Omelia XXIV domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
Pennabilli, 16 settembre 2017

Candidatura al diaconato di Vittorio

(da registrazione)

Sir 27,33-28,9
Sal 102
Rm 14,7-9
Mt 18,21-35

Una regola generale e assoluta deve normare i rapporti all’interno della comunità: la misericordia e il perdono, avendo come prototipo quello di Dio verso di noi.
La bellissima ed efficace parabola è preceduta da uno scambio di battute tra Gesù e Pietro. Pietro conosceva bene le esortazioni rabbiniche sul perdono. Esse procedono dalla grande lezione dei libri sapienziali dell’Antico Testamento. Putroppo, al tempo di Gesù, erano racchiuse in uno schema legalistico che si perde a discutere sul cerimoniale… di pace e sul numero massimo dei perdoni legittimi. I rabbini di solito erano d’accordo che il numero di perdoni fosse quattro! Pietro, avanzando fino a sette, pensa di aver fatto il massimo per avvicinarsi al Maestro. Gesù gli risponde in modo sorprendente. Allacciandosi a Gn 4,24: «Lamec sarà vendicato settanta volte sette», Gesù ribalta la cifra della vendetta nella cifra del perdono. «Settanta volte sette» è un ebraismo che significa “sempre”. Non ci sono limiti fra fratelli. Poi segue la parabola. Punto di partenza la misericordia di Dio che è pensato come un signore orientale, supremo giudice sui suoi sudditi (ius capitis). Il debito del suo servo non è realistico: 100.000 monete d’oro (10 milioni di euro!), cifra a quei tempi neppur pensabile. L’esagerazione sottolinea che si tratta di qualcosa di umanamente imperdonabile.
Il servo lo supplica: pagherò un po’ alla volta (promessa risibile). Eppure al re questo atto sincero di disponibilità è sufficiente e, con una mossa a sorpresa, accorda al suo servo infinitamente di più di quanto gli avesse chiesto: gli cancella totalmente il debito.
Il nostro peccato è qualcosa di grande, ma la misericordia è infinitamente superiore. Va al di là di ogni ragionevolezza. Non è misurabile con il metro umano, la si può solo accogliere con fede e gratitudine. Questa prima scena fa da prologo alla seconda che è il centro dottrinale della parabola. Il servo graziato esce e incontra un collega che gli deve 100 denari (15 euro). Non ha pietà. Applica la sanzione giuridica. La terza scena non intende opporre due volti di Dio, ma è funzionale alla seconda scena. È un espediente di Matteo per dare vigore e urgenza all’ammonizione centrale: il perdono assolutamente necessario. Questo è il cemento della comunità (luogo della festa e del perdono) che oggettivizza nella Chiesa quanto Dio ha storicamente compiuto in Cristo. La parabola drammatizza la richiesta del Padre: «Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Mt 6,12). «Padre perdonali, perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34).

