San Marino (chiesa di San Francesco), 25 febbraio 2018
II domenica di Quaresima
Gen 22,1-2.9.10-13.15-18
Sal 115
Rm 8,31-34
Mc 9,2-10
Celebriamo quest’Eucaristia in memoria di don Giussani, come ringraziamento a Dio per il grande carisma che ha donato a lui e, attraverso lui, a tutta la Chiesa. Molti dei presenti possono testimoniare come l’incontro con lui abbia avuto il significato di una immensa dilatazione della vita, dell’intelligenza e del cuore.
La liturgia, per ben due volte nel corso dell’anno liturgico, ci mette di fronte al mistero della Trasfigurazione del Signore: il 6 agosto e la seconda domenica di Quaresima. Inoltre, l’avvenimento è riferito da tutti i Sinottici e nella Lettera di Pietro. In questo modo viene sottolineata l’importanza di questo evento per Gesù, per i suoi apostoli e per ciascuno di noi.
Come Pietro, Giacomo e Giovanni lasciamo che il Signore ci chiami a lui, «soli in disparte». Soprattutto in questo tempo di Quaresima, cerchiamo di fare in modo che non manchi mai lo spazio per la preghiera. Gesù fu molto radicale su molti aspetti: nei confronti del denaro, della testimonianza, del modo di vivere la sessualità, ecc. Ha esigito una radicalità anche per la preghiera. Come vescovo mi assumo tutta la responsabilità e la fierezza di aver indicato a alla Diocesi, attraverso la Lettera pasquale, l’urgenza della preghiera. Se c’è poca santità in noi, se la nostra società fatica a progredire è perché non si domanda. Mentre la grazia viva è dono di Dio, esclusivamente suo, senza nostro concorso, la perseveranza viene dalla nostra preghiera. «Senza di me non potete fare nulla» (Gv 15,5), dice il Signore.
Di fronte al racconto della Trasfigurazione secondo Marco vorrei fare tre sottolineature.
a) Voi certamente conoscete il contesto (cap. 8). C’è la dichiarazione franca di Pietro sulla messianicità di Gesù, seguita dalla precisazione circa tale messianicità, fatta da Gesù: «Il Messia dovrà soffrire» (v.31). Messia sì, ma… Messia sofferente. Lo sappia chi vuole seguirlo (vv. 34-38). L’identità messianica di Gesù è costantemente protetta (29 volte nei Sinottici, 12 volte in Marco) dall’ingiunzione di conservare il segreto; perfino a Satana, dopo l’esorcismo che è avvenuto, Gesù chiede che non divulghi che lui è il Signore. L’ingiunzione rigorosa del segreto contrasta con l’episodio della Trasfigurazione: questa volta il segreto è svelato, nonostante poi l’ennesima proibizione di divulgare l’esperienza (v.9). Il segreto messianico è, in questo contesto, la chiave interpretativa del racconto: la Trasfigurazione è uno spiraglio aperto per i discepoli sul destino finale del Cristo Risorto. Solo a Pasqua, quando il Figlio dell’uomo «sarà risorto da morte» (v.9), essi comprenderanno il paradosso del Messia glorioso sofferente e se ne faranno annunciatori in tutto il mondo.
b) Marco, per descrivere la Trasfigurazione, attinge abbondantemente al linguaggio veterotestamentario e all’esperienza di Israele con Dio (la menzione dell’alto monte, la nube, la notte, le vesti sfolgoranti, la presenza di Mosè ed Elia, la voce, il timore, non tanto la paura, ma l’atteggiamento di chi è cosciente di essere davanti alla maestà divina) per aprire varchi sull’origine divina del messianismo di Gesù: egli è veramente il “Figlio di Dio, l’amato” (v. 7), che tuttavia porterà a termine il mandato del Padre attraverso la sconvolgente via della croce (cfr. Rm 8,31-34). Non vi è altra salvezza se non quella che passa attraverso lo “scandalo” della croce, del Dio Crocifisso. Questo è l’insegnamento fondamentale di Marco. Alla fine del suo Vangelo sarà un centurione romano a fare la grande professione di fede: «Veramente, quest’uomo era Figlio di Dio!» (Mc 15,39). Chi prende per mano l’evangelista Marco e fa tutto l’itinerario da catecumeno dovrà arrivare a riconoscere il Signore non tanto nella Trasfigurazione o nella moltiplicazione dei pani o nei prodigi, ma quando sarà innalzato da terra crocifisso.
c) Ancora un’ultima sottolineatura di Marco. Pietro – ma in Pietro siamo tutti noi, la nostra comunità, la Chiesa di oggi – crede che quel tempo finale e glorioso sia giunto (v.5). Marco, in tono comprensivo e un po’ ironico mostra che sta prendendo il solito abbaglio! («Non sapeva quello che diceva», v.6). Pietro, come tanti contemporanei, era imbevuto di attese messianiche (l’Apocalittica attendeva per gli ultimi tempi la trasformazione dei giusti in uno splendore ultraterreno e sfolgorante).
Un monito: la comunità cristiana non deve “sedersi”; ogni trionfalismo è quasi sempre un “granchio”. Alla comunità non è dato che «Gesù solo» (v.8) e il suo Vangelo («ascoltatelo», v.7). Ritrovo qui una delle prospettive dell’insegnamento e dell’esperienza di don Giussani. È soltanto a Cristo che la comunità deve saldamente attaccarsi. È solo la sua parola che deve dirigere ogni paura e ogni preoccupazione. Solo così la comunità sarà immunizzata dalle ricorrenti tentazioni di voltare le spalle alla croce e lasciarsi abbagliare da compiacenti, ma estremamente equivoci, sogni di gloria.
Mi piace applicare questo messaggio evangelico anche alle situazioni concrete che appartengono al nostro quotidiano. Mi sono appuntato due piccole esperienze personali in cui mi capita di vivere la Trasfigurazione in contesti che non mi aspetto. Accade nell’incontro con le persone. A volte vedo rispetto, cortesia, buona educazione, ma ci sono momenti in cui vedo le persone con occhi nuovi, diversi, ad esempio nella comunicazione di un dolore, in un dialogo schietto… Lasciamoci sorprendere dalla persona che abbiamo di fronte, impariamo a coglierne tutta la ricchezza.
Un’altra esperienza proviene dal mio guardarmi allo specchio: vedo le rughe, le stanchezze… Ma qual è la bellezza vera? La vedo in una vita spesa, offerta, consumata. Prego perché questa settimana sappiamo vivere la Trasfigurazione, ad esempio offrendo un sorriso al posto del broncio e mettendo in rilievo la gioia nella fatica del lavoro. È l’amore che illumina, trasfigura, trasforma tutta la nostra vita.