. Un’altra immagine mi viene dalla città da cui provengo, Ferrara, la “città delle biciclette”. Quando si pedala la dinamo fa luce: più si pedala e più ci si vede. Così è la fede: più ci si fida, più ci si vede.
    E che cosa fa lo Spirito Santo? Ci unisce, perché tutti abbiamo lo stesso Spirito, e suscita in mezzo a noi tanti doni, tanti carismi, per l’utilità comune.
    Questa domenica, attraverso la pagina del Vangelo, lo Spirito ci dà di comprendere e contemplare la bellezza di una grande vocazione, la vocazione della maggioranza delle persone, il matrimonio. Tutto parte da una parola di Dio. «Non è bene che l’uomo sia solo» (Gn 2,18). Dunque, il male originale, il primo che è apparso sulla terra, prima ancora del peccato, è la solitudine, perché non c’è nessuno che basti a se stesso, nessuno che possa essere felice da solo. Neppure il paradiso è sufficiente. Per questo Dio dice: «Farò un aiuto che gli corrisponda». Questo aiuto, all’inizio, fu Eva per Adamo e Adamo per Eva. Eva è stata data ad Adamo nel sonno, perché è un dono. Adamo non se l’è costruita da solo, non è una sua creatura. È stata tratta dal fianco (da una costola), perché pari nella dignità, ineffabilmente attraente. L’uomo e la donna, insieme, sono chiamati ad un amore per sempre. All’inizio, prima della «durezza del cuore» (Mc 10,5), era proprio così. «I due formano una carne sola» (Gn 2,24). Poi, con la «durezza del cuore», col peccato, sono venuti i distinguo, le concessioni legali, i ripudi legittimati. Ma Gesù fa agli sposi il dono del matrimonio. Il sacramento del matrimonio è una vocazione, è un dono, è una missione. Quando si è ragazzi si pensa al matrimonio come al momento in cui andare finalmente a vivere insieme, ecc. No, il matrimonio è una missione. Ci si accorge di questo col passare degli anni, quando all’innamoramento succede un amore che interpella. Credo che nei momenti di difficoltà, che non mancano in nessuna coppia, ci sia tanto bisogno di fare memoria del sacramento che ha unito lo sposo alla sposa: quel sacramento continua a vivere e ad operare, è sorgente di forza e di luce. Ripensare a quel giorno, quando abbiamo messo sull’altare il nostro amore umano – sicuramente grande, bello, significativo – e poi, al termine della liturgia, ci è stato ridato con un valore aggiunto, perché lo sposo amerà la sua sposa come Gesù ama la Chiesa e la sposa avrà la prova dell’amore di Gesù attraverso la tenerezza del suo sposo (e viceversa). Ecco cosa fa lo Spirito Santo. «L’uomo e la donna saranno una carne sola. L’uomo non osi separare ciò che Dio unisce» (cfr. Mc 10,8-9). Oggi immagino che nelle parrocchie del mondo, chiunque debba prendere la parola su questo brano di Vangelo, può sentirsi in imbarazzo, perché in tutte le nostre famiglie c’è qualche problema; non tutti sono riusciti a mantenere l’impegno dell’indissolubilità. Se fossero qui presenti, vorrei dire loro come dice Sant’Agostino: «Anche se il matrimonio è andato in crisi, per i motivi che la vostra coppia conosce, sentitevi parte della comunità; la comunità prega per voi, evita accuratamente i giudizi e vorrebbe accompagnarvi durante il tempo del discernimento, per capire bene cosa è accaduto».
    In questi giorni, a Roma, il Papa ha convocato il Sinodo sui giovani. Attenzione, lo studio parte dai giovani ma in realtà riguarda noi adulti. La Chiesa cerca di ringiovanirsi, di essere sempre più piena di entusiasmo, perché al Signore si arriva non per un’imposizione, per un decreto, per dei divieti, ma perché ci si innamora di lui. Allora bisognerebbe sempre che le nostre comunità, ancorché siano ridimensionate rispetto ad una volta, siano entusiaste, piene di Gesù. E Gesù – state certi – è attrattivo. «Vieni Spirito Santo, vieni nei nostri cuori, nei cuori di questi ragazzi e nei cuori di noi adulti». Così sia.

