Omelia nella S.Messa di apertura della Visita Pastorale a Dogana

Dogana, 16 ottobre 2017

1 Pt 2,4-9
Sal 109 (110)
Gv 15,1-8

Dalla cattedra il sacerdote spiega la Parola di Dio, non parla di sé, dei propri sentimenti; è discepolo come tutti dell’unico Maestro che è Gesù. Ma, in una sera come questa, si può cedere un po’ ai sentimenti, non sono estranei alla fede e all’esperienza ecclesiale: il cuore è il cuore!
Dal momento della partenza da Pennabilli – sede vescovile – fino a destinazione, non ho fatto che pensare alle visite degli apostoli alle prime comunità cristiane a Iconio, a Listra, ad Antiochia, per poi arrivare, al di là del mare, ad Efeso, a Corinto e, infine, a Roma. L’apostolo – uno dei primi compagni di Gesù – racconta, ogni volta come la prima, il suo incontro col Maestro, poi il cammino e le soste con lui. I cuori palpitavano per il desiderio di conoscere Gesù: non solo le parole e i miracoli, ma anche i dettagli – per chi ama, i dettagli non sono mai trascurabili! –, ad esempio com’era la sua veste, com’era l’erba quando furono sfamati i cinquemila, quanti erano i pesci raccolti quella notte in cui gli apostoli avevano osato tornare a pescare sulla parola di Gesù… Anche voi avete questo desiderio di conoscere Gesù, per questo venite in parrocchia. Ma perché conoscere Gesù? Per amarlo, per amarlo sempre di più. In questi giorni vorrei essere d’aiuto perché tutti facciano uno scatto in avanti nell’amicizia con Gesù, lo amino maggiormente e lo seguano. Se lui è il nostro punto di riferimento, se è la nostra pietra basilare, noi con lui formiamo un unico edificio. Da notare che coloro che fanno parte del suo gruppo, della sua comunità, non si sono scelti tra loro. La parrocchia è caratterizzata da un elemento fondamentale: la territorialità. Le persone che fanno parte di quel luogo preciso, come voi che vi radunate in questa bellissima chiesa, formano la comunità dei chiamati, cioè la Chiesa. Una metafora ancora più bella della Chiesa è quella della vite e dei tralci, dove scorre la stessa linfa: la vita di Gesù. La vita che è nelle sue parole e nei suoi insegnamenti, che diventano la nostra norma di vita, e quella che è nell’Eucaristia, il dono del pane spezzato in cui Gesù ha voluto essere presente. Ancora di più quella linfa è la vita stessa di Gesù che viene comunicata. Noi la chiamiamo grazia. La grazia ci fa santi, cioè ci fa come Gesù. È bello raccontarsi questo… Guai a chi dice con rammarico «siamo nel dopo Gesù»; semmai dopo la sua risurrezione, ma Gesù è vivo! Tante volte accadeva che il luogo dove si trovavano gli apostoli diventasse improvvisamente diverso, più luminoso; a volte c’era come un frastuono e lo Spirito di Gesù Risorto scendeva su una varietà di persone: qualcuno era un pescatore, qualcuno lavorava in campagna, qualcuno era soldato… Eppure, ognuno di loro diventava coraggioso. «Plebei illetterati» (At 4,13), sono detti negli Atti degli Apostoli, però capaci di dialogare anche con i sapienti, capaci di testimonianza, di audacia.
Il mio passaggio in mezzo a voi in questi giorni ha lo scopo di incoraggiare ed essere incoraggiato (anche voi aiutate me!).
Stamattina sono stato ad un convegno su Filone d’Alessandria. Questo personaggio, ebreo, cercava di dialogare con la cultura del suo tempo. Qual è la chiave per dialogare? Guardare Gesù crocifisso, perché lui, sospeso fra cielo e terra, perde tutto: perde il posto in sinagoga, perde gli amici – gli sono rimasti solo la madre e l’amico del cuore – e sente anche l’assenza del Padre: «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34). Non è un perdere la propria identità: ciò non sarebbe più dialogo; semmai è quella disposizione d’animo che è libertà e fiduciosa apertura, disponibilità all’essenziale senza compromessi.
Vorrei raccontare ora la storia di tre visite pastorali. La prima è narrata dal Manzoni nei Promessi Sposi. Una perla di quella visita fu l’incontro fra il cardinal Federigo e l’Innominato. Tutto comincia con il progetto malvagio dell’Innominato nei confronti di Lucia Mondella, un progetto che si tramuta in tormento interiore. Una notte di lotta e poi, al mattino, il suono delle campane che inondano la valle. C’è un popolo che si raduna festoso. L’Innominato – qui è certamente la grazia che ha l’iniziativa – scende, col suo tormento, ad incontrare il Cardinale. Ecco il celebre dialogo: «Dio, Dio, se lo vedessi! Se lo sentissi! Dov’è questo Dio?». E il Cardinale: «Voi me lo domandate? Voi? E chi più di voi l’ha vicino! Non ve lo sentite in cuore che v’opprime, che v’agita, che non vi lascia stare e, nello stesso tempo, vi attira, vi fa presentire una speranza di quiete» (cfr. A. Manzoni, I promessi sposi, cap. 23).
Alla vostra cortesia confido altri due racconti di visite pastorali, infinitamente più “casalinghi”. Il primo. Il vescovo vuole al centro della sua visita l’appuntamento coi giovani. Ma in quella parrocchia, pur popolosa, non vi è alcun gruppo giovanile. Il parroco da tempo ha lasciato perdere queste pecorelle del suo gregge. Si fa coraggio, va al bar centrale, offre da bere ad un gruppo di giovanotti e li prega di fare “presenza”. Si tratta di riempire il teatrino della parrocchia. Uno di loro si intenerisce per il suo vecchio parroco e sfida gli amici: «Andiamo! Con un’oretta ce la caviamo…».
Il vescovo, davanti a quella platea di giovani, si accalora e dà il meglio di sé. Da allora quel giovanotto reimpara il vialetto che porta alla chiesa. È un metalmeccanico con la terza media. Alla fine entra in seminario. Prende la maturità liceale e, dopo il percorso teologico, diviene sacerdote. Ora è parroco-abate di una importante comunità. Il secondo racconto è ancor più ingenuo. Altro il vescovo, altra la parrocchia. Secondo programma il vescovo fa visita ad alcune famiglie. Entrato in una casa, l’occhio episcopale, ad un tratto, si fa severo; alla vista dell’albero di Natale non trattiene la sua disapprovazione (altri tempi!): «Lo detesto». La mamma accompagna il vescovo nel sottoscala, tira una tendina. C’è un altarino con fiori, addobbi e odore acre di candeline appena spente. È uno dei suoi figli che gioca a fare il… prete! Il Vescovo va all’attacco, la mamma resiste. Alla fine quel bambino entra in seminario e diventerà vescovo! Attenzione: non tutte le visite pastorali finiscono così! Ma con le visite pastorali tante grazie arrivano. Non sappiamo che cosa accadrà durante questa settimana; la prendiamo dalle mani del Signore e siamo certi che lui farà meraviglie. Così sia.

