Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
Basilica del Santo Marino (RSM), 1 aprile 2016
Mt 18, 1-4
Quasi spintonandosi, gli apostoli si chiedono chi è il primo tra loro – così almeno nel racconto secondo Luca (cfr. Lc 9, 46-48). Qui invece, la domanda è posta meglio: «Chi è il primo nel Regno dei Cieli?». Chi dice “regno”, dice grandezza; ma Gesù si appresta a dire che non è questa l’unità di misura. E poi non argomenta con gli strumenti della Teologia, preferisce porre un gesto semplice, concreto, simbolico, “teatrale”: chiama un bambino e lo pone “nel mezzo”, davanti a tutti. Proviamo ad immaginare la scena. Un bambino intimidito, sorpreso, perplesso, che di colpo si trova messo davanti a tutti, forse a gente sconosciuta. Al tempo di Gesù, il bambino non era molto considerato: era una bocca in più da sfamare. Il bambino spesso è monello, non sta zitto, fa chiasso, è buono solo a piccoli servizi. Gesù dice: «Guardate, guardate bene questo bambino».
Non ci è stata riferita la reazione del bambino. Comunque, egli ha ascoltato la chiamata di Gesù, ha interrotto i suoi giochi – per un bambino sono una cosa seria – si è lasciato mettere nel mezzo, si è fidato. Amabilità di Gesù! Badate bene, non ho detto abilità di Gesù, ma amabilità. In verità, quel bambino, divenuto improvvisamente attore, ci rappresenta tutti e le parole dette in quella circostanza ci riguardano da vicino. Quel bambino, come tante altre figure anonime dei Vangeli, è tutt’altro che comparsa. È un modello e introduce nella scena un raggio di sole, una scena oscurata dalle beghe, dai litigi degli apostoli ancora in formazione (non è ancora accaduta la Pentecoste). Mi raffiguro Gesù che sorride davanti a tale scena, divertito da questo contrasto. «Chi è dunque il più grande nel Regno dei Cieli?». Domanda molto umana – direi di attualità – soprattutto nel nostro mondo caratterizzato da competizioni, concorrenze, sospetti, rivalità. Gesù mette in mezzo un bambino, cioè una fragilità, un’innocenza, una semplicità, un’umiltà. Sì, Gesù invita tutti noi a conversione, per diventare piccoli «come bambini», il che, ovviamente, non significa essere puerili e neppure esibire una fastidiosissima falsa umiltà. Si tratta, semplicemente, di spogliarci delle nostre presunzioni, delle nostre pretese di essere i migliori e di lasciar da parte i nostri giudizi sugli altri. Il bambino posto nel mezzo, al centro di quella drammatizzazione organizzata da Gesù, ci riporta la metafora della vita come palcoscenico, come teatro, metafora tanto cara a Shakespeare. Si entra in scena, si recita la propria parte, si esce di scena, più o meno drammaticamente. Il mondo, la nostra società, sono teatro e noi gli attori. La nostra Repubblica sicuramente è uno scenario e, in senso molto particolare, è spettacolare. Ciò è evidente in questa circostanza, non tanto per il folclore, ma per l’esperienza che ci fa vivere. I Capitani Reggenti si succedono investiti di un’autorità che viene data loro, perché è più grande di loro, li precede, e dovrà essere riconsegnata perché non è di loro proprietà. Sono a servizio di una maestà che non gli appartiene. E questo non è spettacolare? Inoltre, qui in Basilica e, prima e dopo nei palazzi istituzionali, si assiste al convenire di ambasciatori, rappresentanti di tante nazioni che l’antica Repubblica raduna ogni volta tessendo e rafforzando una rete di amicizie. E non è spettacolare questo? Il teatro, il palco, la scena, mettono in mostra e fanno interagire i personaggi, ognuno secondo la propria parte. Tale metafora ci responsabilizza: il popolo, i rappresentanti delle nazioni, i chiamati a governare e rappresentare la Repubblica, il Vescovo insieme al suo presbiterio, devono fare bene, tutti, la propria parte. Ed è per questo che chi è credente prega il Signore e chi è di altra convinzione si raccoglie silenzioso davanti alla propria coscienza. La metafora della vita come teatro suggerisce anche la possibilità – consentitemi – di cadere nell’ambiguità; la scena può essere calcata per mettersi in mostra, per mostrarsi non per quello che si è veramente e allora può essere l’occasione per andare a caccia di applausi, dunque finzione, col rischio – lo corriamo tutti – dell’ipocrisia. Recitiamo la parte di chi si sente a posto e magari attribuisce agli altri gli errori. Tutti abbiamo bisogno di conversione, di autenticità, di farci dono di reciproca fiducia. Tutti possiamo rimetterci alla scuola del “bambino evangelico”; è così che si entra nel Regno dei Cieli – questione centrale per un cristiano – così s’accorciano le distanze e si realizza la preghiera di Gesù: «Che avvenga in terra come in cielo» (Mt 6,10). Ce l’ottenga l’intercessione di Santa Teresa di Lisieux che oggi ricordiamo come modello dell’infanzia evangelica. Così sia.