    Omelia nella XXVII domenica del Tempo Ordinario

    Macerata Feltria, 6 ottobre 2018

    Messa di chiusura della Visita Pastorale

    Gen 2,18-24
    Sal 127
    Eb 2,9-11
    Mc 10,2-16

    (da registrazione)

    1.
    Mi è bastata poco meno di una settimana per affezionarmi sinceramente alla parrocchia di Macerata Feltria. Ho incontrato solo una minima parte di voi, considerato che la vostra comunità è di circa 2000 persone; tuttavia, sono stati incontri sufficientemente profondi per poter dire che vi stimo tanto. Ho condiviso con voi preoccupazioni e speranze. Questa mattina ho incontrato il signor Sindaco, la Giunta, la Protezione Civile, i Vigili Urbani e i rappresentanti di varie realtà civili. Pur nella distinzione degli ambiti e dei ruoli – Gesù ha detto di «dare a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare» (Mt 22,21) –, ho visto che c’è dialogo e collaborazione. Il municipio e la parrocchia, in fondo, si rivolgono agli stessi soggetti e lo fanno per cercare il bene comune.
    Ho incontrato varie realtà educative: è stato molto bello per me sentire che c’è sensibilità nei confronti dell’emergenza educativa. Ho incontrato le realtà dello sport, una dimensione importante per i nostri ragazzi, di socializzazione e di maturazione. Bellissimo l’incontro con le scuole, dal nido alle scuole medie. Ho potuto lasciare ai ragazzi questo messaggio: «Non dire mai “sono troppo piccolo per…”», intendendo per portare pace, per lasciare una scia di buonumore, per portare Gesù, perché – lo dice il Concilio –: «I primi apostoli dei ragazzi sono i ragazzi stessi» (AA 11). Poi, c’è stato l’incontro con gli insegnanti; con loro ho potuto sottolineare la responsabilità del grande tema della comunicazione. «Comunicare: verbo infinito!», soprattutto con gli strumenti di oggi, così importanti e così delicati. Ma la prima e fondamentale legge della comunicazione resta la cura dei rapporti: insegnare la relazione con le sue regole di verità, di accoglienza e di benevolenza. Saper guardare negli occhi.
    In questi giorni, poi, ho fatto visita a 30-35 famiglie, dove ci sono anziani e ammalati. Non è stato possibile raggiungere tutti, ma ho visto tanta fede, tanta pazienza, tanto amore. Per me è stata una grande lezione vedere persone che continuano a soffrire, continuano a pregare e continuano ad amare. Ugualmente sono stato toccato dalla visita del Centro Santo Stefano e della Villa Verde; ho visto grandi sofferenze, ma anche una direzione molto qualificata dal punto di vista della professionalità di chi cura i nostri ammalati, alcuni molto gravi. Mentre dicevamo qualche preghiera con don Graziano mi veniva da pensare: «Chissà attraverso quale feritoia il Signore arriva alla mente di queste persone… ». A noi sembrano un muro di marmo, eppure sono creature del Signore. In loro risplende la vita di Gesù.
    Poi ho vissuto l’incontro con la parrocchia, con i tanti gruppi: è bello vedere una parrocchia articolata, perché diverse sono le età, diversi sono i carismi, le attitudini, le attenzioni. Tutti i gruppi mi hanno mostrato tanta accoglienza, con l’aiuto di don Graziano. Penso ai Consigli pastorali parrocchiali e degli affari economici. Tanti lavori sono stati completati in questi anni, tanti recuperi artistici, con l’aiuto di benefattori. Ho trascorso un po’ di tempo con i catechisti, così preoccupati e desiderosi di indovinare modalità e metodo per coinvolgere i bambini. Oggi non funziona più fare catechismo come in passato; bisogna cercare modalità nuove, anche se, alla fine, abbiamo capito che la fede si trasmette nella relazione. Conta soprattutto che quando si viene in parrocchia ci si senta accolti, amati, festeggiati, perché la parrocchia è il luogo dove si è più vicini a Gesù. Nell’incontro con gli operatori Caritas si è riso e pianto, si è condiviso e si è ascoltato. Poi penso al coro e all’animazione liturgica. Sono contento che in parrocchia ci siano chierichetti, ministri istituiti e ministri straordinari della Comunione. Li incoraggio. Fra una settimana arriverà anche un gruppo di fidanzati per prepararsi al grande passo del matrimonio. Poi, il gruppo degli sposi e i genitori dei bambini e dei ragazzi del catechismo.