Stefano e Filippo, diaconi di Gesù, sono diaconi nel suo Vangelo, diaconi generosi con i loro fratelli, per cui hanno spezzato il pane del Vangelo. Sono passati 2000 anni dalla stesura dei quattro vangeli, ma si può dire che non hanno perso la loro carica, la loro novità. I quattro vangeli assomigliano ad una biografia, ma sono ben di più. Non dobbiamo immaginare gli evangelisti a tavolino che scrivono di getto, penna e calamaio alla mano; la loro opera nasce dalle testimonianze e dai ricordi custoditi con cura dalla cerchia degli amici di Gesù. L’origine del loro scritto ha qualcosa di straordinario. Gesù stesso offre la chiave per interpretare i fatti della sua vita, compresa la sua morte di croce, le parabole, le parole che racchiudono una suggestione profonda. Non è solo una nuova dottrina che affiora, ma la comunicazione di un vigore che mette in moto perdono, libera risorse, apre alla speranza, la stessa sperimentata nei numerosi miracoli compiuti da Gesù. I miracoli si ripetono in forza della fede in Gesù: nemici che si ricongiungono, ricchi che sono disponibili alla condivisione, condannati dalla vita che si rialzano. Più che di miracoli si dovrebbe parlare di miracolo: il miracolo di Gesù. C’era in Gesù qualcosa di così straordinario, impossibile da spiegare con le sole risorse dello storico, che faceva trasalire. Basti pensare al racconto della sua vicenda di morte e risurrezione, del suo rapporto col Padre, della sua tenerezza verso chi aveva sbagliato. Anche oggi i fatti parlano chiaro. In virtù di quell’annuncio c’è chi cambia vita, c’è chi la vita la gioca pericolosamente per lui, chi trova una libertà e una gioia mai sperimentate prima e questo è un fatto: accade. I quattro vangeli sono opera degli evangelisti, ma in fondo sbocciano su questa esperienza originaria, condivisa da tanti, da una comunità.
Diacono, cioè servo del Vangelo. È difficile esserlo? Non è stato facile neppure per i primi discepoli; l’impresa di annunciare il Vangelo era smisurata. Gesù aveva detto: «Andate in tutto il mondo, annunciate il Vangelo ad ogni creatura» (Mc 16,15). L’opera era iniziata, ma l’entusiasmo quasi subito veniva messo alla prova da una terribile persecuzione. I primi messaggeri e testimoni hanno incontrato pericoli e sopraffazioni, hanno affrontato viaggi e fatiche, hanno subito le critiche e le ironie dei sapienti, si sono scontrati con l’incomprensione dei familiari. Era difficile per la novità del messaggio, era difficile per le condizioni di vita e per le vie di comunicazione di allora, ma c’era la certezza – e c’è anche adesso – che il Signore accompagna il messaggero, anzi talvolta il messaggero si sorprende di essere preceduto da lui che apre strade e cuori. E i luoghi del primo annuncio, allora – ma si può dire che possa essere così anche oggi – erano i più disparati. Non solo luoghi pubblici: a Gerusalemme il tempio, ad Atene l’aeropago. Ma anche luoghi feriali: il mercato, le case, le carceri, le locande. Sorprendono soprattutto i contatti tra le famiglie; si discorreva di Gesù nella casa di Priscilla e Aquila, in quella di Cloe, ecc. A ben guardare la fede cristiana non è altro che un racconto, un racconto di Cielo, di un Dio che si fa uomo per amarci, per prendersi cura di noi, per chinarsi come fanno un papà ed una mamma sul proprio piccino. Questo racconto, fatto nuovamente, col cuore, come testimonianza di un incontro reale, vero, autentico, contiene una grazia particolare, quasi un sacramento. I primi cristiani chiamavano questo racconto kerygma. Questo racconto espone chi lo fa ed espone gli ascoltatori alla nuda e disarmante essenzialità della fede cristiana. Poi viene tutto il resto. Se tu per primo – anche noi – ci lasciamo guidare da questo paradosso pian piano si constata che i conti tornano, la vita cambia. Quello che è un racconto – stiamo parlando del kerygma – diviene un racconto sovversivo, perché sovverte la nostra idea di Dio, sovverte la nostra pratica stanca e abitudinaria della fede, sovverte il nostro modo di pensare e di stare in questo mondo.
Caro Vittorio, preparati a questa altissima missione. Dovrai parlare della misericordia del Signore, dovrai dire ad ogni persona, prima con la tua vita e poi con le parole, come diceva San Francesco, che Dio la ama immensamente.