Omelia nella celebrazione di chiusura del Centenario di Fatim

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
Santuario del Cuore Immacolato in Valdragone, 13 ottobre 2017

Et 8,3-8.15-17
Gv 2,1-12

Immagino di girare in mezzo a voi chiedendo a ciascuno: «Perché sei venuto qui stasera?». Azzardo qualche risposta. Qualcuno risponde «perché oggi è il 13 ottobre», ricordando l’ultima delle apparizioni di Fatima, con la consegna dei messaggi e il grande prodigio del sole. Qualcun altro mi dice di essere venuto per mettersi alla scuola di Maria, perchè vuole imparare da lei come si diventa discepoli. Qualcun altro – forse la maggioranza dei presenti – viene per chiedere delle grazie. Come diceva Dante: «Donna, se’ tanto grande e tanto vali, che qual vuol grazia e a te non ricorre, sua disïanza vuol volar sanz’ ali» (Dante Alighieri, La Divina Commedia, Paradiso, Canto XXXIII). C’è anche chi è venuto perché invitato dal Vescovo. Il Vescovo ha convocato tutti; attorno a lui ci sono i sacerdoti, e c’è anche chi è venuto dalle tre del pomeriggio per partecipare ad una “staffetta” ininterrotta di preghiera, mentre molti sacerdoti si dedicavano al sacramento della Confessione.
L’invito del Vescovo e il pregare tutti insieme uniti con lui costituisce un segno, una epifania della Chiesa. Per questo dico «grazie: grazie, per aver accettato l’invito». Penso che anche la Madonna sia contenta e vi ringrazi per aver risposto alla sua chiamata. Permettetemi un’altra domanda: «Perché quando il Vescovo chiama alla formazione, all’impegno sui temi della educazione, della socialità, della presenza della Chiesa nella città non trova altrettanta corrispondenza?». Qualche esempio. Abbiamo avuto la gioia, appena un anno fa, di inaugurare l’Istituto Superiore di Scienze Religiose perché i nostri giovani ci fanno domande impegnative e non possiamo più dire «che si fa così perché si è sempre fatto così»: abbiamo bisogno di acculturarci. Il Vescovo invita ogni anno alle “giornate per la scuola e con la scuola” perché siamo tutti preoccupati per l’educazione. Quest’anno, per la prima volta, abbiamo addirittura fatto capolino nel mondo dello sport. Sono fiero che la nostra Chiesa abbia qualcosa da dire su questi argomenti. Capisco che non si può sempre rispondere agli avvisi che vengono dalla Diocesi… sono tanti e poi ci sono gli impegni di lavoro, di famiglia, ed anche il giusto riposo. Però mi sorge un dubbio: non sarà per caso che per tanti cristiani la fede si limita all’ambito privato e sia vista solo per preparare l’anima al cielo? Preparare l’anima al cielo è sicuramente molto importante, ma non basta. La conversione cristiana esige di considerare tutto ciò che concerne l’ordine sociale e il conseguimento del bene comune. «Nessuno può esigere che noi cristiani releghiamo la religione al segreto intimo della nostra persona, senz’alcuna influenza sulla vita sociale e nazionale, senza preoccuparci per la salute delle istituzioni, senza esprimerci sugli avvenimenti che interessano i cittadini. Chi oserebbe rinchiudere in un tempio oppure far tacere il messaggio di San Francesco d’Assisi e di Teresa di Calcutta?» (EG 183).
Il nostro programma pastorale rilancia lo studio del Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa che è una parte integrante delle nostre catechesi, della nostra formazione personale (cfr. Tra la gente con la gioia del Vangelo, Programma e calendario pastorale 2017/18, pag.50). Sogno una Diocesi trapuntata di scuole base di formazione: dal Vangelo alla vita! Questo richiamo non vi appaia incongruente con quello che celebriamo stasera. Maria, a Fatima, si intrattiene con tre bambini e parla loro della Russia. Loro non sanno neppure che esiste la Russia, ma la Madonna mette loro in cuore il mondo, la società. Ricordiamo il canto di Maria, il Magnificat. Ad un certo punto Maria canta colui che disperde i potenti