    2.
    Stando in mezzo a voi ho colto tre emergenze: la famiglia, i giovani, il lavoro.
    La meravigliosa pagina della Genesi che abbiamo letto illumina la storia di ogni famiglia. Tutto parte da una parola formidabile di Dio: «Non è bene che l’uomo sia solo» (Gn 2,18). Dunque, il male originale, il primo che è apparso sulla terra, prima ancora del peccato, è la solitudine. Non c’è nessuno che basti a se stesso, nessuno che possa essere felice da solo. Neppure il paradiso è sufficiente. Per questo Dio dice: «Farò un aiuto che gli corrisponda». Questo aiuto è Eva per Adamo e Adamo per Eva. Eva viene data ad Adamo nel sonno, perché è un dono per l’uomo; non ne è padrone, visto che gli è venuta nel sonno. Tratta da una costola, perché pari nella dignità e ineffabilmente attraente. L’uomo e la donna, insieme, chiamati ad un amore per sempre. Mi rendo conto che la nostra mentalità moderna fa fatica a capire il “per sempre”; ma il “per sempre” non fa stancare, anche se sembra che non ci sia niente di nuovo, perché il tu che mi sta di fronte e mi completa è un infinito. E quando dici “basta!” sei finito (Sant’Agostino). All’amore non c’è mai fine.
    Vi racconto una confidenza familiare. Io sono l’ultimo nato dei miei fratelli; sono uscito di casa da bambino per andare in Seminario, perché volevo fare il prete, e sono tornato a vivere con i miei genitori quando ero giovane sacerdote e loro erano anziani. Qualche volta li ho sorpresi, ormai ultrasettantenni, a scambiarsi un bacio. Ma ricordo anche che, quando discutevano animatamente, mia mamma diceva che sarebbe andata a lavorare fuori… Il “per sempre” è un progetto di Dio. La famiglia è una missione: col passare del tempo si scopre di essere responsabili davanti alla vita, davanti alla società, davanti alla Chiesa. All’inizio, prima della «durezza del cuore» (Mc 10,5), era così, si viveva l’uno per l’altro. «In principio… » era una grande grazia. Poi, con la «durezza del cuore», dopo che il peccato è entrato nel mondo, sono venuti i distinguo, le concessioni legali, i ripudi legittimati. Ma Gesù fa agli sposi il dono del sacramento del Matrimonio. A volte si pensa poco al sacramento, ma esso è un torrente che scorre: si può sempre attingere alla grazia (reviviscit, si dice in teologia). Mi è capitato di dire a qualche coppia in difficoltà che non sono uno psicoterapeuta e neppure un esponente di un’agenzia, ma che li invitavo a pregare e a confidare nel sacramento che avevano ricevuto. Il sacramento dà tutte le grazie necessarie, nel momento opportuno, per aver pazienza, per perdonare, per aver fiducia nell’altro, per ricominciare sempre. Potrei raccontare diversi casi in cui il sacramento del Matrimonio ha fatto miracoli. L’amore umano viene consacrato da Gesù e riconsegnato con un valore aggiunto. Quando due ragazzi vengono all’altare, posano le fedi su di esso, il sacerdote pronuncia la formula del sacramento e, quando scende dai gradini, porge loro gli anelli; ebbene, loro sono venuti qui con il loro amore umano – sicuramente grandissimo – ma, dal momento in cui mettono l’anello, acquistano un valore aggiunto: «I due saranno una carne sola» (Mc 10,8).