Fatima, il giorno dopo

10 settembre 2017

Siamo già sul volo di ritorno. Dall’oblò dell’aereo guardiamo le luci del tramonto che contrastano violentemente con l’oscurità del suolo. Nel crepuscolo si distingue chiaramente il ricamo della costa sull’Atlantico. Il Portogallo è “paese di scoperte”: sogni, avventure e interessi hanno mobilitato navigatori, affaristi, missionari e… briganti; tutti disposti ad affrontare l’oceano. Noi lasciamo questa terra che porta ancora evidenti le ferite degli ultimi incendi, con in cuore la nostalgia di Fatima: i luoghi semplici, il sussurro internazionale delle preghiere, i sorrisi accoglienti lungo le vie, la figura dei tre pastorelli curiosi nelle loro pose nelle foto d’epoca… C’è diventata cara anche la parlata portoghese col suono nasale di molte finali indicato col segno fonetico della “tilde” e la doppia “esse” con la “c con cediglia”. Obrigado: cortesia e ringraziamento, è la parola che sentiamo più di frequente. Nei menù l’immancabile bacalhao, servibile in centinaia di ricette…
Dopo questa pausa di intensa spiritualità, ricomincia la vita di ogni giorno. Arriviamo a Pennabilli che sono ormai le cinque del 10 settembre. «Mi porto a casa – mi confida una giovane signora – l’importanza delle piccole cose. Abitare la semplicità, il resto lo fa il Signore». «Non cerco il sensazionale. Anzi, mi indispone», replica un pellegrino. «Mi porto a casa l’idea che viviamo gli uni della fede degli altri. La Madonna ci vuole famiglia».
A Fatima siamo venuti a nome di tutta la nostra Chiesa di San Marino-Montefeltro portando la preghiera di famiglie, di gruppi e di amici. Sono stati, appunto, giorni di spiritualità, ma fortemente segnati dalla cronaca, dal viaggio di papa Francesco in Colombia, dalle contraddizioni di questo tempo e dalle minacce di guerra e terrorismo. Anche chi è in viaggio con me ha sentito l’invito della Madonna ad intensificare la preghiera per il dono della pace. È prossimo il mese di ottobre, mese del Rosario. Propongo all’intera Diocesi, alle parrocchie, a ciascuna famiglia di rilanciare questa preghiera semplice ed alla portata di tutti. Il Rosario per la pace… Ma è evidente che la preghiera anzitutto ti cambia la vita: essere pace, portare la pace, fare la pace.
L’ottima organizzazione dell’agenzia che ha organizzato il pellegrinaggio ha segnato sul programma gli ampi spazi liberi chiamandoli “tempo per le devozioni”, ma siamo tornati con la persuasione che a Fatima c’è molto di più: c’è la proposta di un nuovo stile di vita. Arrischio: chiamiamola conversione.

+ Andrea Turazzi

Quando si fa strada insieme

9 settembre 2017

Suor Lucia, una delle veggenti di Fatima, non è assolutamente contenta della scultura in cedro del Brasile che Josè Ferreira Thedim ha realizzato sotto sua dettatura. È una statuetta di appena un metro e qualche centimetro, che dal 1920 è stata collocata nel luogo stesso delle apparizioni. A darle valore è certamente il richiamo simbolico, ma sul posto ci si rende conto, come quell’immagine sia – per così dire – rivestita dei milioni di sguardi fissi su di lei. Anche tra i nostri pellegrini c’è chi l’ha guardata con le lacrime agli occhi e chi ha prolungato il suo sguardo quasi in contemplazione. È questione di fede: non ho visto effetti speciali. È tutto molto semplice. Anche il territorio attorno a Fatima appare come Nazaret, luogo dell’incarnazione. Protagonisti tre fanciulli, ignari di quello che sarebbe accaduto. La Via crucis che abbiamo percorso si snoda fra i campi. Un po’ d’ombra te la offrono gli ulivi che qua e là son cresciuti sul margine della strada.
Le tre giornate di Fatima stanno per concludersi. Oggi, sulla via del ritorno, incrociamo una lunga carovana di pullman che salgono a Fatima. Impariamo che sono oltre 550 (nell’anno del centenario si calcola l’arrivo di 8 milioni di persone).
Qualcuno insinua che a Fatima si concentri un cattolicesimo tradizionale, luogo di devozione popolare soltanto. Sì, c’è un popolo intero: famiglie, gruppi di ragazzini, preti rigorosamente in tonaca nera nonostante il caldo, preti più sbarazzini, persone che esibiscono senza complessi il loro entusiasmo, altre più compassate. Ci sono anche i turisti e i curiosi. È uno spaccato del popolo di Dio in questi giorni difficili.
La liturgia è semplice ma molto curata, rigorosamente conciliare. Le preghiere, ripetute in molte lingue nazionali, non ti danno la sensazione di una Babele, semmai di una Pentecoste. Il repertorio dei canti si aggiorna, ma di frequente rispuntano le intramontabili diciotto note dell’Ave Maria di Fatima che poi continuano a risuonarti e ad accompagnarti dentro. Ho imparato – non me n’ero accorto – che molti del nostro gruppo, la mattina presto vanno alla cappella delle apparizioni per un saluto più intimo alla Madonna di Fatima (prima ancora della colazione che viene servita puntualmente alle 6.30). Domando che cosa dicono, che cosa chiedono alla Madonna. Raccolgo qualche confidenza e qualche confessione. Un’amica mi riferisce d’aver sentito in tutta la sua verità la frase di Gesù a Santa Caterina da Siena: «Mi sei piaciuta soprattutto quando eri senza parole, in silenzio davanti a me».
In compagnia di una guida italo-portoghese abbiamo la possibilità di capire qualcosa della storia e della civiltà lusitana (del Portogallo) e del cammino contorto che l’ha resa una potenza tra le più importanti dell’Europa, aperta a quella che viene chiamata la stagione delle scoperte (attenzione, ripete la guida, è riduttivo parlare di scoperta dell’America). Abbiamo tempo per visitare due straordinari edifici religiosi, due chiese esempio del gotico cistercense: si slanciano per oltre cento metri con fasci di colonne che ne aumentano il misticismo. Misticismo, austerità, bellezza: uno shock per tutti!
Poi chiudiamo con una visita veloce alle città regali Coimbra e Oporto. Intanto la compagnia è sempre più coesa. Succede sempre quando si fa strada insieme. Ma qui c’è di più. Lo si è sperimentato nei momenti di comunione d’anima. Ti accorgi allora di come si vive della fede degli altri e si mette a disposizione la propria.
L’ultimo atto in terra lusitana è la Messa: c’è il Vangelo che riporta la promessa di Gesù: «Dove due o più sono uniti nel mio nome io sono in mezzo a loro». Noi ne abbiamo fatto esperienza.