ed esalta gli umili, che ricolma di beni gli affamati e rimanda i ricchi a mani vuote (cfr. Lc 1,52-53). La liturgia della Parola stasera ci ha condotto ad ascoltare la preghiera di Ester, figura di Maria che prega per il popolo. La vicenda di Ester è ambientata nei sontuosi palazzi del Re di Persia. Un libro, quello di Ester, scritto per tempi difficili come i nostri. Ricordo brevemente la vicenda di Ester. La splendida regina Vasti si rifiuta di comparire davanti al Re che vuol mostrare al popolo e ai capi la sua bellezza. A corte i saggi dicono che il rifiuto di Vasti è molto grave. Conformemente alle leggi del tempo il Re decide che la regina deve essere deposta e che un’altra fanciulla dovrà essere eletta alla dignità regale. Viene bandito un concorso di bellezza: la più bella sarà regina al posto di Vasti. Anche la piccola Ester viene iscritta dallo zio che l’ha presa a casa sua da quando è rimasta orfana e sola. Il Re, quando la vede, rimane conquistato dalla sua bellezza e la vuole al suo fianco: lei, che è piccola e umile, viene elevata a regina. Intanto, a corte, un potente ministro sta organizzando un programma di sterminio degli Ebrei, il popolo a cui Ester appartiene. Lo zio di Ester riconosce come provvidenziale l’elezione della nipote e le dice: «Il Signore vuol servirsi di te per salvare il suo popolo». C’è veramente una grande somiglianza col destino di Maria che il Signore sceglie per salvare l’umanità. La liturgia di oggi ci fa vedere la provvidenziale intercessione di Ester presso il Re come quella di Maria presso il Signore che l’ha voluta come tenerissima madre e regina presso di lui, accanto a noi. Non fu così anche alle nozze di Cana, come narrato nella lettura evangelica che ci è stata impartita questa sera? La premura di Maria spostò in avanti le lancette dell’ora di Gesù. Conosciamo bene le battute del dialogo tra Maria e Gesù: «Non hanno più vino». Maria sa che nella vita di ognuno il bene può venir meno, come il vino delle nozze. L’amore sulla terra è a rischio; la diminuzione, il venir meno, il tramontare sembrano una costante delle esperienze umane. Maria, a Cana, non si rassegna e sente che le cose possono andare diversamente: dal debole al forte, dal poco al tanto, dall’acqua al buon vino. Gesù, infine, interverrà: sarà il suo primo miracolo. «Non hanno più vino». E Maria ingiunge ai servi: «Fate quello che lui vi dirà». Con questa parola di Maria concludo domandando a me e a voi: «Che cosa vuole il Signore in questo preciso momento?». Anche San Marino, che fino a pochi anni fa costituiva una sorte di oasi felice, si è trovata a fare i conti con fenomeni prima sconosciuti come la disoccupazione e la crisi del sistema bancario e finanziario che rischia di travolgere il paese. Imprese, famiglie, singoli sono in forte sofferenza, anche in questi giorni, per questa situazione. Alle istituzioni, agli imprenditori, ai vertici del sistema bancario è chiesta una dimostrazione di grande responsabilità sociale, nella consapevolezza che quando si fanno scelte in ambito economico e finanziario si vanno a toccare, talvolta persino in modo drammatico come in questi giorni, la vita e il futuro delle persone e delle famiglie, che noi stasera vogliamo ricordare nella preghiera e a cui vogliamo esprimere la nostra vicinanza. La fedeltà al Vangelo ci impegna tutti, ognuno secondo il suo ruolo, ad anteporre agli interessi particolari il bene comune, avendo il coraggio di osare strade nuove di collaborazione, anche al di là degli schieramenti: lavoriamo tutti per il bene di tutti. La Repubblica sammarinese è un bene di tutti. Ci vuole anche il coraggio della riconciliazione tra componenti diverse della politica e del lavoro insieme nel solco dei valori trasmessici dal Santo Marino e dalla migliore tradizione della nostra Repubblica. «Non hanno più vino». «Fate quello che lui vi dirà». Stiamo a vedere!