    3.
    La seconda emergenza sono i giovani, che sono la nostra gioia e la nostra delizia, ma anche la nostra preoccupazione: è quanto è uscito dagli incontri e dai colloqui con molti di voi. Attenzione, il problema dei giovani è il problema degli adulti. Il primo compito delle nostre comunità è quello di vivere un’autenticità gioiosa, che affascina i giovani. Ai giovani vanno comunicate cose piccole ma vere, non le “vernici”; i giovani non ne vogliono sapere delle “vernici”, del perbenismo, del “si è sempre fatto così”. Ma se diciamo con convinzione quello che abbiamo sentito quando abbiamo incontrato il Signore, se gli raccontiamo come l’abbiamo incontrato, prima o poi faremo breccia nei loro cuori. Poi ci sono i nostri errori, gli errori e gli orrori della Chiesa, a creare ostacolo, ma ciò che allontana i giovani è la mancanza di ascolto e che non li coinvolgiamo. Attenzione, sarebbe sbagliato ridurre la Chiesa a queste mancanze. Oggi esiste un clima culturale che tende ingiustamente a presentare male la Chiesa. Noi dobbiamo far sentire che la proposta cristiana è prima di tutto un dono, un annuncio d’amore, e non è riconducibile ad una mera serie di precetti o di divieti.
    In questi giorni, a Roma, si è aperto un Sinodo sui giovani. In verità è soprattutto un Sinodo sulla comunità cristiana, perché parlare dei giovani significa parlare di noi adulti e del rinnovamento delle nostre comunità cristiane. Gli ambiti coinvolti sono tanti: la liturgia, l’impegno di carità, la testimonianza della misericordia. Nella nostra piccola diocesi di San Marino-Montefeltro, grazie all’Ufficio di Pastorale Giovanile, c’è un tessuto tenue, ma saldo, legato alle diverse forme di associazionismo cattolico. Penso all’Azione Cattolica, agli Scout, a Comunione e Liberazione, ai Giovani Valconca. Bisognerebbe agganciare i nostri ragazzi quando c’è qualche bella manifestazione, come la Giornata Mondiale della Gioventù, i campeggi diocesani, ecc. In quelle occasioni possono fare amicizia con chi appartiene a queste associazioni. È vero che ci sono molti giovani che si sono allontanati e non frequentano ordinariamente la comunità e c’è il rischio di una visione alleggerita dell’essere cristiano. Occorre impegnarsi perché non si vanifichi la bellezza dell’essere discepoli di Gesù, di vivere nella sua pienezza. A volte i nostri giovani si sentono vagamente cristiani, ma perdono il nucleo essenziale dell’esperienza cristiana, il cuore della fede che è l’incontro con Gesù. È la gioia cristiana che può affascinare i nostri ragazzi.
    La conclusione potrebbe essere questa: mettersi in ascolto dei giovani, cercando occasioni di incontro e di dialogo, anche con le nostre povertà e i nostri limiti. Non possiamo gareggiare con i centri benessere o i centri di divertimento, ma con quella gioia artigianale che viene dalla nostra vita. Poi, impariamo a sognare con i giovani, proviamo a guardare il mondo con i loro occhi. A volte abbiamo dei preconcetti nei loro confronti, ma capita anche di essere smentiti. A me è capitato: ho accompagnato 75 giovani della nostra diocesi a Cracovia per la Giornata Mondiale della Gioventù; siamo stati insieme quindici giorni. Sono rimasto colpito dal rispetto che avevano reciprocamente. E infine è importante offrire una testimonianza coerente; ad esempio, non si può invitare alla preghiera se non si prega per primi…
    Del lavoro parleremo in altra occasione.

    4.
    Lascio un messaggio alla parrocchia di Macerata Feltria: «Continuate ad essere belli come la vostra chiesa». Questa è una bellissima chiesa di pietra, voi siete la Chiesa viva. Essere belli vuol dire essere sempre in grazia di Dio. Fate così: fuggite il peccato e, se vi capita di sbagliare, andate subito a confessarvi. Se c’è la grazia santificante, anche se non ce ne accorgiamo, Gesù è in mezzo a noi ed è attrattivo: questa è la risposta a tutti i nostri problemi. Sia lodato Gesù Cristo.