+ Andrea Turazzi

A Fatima è pieno giorno!

Continua il reportage da Fatima

8 settembre 2017

 

Ressa di pellegrini. Spostamenti frequenti. C’è chi resta indietro, c’è chi è in testa. Punto di riferimento per il nostro gruppo è “il muro di Berlino”: si tratta di un segmento di cemento che proviene dalla città tedesca, donato da San Giovanni Paolo II all’indomani dell’abbattimento del muro che tagliò in due Berlino. Ogni volta che entriamo nello spazio sacro del santuario sta davanti a noi come una lacrima pietrificata: simbolo di divisione, di sofferenza, di morte e di morti.
Ricordo bene quando il muro fu eretto (all’epoca ero un ragazzino che cominciava a capire): ci appariva come una lama che squarciava in due l’Europa. Qui si prega per la pace.
Fatima è così: spiritualità profonda e radicamento nella storia, profezia e realismo. Il messaggio è chiaro: la pace dipende da te. Anche se sei un “piccolo”, i destini del mondo passano, in qualche modo, dalle tue mani e dal tuo cuore disposto alla conversione.
L’invocazione alla Vergine ti esce semplice e convincente: le parli delle persone che si sono raccomandate al tuo ricordo e poi delle infinite altre che, proprio in questi giorni, sono sotto la minaccia della guerra.
Poi si sta alla scuola di Maria per imparare a dire “sì”.
Il nostro gruppo – i cinquanta pellegrini di San Marino e del Montefeltro – si unisce agli altri pellegrini della Romagna.
A sorpresa mi viene chiesto di presiedere la processione eucaristica notturna.
Salgo i gradini dell’altare candido. Alle spalle la piccola statua della Madonna, un tentativo ambizioso di raffigurare la Signora che i tre pastorelli hanno visto; davanti ho la folla dei pellegrini che al canto dell’Ave alzano i flambeaux: un mare di luci. Poi ci inginocchiamo tutti davanti all’Ostia.
«È tanta la fame dell’umanità – diceva profeticamente il mahatma Gandhi – che se un Dio scendesse dal cielo prenderebbe la forma del pane». Davanti al “Dio di pane” siamo tuffati da capo a piedi nella profezia del mondo unito: formiamo un corpo solo. Ci sono rappresentate almeno dieci nazionalità diverse e la Repubblica di San Marino è tra queste (salutata cordialmente dallo speaker). Il vescovo di Rimini nella sua omelia riferisce un detto rabbinico. È il maestro che chiede ai discepoli il momento esatto nel quale la notte cede al giorno. C’è chi risponde «quando si distingue un pero da un melo». Qualche altro «quando si distingue un cane da una pecora».
Insoddisfatto il maestro replica: «È giorno quando vedi in chi ti passa accanto un fratello».
Per noi, cercatori di gloria – conclude mons. Lambiasi – ecco il capovolgimento divino: è Dio che scende e che si fa piccolo. Un cazzotto alla nostra idea sbagliata di Dio.
Qui a Fatima è pieno giorno!