Veglia missionaria

Catechesi per catechisti

Convegno Adulti AC

Ordinazione diaconale

Discorso nel conferimento della cura pastorale della parrocchia di San Leo a don Carlo Adesso

San Leo, 8 ottobre 2017

Per l’inizio del suo ministero pastorale tra voi il vostro parroco don Carlo ha ricevuto dal Vescovo, con un gesto simbolico, due chiavi. La chiave del tabernacolo nel quale si custodisce l’Eucaristia e la chiave della Pieve, la vostra parrocchia, che vi raccoglie in comunione attorno all’Eucaristia. L’una è la chiave della dimora del corpo sacramentale di Gesù, l’altra la chiave dell’assemblea del corpo mistico di Gesù, in altre parole la chiave del cuore, delle persone che accolgono l’Eucaristia per viverla. Un rito, quello che abbiamo compiuto, simbolico, ma anche chiaro e tanto eloquente.
Queste chiavi sono affidate a te, don Carlo. Permettimi di citare un breve testo dalla Lettera agli Ebrei: «Ogni sommo sacerdote viene costituito – scrive l’autore – per offrire doni e sacrifici per i peccati» (Ebr 5,1).
Ecco il vostro parroco partecipe del sacerdozio di Cristo: viene in mezzo a voi per attendere alle cose che riguardano Dio e per offrire doni e sacrifici per i peccati. Viene per le cose che riguardano Dio: Dio non è superato, non è morto; forse è emarginato dal cuore di tanti, dimenticato, forse è perfino allontanato, può darsi anche da noi. Ma è presente, presentissimo anche se nascosto, ed è operante. Sentirete durante la liturgia della Parola come è grande la tenerezza del “padrone della vigna” che non lascia nulla di intentato e, al culmine della storia della salvezza, quando sembra ormai che l’umanità sia una “boccia persa”, manda il proprio Figlio (cfr. Mt 21,33-46). Se esige qualcosa, esige che si creda al suo amore, perché vuole la reciprocità: se lo ami ti amerà di più! Dio talvolta appare distante, ma in realtà è inquietante, tormentante. Inquietudine e tormento sono il suo modo di farsi presente, sono il modo della sua offerta, del suo richiamo, del suo bussare alla porta del cuore. «Sto alla porta e busso» (Ap 3,20). Ricordiamo nel romanzo dei Promessi Sposi la conversione dell’Innominato, il suo incontro con il cardinale Federigo a cui dice: «Dio, Dio, se lo vedessi! Se lo sentissi! Dov’è questo Dio?». E il Cardinale: «Voi me lo domandate? Voi? E chi più di voi l’ha vicino! Non ve lo sentite in cuore che v’opprime, che v’agita, che non vi lascia stare e, nello stesso tempo, vi attira, vi fa presentire una speranza di quiete» (cfr. A. Manzoni, I promessi sposi, cap. 23). In questi giorni su “Avvenire” è stato pubblicato uno scritto molto interessante del filosofo rumeno nichilista, anche se di ambientazione parigina, Emil Cioran, il quale dice: «Sono certo d’aver cercato Dio, ma sono ancor più certo d’aver fatto di tutto per non incontrarlo. L’origine di tutte le mie grida e del sarcasmo con cui l’ho glorificato sta in una opprimente solitudine al cui termine egli appare. Io come Pascal cerco ragioni per non credere» (cfr. Avvenire, 27 settembre 2017). Ebbene, il sacerdote ha la missione di far pensare a Dio, di farlo avvertire, di farlo ascoltare, di farlo incontrare. Notate: sentire, avvertire, ascoltare, incontrare. Il sacerdote ha la missione, poi, di offrire doni e sacrifici per i peccati, ossia, di innalzare preghiere, intercedere, celebrare il sacrificio eucaristico per la remissione dei peccati. Il sacerdote è, anzitutto, l’uomo dell’Eucaristia.