    Veglia missionaria diocesana

    Messaggio per gli studenti e per il mondo della scuola

    Cari ragazzi,
    bentornati sui banchi di scuola! Forse vi sentite un po’ stretti dopo i mesi di sole e di acqua dell’estate; eppure vi attende una stagione altrettanto bella, ricca di sorprese e di incontri. Con l’augurio di un buon cammino, condivido con voi una riflessione importante. Sui tetti delle case e delle scuole vediamo antenne e parabole; insieme ai satelliti, invisibili ai nostri occhi ma sempre più presenti, sono un segno del cammino che l’umanità sta compiendo per comunicare: dai messaggi di fumo degli indiani al suono delle campane; dalla scoperta della stampa alla radiofonia; dall’analogico al digitale; dalla videocassetta al blu-ray; dal telefono fisso allo smartphone; da internet ai social network. Il mondo è diventato un grande villaggio. Comunicare: verbo infinito! Una possibilità fantastica, un diritto per tutti, una responsabilità. Ma la prima e fondamentale legge della comunicazione rimane il “rapporto”, con le sue regole di verità, di accoglienza, di benevolenza. Saper guardare l’altro negli occhi è la forma più alta di comunicazione. Non serve sprecar parole. Chi raggiunge questa capacità sa destreggiarsi fra mille messaggi e orientarsi nella selva delle informazioni.

    È da anni ormai che nelle vostre classi avete fatto posto ad un nuovo inquilino: il computer. Ma voi siete più intelligenti di lui; la vostra fantasia è molto più creativa delle sue app e il vostro cuore conosce sfumature di gratitudine e di libertà che lui ignora. È una macchina: a scuola c’è chi vi insegna come guidarla. È uno strumento a vostro servizio: può offrire magnifiche opportunità, se utilizzato con competenza e con una chiara consapevolezza della sua forza e delle sue debolezze. È una finestra spalancata sul mondo: ma sarebbe triste se il vostro desiderio di amicizie online vi disconnettesse da coloro che incontrate nella realtà di ogni giorno e dalla vostra famiglia.
    L’ambiente digitale è un’estensione della nostra umanità e della nostra socialità. Spetta a noi metterci dentro il desiderio di bellezza, di fraternità e di pace. Non farebbe così anche Gesù? Il Vangelo di Marco racconta un episodio della vita di Gesù nel quale si vede quanto preziosa fosse per lui la comunicazione. Alcune persone gli conducono un sordomuto, un uomo prigioniero del silenzio, la cui vita è chiusa alle relazioni, accartocciata su se stessa, come la sua lingua. È bellissimo vedere come Gesù restituisce quell’uomo al rapporto: lo porta fuori dalla folla e dalla confusione, stabilisce un contatto “a tu per tu” con lui, poi gli accarezza orecchi e bocca. C’è, inoltre, un coinvolgimento empatico di Gesù: Gesù alza gli occhi al cielo, sospira, si coinvolge e pronuncia la parola aramaica, «Effatà», che vuol dire: «Apriti!» (Mc 7,34). «Apriti!», come una finestra che riceve il sole. Perché sente, adesso quel sordomuto può parlare. Come sarebbe bello se ognuno potesse dire: parla-sento! È il mio augurio.

    Vostro,
    Vescovo Andrea

    Catechesi per educatori

    Sulla strada con Maria

    Omelia nella celebrazione eucaristica in occasione dell’Investitura dei Capitani Reggenti

    San Marino (Basilica del Santo), 1 ottobre 2018

    Gc 3,13-18
    Sal 84
    Mt 5,38-48

    (da registrazione)