+ Andrea Turazzi

Reportage dal pellegrinaggio a Fatima

L’aereo è già sulla pista, pronto ad imbarcare i cinquanta pellegrini che, in rappresentanza dell’intera diocesi di San Marino-Montefeltro, decolleranno per il Portogallo. Destinazione Fatima. Poche ore di volo, ma tante di attesa (problema la sicurezza in questi giorni di “guerra a pezzi”). Le valigie sono ormai al sicuro nella stiva del Boeing della Ryanair… E nei cuori tante attese e grappoli di preghiere da adagiare ai piedi della Vergine. Col taccuino e la penna mi aggiro a caccia di pensieri ed emozioni. Curioso tra i pellegrini. Raccolgo impressioni, chiedo i “perché” di questo viaggio. Dopotutto la meta turisticamente non è tra le più gettonate, senza nulla togliere al fascino di Lisbona immortalato in celebri pellicole, o al grande orizzonte lusitano sull’oceano Atlantico da dove Cristoforo Colombo è salpato alla scoperta del nuovo mondo (un vero spettacolo dall’oblò dell’aereo). La Cova di Iria non riserva nulla di spettacolare: terra povera e sassosa, terra collinare e di pascoli. Qui, il 13 maggio di cent’anni fa, tre pastorelli, Lucia, Francesco e Giacinta, mentre pregano il Rosario, d’improvviso scorgono su un arbusto una signora vestita di bianco. È l’inizio delle apparizioni della Madonna: per sei mesi consecutivi la Vergine si presenterà ai pastorelli e parlerà a Lucia chiedendo preghiere, penitenze e conversione per la pace nel mondo. Il momento era drammatico: nel 1917 la prima guerra mondiale era in corso e in Russia si è compiuta la “rivoluzione d’ottobre”. A Fatima risuona ancora oggi l’invito a contrastare la logica della violenza con la fede. Un’esortazione quanto mai attuale data la caotica situazione che il mondo sta vivendo. Per questa ragione, sei mesi fa, papa Francesco, seguendo le orme dei predecessori è andato a Fatima come pellegrino di pace e di speranza e per proclamare la santità di Giacinta e Francesco, morti poco dopo le apparizioni. Per Lucia, che si è spenta nel 2005 nel monastero in cui aveva deciso di entrare come religiosa, ci vorrà ancora un po’ di tempo.
«Sono qui per vedere se Fatima mi suscita qualcosa dentro»: così mi confida una giovane signora poco disposta ad indulgere ad emozioni artificiose. Si direbbe che è alla ricerca di qualcosa di autentico che possa arricchire il suo cammino di fede. Una coppia di sposi vive il pellegrinaggio come una sorta di ritiro: «Ci hanno parlato del clima spirituale che avvolge Fatima e dintorni. Spettacolare la grande basilica, ma con la possibilità di godere spazi di raccoglimento e di preghiera. Abbiamo bisogno di questi tre giorni speciali e forti». «Effettivamente il programma per i nostri pellegrini – interviene Chiara Ferranti, guida del viaggio – offre momenti intensi di preghiera, ma anche di conoscenza dell’ambiente». «Sono qui per coronare il cammino di questo anno centenario – conclude un sacerdote – ho da adempiere una promessa». Per molti pellegrini è la prima volta. Qualcuno è già stato e tiene banco azzardando confronti tra Fatima e Lourdes. Ci sono dei momenti nei quali può succedere di sentire con l’anima una particolare presenza di Maria. In tutti prevale l’attesa, il desiderio di un incontro, la voglia di scoprire un rapporto più profondo con la Madre del Signore Gesù. E poi – come in ogni pellegrinaggio – la scoperta di nuove relazioni: davvero una bella compagnia.
A Fatima si pregherà per la pace, per le famiglie e soprattutto per la Diocesi che nel mese di settembre si appresta a vivere momenti importanti: l’inizio solenne della Visita Pastorale del Vescovo, il Mandato agli operatori pastorali e l’apertura dell’anno pastorale. Il 13 maggio scorso – sarà bene ricordarlo – diocesi, parrocchie e famiglie sono state consacrate al Cuore Immacolato, una consacrazione che ha comportato l’assunzione di precisi impegni: la difesa della vita dal suo inizio al suo naturale termine, la costruzione dell’unità in parrocchia e l’ascolto e l’educazione dei giovani.