La chiave è consegnata al vostro parroco affinché lui per primo preghi silenziosamente, da solo, il Signore eucaristico e poi apra la porta e sia largo nel consegnare a tutti voi il Pane della vita. La Lettera agli Ebrei continua: «In tal modo egli [il sommo sacerdote] è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, perché anch’egli rivestito di debolezza» (Ebr 5,2).
Ecco il vostro parroco, viene in mezzo a voi capace di giusta comprensione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore. Notate la delicatezza di questo testo. Non accenna ai peccatori e ai loro peccati o, se in qualche modo vi allude, salva i peccatori col vedere nei peccati degli uomini degli sbagli dovuti ad ignoranza. Se sapessero, se sapessimo… Vale a dire che il vostro parroco, per la comunione e la conversazione che ha con Gesù Eucaristia, viene a voi come a fratelli, pieno di bontà, di indulgenza, pronto a donare pace a quanti si sentono angustiati e fragili, pronto alla riconciliazione. Del resto, ognuno di noi ripete l’esperienza del figliuol prodigo, si allontana dai suoi, da quelli di casa sua (dal padre e dai fratelli), ma porta con sé la nostalgia della casa paterna e vuol tornarci, anche se a volte non lo dice. Il parroco viene a voi per favorire questo ritorno ed esercita tra voi il sacramento della Riconciliazione, del perdono, dell’abbraccio rasserenante di ognuno con il Signore. Ho confidato a don Carlo come l’essere posto nel confessionale durante il rito del mio ingresso in parrocchia fu un momento sconvolgente. Avevo finito di leggere qualche settimana prima il romanzo di Bernanos “Sotto il sole di Satana” – chi l’ha letto può capirmi. Il sacerdote protagonista del romanzo morì in confessionale sotto il peso delle confidenze che riceveva dai parrocchiani, distrutto dalla incapacità di capire come l’Amore non fosse amato. Auguro al nostro don Carlo di stare molto in confessionale – anche se non sarà quello di questa chiesa perché talvolta è più facile il colloquio spirituale in un’altra postura – e che sia un prete che dona gioia e che rincuora: uomo di rapporti profondi.
Aggiungo per don Carlo alcune parole pronunciate da papa Francesco che parlando, ieri, di noi sacerdoti, diceva: «La formazione sacerdotale non è mai finita. La formazione sacerdotale dipende in primo luogo dall’azione di Dio e richiede il coraggio di lasciarsi plasmare dal Signore». Il Papa era ricorso all’immagine biblica dell’argilla nelle mani del vasaio: «La domanda che deve scavarci dentro, quando scendiamo nella bottega del vasaio, è questa: che prete desidero essere? Un prete “da salotto”, uno tranquillo e sistemato, oppure un discepolo missionario a cui arde il cuore per il maestro e per il popolo di Dio? Uno che si adagia nel proprio benessere o un discepolo in cammino? Un tiepido che preferisce il quieto vivere o un profeta che risveglia nel cuore dell’uomo il desiderio di Dio?» (cfr. Papa Francesco Discorso ai partecipanti al Convegno internazionale sulla “Ratio Fundamentalis”, 7 ottobre 2017). Penso che don Carlo abbia fatto la sua scelta.
E a voi leontini che cosa dico (ma estendo l’interrogativo anche ai tanti non leontini presenti)? Vogliate bene al vostro parroco. Io ho avuto la fortuna di essere stato molto amato dai parrocchiani e di essere stato generato da quell’amore. Vogliate bene ai vostri parroci, vogliate bene e collaborate con loro. E pregate perché il Signore susciti in tanti giovani il privilegio della vocazione. Così sia.