    Abbiamo ascoltato un tratto della Lettera di Giacomo, una delle grandi figure della Chiesa primitiva, il primo vescovo di Gerusalemme, chiamato anche «il fratello del Signore» (Gal 1,19). Giacomo scrive a dei cristiani che attraversavano tentazioni e difficoltà. Dopo la conversione e il primo entusiasmo, via via erano andati perdendo di lucentezza, di coraggio, di speranza. Non c’era più mordente nella loro vita cristiana. La Lettera di Giacomo non è un trattato di teologia, piuttosto un insieme di consigli pratici, neppur tanto collegati tra di loro, ma riconducibili ad un denominatore comune: non basta ascoltare il messaggio, bisogna viverlo. «La fede senza le opere – scrive Giacomo – è morta» (Gc 2,26). Ecco le incongruenze che Giacomo denunciava nei cristiani di allora: fanno distinzione di persone (non trattano tutti allo stesso modo); mancano di carità facendo cattivo uso della lingua (parlano male gli uni degli altri); sono litigiosi; consolano a parole i poveri ma non fanno niente per aiutarli; ci sono tra loro persone che pensano solo al guadagno; alcuni si sono arricchiti defraudando il salario agli operai. Di fronte a tutto questo, Giacomo riafferma il comandamento supremo dell’amore che deve tradursi in gesti concreti. Non bastano le semplici dichiarazioni d’intenti. Conclude, poi, mettendo a confronto, una sapienza «che non viene dall’alto, terrestre e materiale», con «una sapienza che viene dall’alto» (cfr. Gc 3,15-17). Sapienza, nella lingua italiana, richiama il sale, ciò che dà sapore, gusto. La sapienza che viene dall’alto è piena di virtù; una sapienza che rende bella la vita davanti a se stessi – che è la cosa più importante – e davanti agli altri. La sapienza è ardua da conquistare, anche se poi, nel contesto del Nuovo Testamento, la sapienza è un dono dello Spirito di Dio. Sembra che Giacomo sottolinei di più l’aspetto dell’impegno, definendola ardua da conquistare, ma gustosa.
    Sentite l’elenco delle virtù che ne sono corredo. La sapienza è pura, pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale, sincera: sette virtù. La virtù è stata definita in vari modi; ad esempio, si parla di virtù come controllo della ragione su se stessi, virtù come giusto mezzo per evitare gli eccessi, oppure come abito operativo, abitudine al bene, quindi come stile. Soltanto l’uomo virtuoso dentro, nella sua radice, compie atti buoni. Gli vengono, per così dire, naturali. Le possibilità morali dell’uomo affiorano da una tendenza costante al bene. Gesù dirà: «Non può un albero buono fare frutti cattivi» (Mt 7,18). D’altra parte, in che cosa consiste questa bontà dell’uomo se non in una disposizione permanente dell’animo, capace di sussistere al di là dei singoli atti. Come educarci alla virtù, giacché la cura dell’anima è la cosa più necessaria, più utile, più bella? Ci si educa anzitutto coltivando pensieri di bene. Tutto, in fondo, si gioca laddove uno è solo con se stesso. Ci si educa custodendo quel progetto di vita che è illuminato dalla «sapienza che viene dall’alto», ma anche con la ripetizione di atti virtuosi, con l’ascesi. Quest’abitudine buona facilita e rende più disinvolto, meno esitante, il nostro fare il bene e accresce la libertà interiore, lo spessore di una vera humanitas. Certo, non mancano i sospetti sulla virtù e più ancora sui cosiddetti virtuosi. Gesù stesso ha insistito sulla necessità del “cuore obbediente” più che degli “atti obbedienti”.
    C’è chi mette nella virtù qualcosa che rimpicciolisce; per esempio un freno che inibisce la spontaneità, oppure come un “tic tac”, una routine ordinata ma senza slanci. Per non dire l’ipocrisia, gli atteggiamenti di facciata, per convenire al perbenismo. Talvolta, si intende la virtù come assenza di coraggio per adeguarsi all’educazione comunemente accolta, recepita. I virtuosi allora vengono paragonati ai ciottoli che il torrente ha levigato; non hanno spigoli, sono puliti, rotondeggianti, probi, ma non è questa la virtù. Accogliamo questa critica che smaschera atteggiamenti equivoci. La virtù autentica è un progetto di vita, è il costante, personale impegno ad imprimere una direzione al proprio agire, fino alla fedeltà alle piccole cose. «Chi è fedele nel poco, sarà fedele anche nel molto» (Lc 16,10). Ci sono virtù indispensabili e fondamentali che la tradizione chiama cardinali in quanto sono i “cardini” che sostengono l’impianto della nostra vita e delle nostre relazioni: la giustizia, la fortezza, la prudenza, la temperanza. Quattro virtù che il cristianesimo ha trovato nell’Antico Testamento e che erano proprie del pensiero antico.
    La pagina evangelica ci dice che la cosa più importante, la meta, il fine, il motore di tutto è la carità. Con l’autorevolezza del suo «Ma io vi dico» (Mt 5,39), Gesù ci invita a tendere alla perfezione. «Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro che è nei Cieli» (Mt 5,48). Quanta stima verso l’uomo, verso ogni persona! Che bellezza, che audacia, che ideale! San Marino preghi per noi e ci ottenga la sapienza che viene dall’alto.