+ Andrea Turazzi

Omelia per la festa di San Marino

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
San Marino città, 3 settembre 2017

(da registrazione)

Eccellenze carissime, signori Segretari, fratelli e sorelle,
auguri per questa nostra festa, auguri a tutti;
mi dovete permettere di rivolgere un saluto specialissimo ai nostri giovani.
Quest’anno, cari ragazzi, ci sentirete molto parlare di voi, ci stiamo preparando al Sinodo dei Vescovi dedicato proprio al tema: “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale”. San Marino è lontano da noi nel tempo, ma è così vicino e caro a tutti noi che quasi ci succede di identificarci con lui; per esempio, quando ci chiedono “di dove sei?” e rispondiamo “sono di San Marino”, indichiamo il luogo dove abitiamo, ma anche un’appartenenza: “Io sono di San Marino, ho un legame con questa persona così cara”. Non sono uno storico, non so tracciare ciò che manca ai documenti per ricostruire la figura di san Marino, quindi non mi permetterei mai di fare un “restauro interpretativo”, ma prendo quello che di lui ci dice la liturgia di oggi. E in particolare sottolineo un aspetto: Marino era un cercatore della verità, non uno che la sbandiera come sua proprietà, ma uno che è in continua ricerca. Nella prima lettura si parla di un “cercatore della sapienza”. C’è tutto un fiorire incalzante, suggestivo, di verbi. Quel cercatore rincorre la sapienza perché vuole capirne i segreti, addirittura si apposta quasi come uno che vuol fare un agguato, tende il suo orecchio, la spia, si ferma nei pressi della sua dimora, pone la sua tenda accanto, fissa un chiodo alle sue pareti per dire che di lì non se ne vuole andare; gli è troppo cara la sapienza. E poi mette se stesso e i propri figli sotto la sua protezione e lui stesso si difende alla sua ombra, ma alla fine è lei, la sapienza, che gli va incontro come fa una madre premurosa, o una sposa innamorata. Infine, continua il libro del Siracide, la sapienza lo nutre, lo disseta, lo sostiene, non lo delude: la sapienza non delude mai. E il cercatore a lei si abbandona fiducioso. Ecco il ritratto che la liturgia ci offre; per lo meno uno dei profili della figura di Marino, cercatore della sapienza. Chi è cattolico si riconosce in pieno in questa sua eredità e la trova ancora fresca, ma sa che potrà esser sua solo se la riconquista: occorre riguadagnare per ripossedere. C’è la gratitudine ma anche la responsabilità. Chi è laico gode di questa eredità perché in essa è contenuta una perla preziosa (e gli conviene).
Oggi in un’unica solennità celebriamo la fondazione della nostra comunità civile e il santo suo fondatore. Nella stessa comunità la dimensione religiosa e quella civile si sono intrecciate, unite ma non confuse, inseparabili ma senza prevaricazioni. San Marino – l’abbiamo detto più volte – non intese fondare una comunità religiosa come un monastero a cielo aperto, un sistema integralistico, ma una società fraterna. Avrà avuto certamente di fronte al suo sguardo la comunità cristiana dei primi tempi, una comunità che a volte ci succede di chiamare “ideale”, ma il termine è improprio perché quella comunità è programmatica per noi. «Erano un cuor solo e un’anima sola» (At 4,32). In questo sistema di sapienza «si dà a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio» (Mt 22,21). Da sempre la nostra tradizione ha promosso, più o meno consapevolmente, più o meno felicemente, il valore della laicità, facendo vivere insieme persone di diverse sensibilità e orientamenti. Questa apertura trova uno dei suoi punti di forza in una visione integrale della persona, propria dell’antropologia cristiana. Chi non è credente non tema le radici cristiane della nostra comunità, perché proprio su queste radici cristiane si fonda il rispetto e la libertà di ognuno. La nostra libertà è reale, non per concessione di qualcuno, ma perché fondata sulla dignità della persona. Chi è credente sa che può contare sul rispetto e sulla considerazione di chi afferma il valore dell’umanesimo.