Messaggio del Vescovo agli studenti

Cari amici,
vi scrivo insieme alle comunità che si riconoscono nel messaggio di Gesù e si radunano nelle bellissime chiese di San Marino e del Montefeltro, comunità di cui molti di voi fanno parte e che vogliono essere sempre più aperte e accoglienti verso tutti.
Scrivo a voi, ragazzi e giovani, ai vostri genitori e insegnanti e a tutti coloro che sono al servizio della scuola per augurare un anno scolastico ricco di frutti.
I frutti maturano poco a poco. Resta deluso chi pretende il tutto subito. Si sbaglia chi aspetta pensando che l’albero faccia tutto da sé. Ci vuole terra buona, luce, calore, acqua e la cura del giardiniere.
Penso si possa dire che la scuola è un insieme di “ore di bellezza”: bello scoprire i segreti della natura, una meraviglia tracciare con la penna i segni che trasmettono parole e pensieri. Bello gustare le pagine di poesia e di racconti, scoprire il perché delle cose, e contemplare opere d’arte e musiche che raccontano sentimenti senza sprecare parole. Ore di bellezza: perché è bello stare insieme. C’è chi è più grande e sa prendere per mano i più piccoli per introdurli nella realtà. C’è chi, come un artista, sa cavar fuori da ognuno il meglio che c’è. E gli uni e gli altri crescono insieme, nello stupore dei rapporti che restano belli nella memoria e nei cuori col passare del tempo. Ne sanno qualcosa quelli che, come me, hanno lasciato la scuola da un pezzo, ma che amano fermarsi a guardare le foto di gruppo e a ricordare nomi e soprannomi, avventure e marachelle d’un tempo. Belli i volti, quando c’è purezza nel cuore, perché – come ognuno sa – la bellezza viene da dentro. Belli i volti anche se punteggiati di brufoli, o cicciottelli, o con le orecchie a sventola che fanno simpatia… Bella l’imperfezione perché fa ognuno diverso dall’altro e mette tutti in cammino verso il meglio. Ma la bellezza più bella è aprirsi sempre più alla verità, alla bontà e all’unità: c’è uno spettacolo più grande del mare, il cielo; c’è uno spettacolo più grande del cielo, l’interno dell’anima; c’è uno spettacolo più grande dell’anima, è Colui che tutte le genti chiamano Dio Amore che move il sole e l’altre stelle!