È anche tempo, oggi, di considerare brevemente le virtù civili. Virtù è parola piuttosto desueta oggi, eppure è parola suggestiva. Virtù è una forza interiore permanente fino a diventare un abito, un abito operativo, cioè un’abitudine nel senso positivo del termine, un atteggiamento permanente. Accennerei appena a due virtù civili che in questo momento ci sono necessarie. La prima virtù: la disponibilità alla collaborazione (vorrei dire alla cooperazione), cioè l’attitudine a tener fisso lo sguardo sul bene comune, al mettersi insieme, astenendosi dai particolarismi per ottenere il meglio a vantaggio di tutti. Ci sono diversità di posizioni, ma talvolta bisogna anche saper andare oltre in vista del bene comune. Questo vale per le istituzioni, ma vale anche per la comunità cristiana e per le famiglie. Da notare che il Vangelo dice: «Voi siete luce». Non dice io, tu, ma voi, cioè io e te insieme. Quando un io e un tu si incontrano generando un noi, in quel noi, sia il noi della famiglia dove ci si vuol bene, sia il noi di una comunità dove si accoglie o il noi di una società solidale, è conservato il senso e il sale del vivere. C’è anche un’altra virtù civile di cui vorrei sottolineare l’importanza: l’onestà. Noi diamo molto valore all’educazione della famiglia. La famiglia onesta – si dice – non è più importante di una famiglia abbiente o ricca. Diamo valore alle istituzioni educative, all’impegno di associazioni, gruppi, movimenti, ma è fondamentale la formazione della personale coscienza. Al di là del ruvido dell’argilla di cui siamo fatti, nella cella segreta del cuore là troviamo sempre una luce accesa, una manciata di sale. Permettetemi di leggere una pagina di un sapiente caro all’umanesimo e caro alla tradizione ascetica spirituale cristiana, Seneca, che così scrive in una sua opera: «Quanto tranquillo, quanto profondo e libero, dopo che l’animo o è stato lodato o ammonito e, da osservatore e censore privato di se stesso, ha concluso l’inchiesta sui suoi costumi. Io mi avvalgo di questa possibilità e mi metto sotto processo ogni giorno. Quando hanno portato via la lucerna e mia moglie, che conosce la mia abitudine, tace, io scruto l’intera mia giornata e controllo tutte le mie parole ed azioni, senza nascondermi nulla, senza passar sopra a nulla. Perché dovrei temere uno qualunque dei miei errori, se posso dire: “Questo, vedi di non farlo più; per questa volta, ti perdono. In quella discussione sei stato troppo polemico; impara a non contendere più con gli incompetenti, che non vogliono imparare, perché non hanno mai imparato. Hai rimproverato quello là con eccessiva franchezza, quindi non lo hai corretto, ma offeso; d’ora in poi, non guardare soltanto se è vero quello che dici, ma anche se la persona alla quale parli è in grado di accettare la verità”. L’uomo buono gradisce un ammonimento, ma tutti i cattivi sono estremamente restii ai pedagoghi» (De ira, Libro III, 36, [2,3,4]).
Oggi siamo tutti in festa. Scambiamoci un regalo, il regalo della reciproca stima, accompagnata dalla messa a disposizione del meglio di noi stessi.
Per quanto mi riguarda inizierò la visita pastorale nella Repubblica di San Marino il prossimo 16 ottobre. La visita pastorale di un vescovo è un incontro, non è un controllo delle comunità cristiane. È un incoraggiamento, è un ravvivare rapporti di luce. La processione che speriamo di poter fare al termine della Messa è per noi credenti il segno che «Dio visita il suo popolo» e, attraverso Marino, benedice tutti.