Omelia nella cerimonia di investitura dei Capitani Reggenti

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
San Marino, 1 ottobre 2017

XXVI domenica del Tempo Ordinario

(da registrazione)

Ez 18,25-28
Sal 24
Fil 2,1-11
Mt 21,28-32

Eccellentissimi Capitani Reggenti,
grazie per il servizio di questo semestre.
Auguri ai nuovi Capitani Reggenti. Confidenzialmente verrebbe da chiedervi chissà cosa raccontate di questa esperienza dal punto di vista umano alle persone a voi amiche. Non si esce da questo incarico uguali a come si era entrati. I rapporti con le persone, le esigenze dei più poveri e di chi bussa per cercar lavoro, i contatti internazionali; tutte esperienze che lasciano sicuramente un segno nel cuore.
Voglio anche salutare mons. Giorgio Chezza, incaricato d’Affari della Santa Sede; gli chiedo di portare il nostro saluto a mons. Bernardini, che cede l’incarico ad un nuovo nunzio che verrà nominato.
Infine un saluto ai Segretari di Stato, agli Ambasciatori e a tutti i fratelli e le sorelle che questa domenica gremiscono la Basilica.
Ci troviamo di fronte ad un Vangelo stupendo. Una vigna, due figli e un padre. La vigna non è soltanto fatica e sudore. La vigna è gioia, futuro, promessa di vita, grappoli pieni di sole… Perché allora sottrarsi all’invito di lavorare nella vigna, perché guardare soltanto all’attenzione e alla perseveranza che richiede, alle levatacce che occorrono per averne cura? Ognuno ha la sua vigna. Non parlo solo delle vigne che fanno il buon vino sammarinese, ma parlo della vigna della nostra famiglia, della vigna dello Stato, della vigna della pubblica amministrazione. Ad ognuno la propria responsabilità, la risposta; del resto vivere è rispondere. Rispondere alla chiamata: «Va’ a lavorare nella vigna». I due figli si sbagliano si di fronte alla vigna, perché la vedono solo come un impegno e una fatica; sono poco lungimiranti, anche poco generosi, ma si sbagliano soprattutto sul padre. Lo vedono come un padrone che dà ordini. Il primo dei due figli si ribella, è capriccioso, impulsivo, si contrappone al padre: «Non ne ho voglia, non ci vado»: si smarca. L’altro figlio si potrebbe dire che è servile, dice di sì, è ossequioso nei confronti del padre, forse si rassegna, constata che non si può far diversamente, ma appena vede una possibilità, anziché andare nella vigna, se la “svigna”. Forse il padre era lontano, forse qualcuno ha preso il suo posto, fatto sta che si imbosca.
Facciamo ora il passaggio dalla parabola alla vita quotidiana. Uomini di chiesa – parto da chi sta sul presbiterio – uomini della cultura, uomini della politica, tutti: quante volte ci sbagliamo su Dio perché lo vediamo come un padre padrone e, per difenderci, ci sottraiamo, ci viene da scappare, oppure rasentiamo l’ipocrisia, la doppiezza. Andiamo ma per servilismo. In realtà i due figli sussistono in ciascuno di noi. In ciascuno di noi c’è un po’ del figlio che si sottrae, si ribella, dice “no” e c’è il figlio che dice “sì” e poi non fa. Questa giornata è il momento per ridire il nostro “sì”, non per servilismo, ma perché vogliamo far nostro il progetto della vigna. La vigna è il bene comune, la nostra vocazione, il nostro servizio. Dio non è un padre padrone, ma un amico che ci chiama a collaborare con lui, trasmettendoci la sua passione per la vita. In conclusione, un “sì” che sia “sì”, che ci fa passare dalle parole ai fatti. Non vale dire «Signore, Signore» (cfr. Mt 7,21). Il Vangelo ci ricorda che non l’appartenenza etnico-religiosa mi aggrega al popolo di Gesù, ma la decisione fattiva, operosa, di essere dei suoi. Questo brano di Vangelo costituisce in un certo senso una sberla. Ben venga questa sberla se ci aiuta ad uscire dal perbenismo spirituale. Gesù tenta anche questa via con noi, abilmente ci provoca con l’idea del sorpasso. Ci sono persone che noi riteniamo fuori strada, “bocce perse”, che invece ci passano davanti. Gesù allude al rifiuto di chi dovrebbe accoglierlo. Noi, oggi, vogliamo dire a lui – e dire anche di fronte alla nostra coscienza – il nostro «sì, ci vado nella vigna, per amore».